Sul "parlare a vanvera" manageriale come ideologia
- di Jean-Luc Debry -
Nel momento in cui il discorso dominante, portato avanti dalle istituzioni (pubbliche e private) viene riprodotto dagli individui che in esso si identificano, si arriva a convincersi che sia la descrizione del "reale", e che pretendere il contrario sarebbe solamente un miserabile tentativo volto ad invalidare la realtà, allora l'alienazione moderna diventa il cuore di ciò che ci costituisce in quanto soggetto sociale, ossia il linguaggio. La penetrazione dell'ideologia manageriale nella carne e nell'inconscio dei salariati convertiti alla "cultura d'impresa" passa, ormai, attraverso l'utilizzo di un gran numero di espressioni, di parole e di costruzioni sintattiche il cui uso conferisce loro pertinenza, imponendole come altrettante prove del fatto che non c'è più da discutere; il messaggio semplicistico veicolato da un Macron [N.d.t.: funzionario, banchiere e politico francese, Ministro dell'Economia, dell'Industria e del Digitale nel Governo Valls II dal 26 agosto 2014] ne è diventato la caricatura.
Agendo sulla funzionalità delle parole, quest'ideologia assoggetta la realtà al proprio linguaggio non solo fino a nascondere i rapporti di dominio che attraversano le sue "linee gerarchiche", ma anche fino a contaminare le relazioni fra colleghi, fra vicini e persino fra amici. Queste espressioni che proliferano con sconcertante naturalezza sulla stampa, nelle trasmissioni radiotelevisive, dalle più banali alle più "culturali" - ma anche e soprattutto durante la pausa-caffè, alla mensa, nelle riunioni di servizio, o al centro per l'impiego - parassitano tutte le conversazioni, dalle più innocue fino alle più pretenziose. Diffuso come se fosse un segno di riconoscimento (vedete come sono "moderno"), questo linguaggio del management si insinua in maniera sintomatica in tutti i settori dell'esistenza, riportando e riferendo ogni configurazione umana al primato dell'economico: gestire, performare, investire, aspettarsi un ritorno sull'investimento, vendere.
L'ideologia manageriale che imperversa oggi nell'impresa rientra, ovviamente, nell'ambito di una volontà diffusa di rinchiudere nella sua logica la totalità delle "relazioni umane". Soprattutto ed in particolare sulla bocca di quelli che si fanno i gargarismi con il "valore lavoro". Le strutture della lingua manageriale agiscono da "argomentazioni inconfutabili". Tanto più che ormai le imprese dispongono di servizi specializzati (comunicazioni, risorse umane, marketing...) assai ben forniti di giovani "talenti", adepti di questa disciplina. Una certa forma di ipocrisia - o di ingenuità -, o un po' di entrambe le cose, senza dubbio agisce come componente indispensabile di una "cultura dell'eccellenza" autoproclamatasi tale.
Per il salariato, accettare, come se fossero degli eccipienti, le sue mezze-verità o mezze-bugie cariche di banalità, è diventata condizione necessaria per la sopravvivenza, se non vuole correre il rischio di essere marginalizzato - o, peggio ancora, "passare" per uno che rifiuta di "vivere secondo il suo tempo". Pur con fortune alterne, certo, l'istinto di sopravvivenza impone di sapersi piegare a questo uso del "parlare a vanvera". In altre parole, ciò che viene definito con il termine di "manegement" vive e prende corpo in una parola ammalata dei suoi imperativi categorici. Eccellere in quest'arte di connivenza svolge in qualche modo la funzione di viatico. L'importante è che si dia prova della propria adesione ai "riti, rituali e codici" che danno alle pratiche collettive quel tono di socialità "felice". Dal momento che in materia di ideologia manageriale, ci troviamo certamente nel registro del simulacro, ma di un simulacro incarnato con una convinzione tale da essere confusa con l'entusiasmo e con il mutuo consenso.
Ciò che viene qualificato come "motivazione", categoria a partire dalla quale i comportamenti del salariato vengono "valutati" positivamente o negativamente, si conferma nella "capacità" del candidato (si tratta quindi di "capacità" e di "competenza") a maneggiare un linguaggio appropriato, trasformato in semplice segno "osservabile e misurabile". Questo linguaggio, queste espressioni convenute e ricorrenti, condizionano la sua integrazione in questa mascherata che ha peso il posto - e con quali pretese! - della socialità.
Ma, dal momento che la sopravvivenza del salariato nel suo ambiente dipende, in gran parte, dalla sua capacità di moltiplicare i segni di fedeltà, non esiste alcuna alternativa possibile a che non venga candidato all'esilio sociale, al declassamento ed alla marginalizzazione. In questo universo privo di spirito e di eleganza, i narcisisti pervertiti - che manipolano le emozioni per dominare i desideri inconsci (soprattutto il "bisogno di riconoscimento") - possono dispiegare la loro abilità e, se vogliamo, nuotare come pesci nell'acqua del bagno della buona coscienza che il discorso prevalente fornisce loro. A rischio di trasformare i loro vizi privati in pubbliche virtù.
È così che l'intento meccanico del discorso manageriale riduce il linguaggio ad una procedura operativa al servizio della "performance". Il linguaggio viene rinchiuso in una razionalità economica (in quanto, in fin dei "conti" ed alla fine, tutto quanto si riduce ad una formula semplice: "quanto costa e quanto frutta?"). E ciascuno e tutti finiscono per ammettere che, nei registri della vita professionale, ma anche della vita privata - e quindi nell'intimo -, il Bene ed il Male, il Buono ed il Giusto, la Verità, isomma, si misurano secondo quest'unico criterio.
Le norme comportamentali sono sottomesse alla categorie dell'efficienza. Nella negazione dell'inconscio, esse riducono ogni forma di desiderio all'espressione di una volontà. Quest'efficienza suppone un'investimento senza riserve del soggetto dell'enunciato in quanto "imprenditore di sé stesso". La scena sulla quale si dispiega l'ideologia manageriale, attraverso e grazie a questa forma di "neolingua", è ingombra di ambizioni egotiste. Come quella della riuscita individuale del soggetto, persuaso della sua onnipotenza - in cui in buona parte nondimeno rientra l'incantesimo per cui si "vende" lo "sviluppo personale" in quanto forma di salvezza universale. Mentre, come sottolinea Béatrice Hibou, la burocrazia liberale [*1] allontana l'agente economico - produttore e consumatore - da ogni forma di controllo a profitto di "una razionalizzazione e di una divisione dei compiti". E le cose non potranno mai andare in maniera diversa finché la "cultura del risultato" assumerà il ruolo di etica, "esorcizzando" lo spirito critico.
- Jean-Luc Debry - Pubblicato su A contretemps il 9/6/2016 -
[*1] Béatrice Hibou, La Bureaucratisation du monde à l'ère néolibérale, Paris, La Découverte, collection « Cahiers libres », 2012.
fonte: A contretemps
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