Vivere la Comune
L'opposizione al progetto di legge "lavoro" ed al suo mondo si è diversificato a partire dall'effervescenza dei blocchi e degli scioperi, ma le piazze rimangono punti nodali del movimento, punti di partenza per degli straripamenti, spazi di discussione collettiva dove si sviluppa una critica emancipatrice. Ma si deve constatare che l'attuale occupazione delle piazze è in parte diventata una alter-politica, che rischia di raggomitolarsi su sé stessa per poi morire lentamente ma sicuramente e finire per dar vita ad un partito di alter-governo del capitalismo. La tensione fra i due orizzonti, quello delle comuni insorte e quello della riproduzione mimetica del parlamentarismo sotto forma"autogestita", è palpabile.
Nuit debout rischia di diventare un'autogestione della politica, una fase preliminare (vedi "Podemos") ad una cogestione del capitalismo. E quindi si prepara, o piuttosto si stanno preparando - le stelline dell'altercapitalismo ambient, gli economisti spaventosi ed altri cittadinisti se non addirittura confusionisti - con un florilegio di discorsi sub-riformisti, di proposta alter-politica e di programmi di governo... del capitalismo. Si organizza una commissione "Costituente", per evitare ogni destituzione emancipatrice dell'ordine esistente e della sua costituzione sociale statal-capitalista, a favore di un'ennesima Repubblica capitalista di segno "sociale". Si richiede una riproduzione del medesimo sistema di Stato parlamentare però spruzzato con il metodo del sorteggio, una maniera elegante di abdicare all'auto-organizzazione delle nostre vite. Si discute in maniera frivola di incatenare tutta la nostra vita al lavoro salariato, al lavoro-merce, al capitalismo, e di altre misure di gestione della miseria economica, che è allo stesso tempo miseria esistenziale.
Non facciamoci imbrogliare: Nuit debout, come alter-politica, non potrà pervenire che ad una riproduzione della politica come rovescio dell'economia, del capitalismo. Potrà soltanto, per mezzo dei suoi simulacri di voto delle misure governative, se va bene, perdere il suo tempo anziché agire collettivamente e costruire un'immagine emancipata dal capitalismo e dallo Stato, e se va male, prepararsi ad una cogestione della crisi del capitalismo in crisi.
L'altra faccia dell'occupazione delle piazze è tuttavia quella di essere un punto di partenza per orizzonti post-capitalisti. È tale slancio che dev'essere spinto ancora più avanti, perché si trasformi in luogo di immaginazione collettiva di un altro mondo che sia davvero altro, che porti con sé altre rivolte, e che permetta la riappropriazione di una molteplicità di luoghi insieme ad un blocco dell'economia. È questo luogo della Comune, straripante, che noi ricerchiamo, un'occupazione che vada oltre sé stessa, oltre il suo stesso spazio.
Luogo della Comune?
La politica parlamentare, cacciata dall'Assemblea Generale, torna nell'Assemblea Generale. Quando l'auto-organizzazione quotidiana di una rivolta si trasforma in alter-parlamentarismo, in votazionismo, in alter-politica separata, significa che sta fallendo. L'alter-parlamentarismo, significa riprodurre lo spazio separato del Parlamento, in cui vengono votate collettivamente delle proposte di governo del capitalismo. Il votazionismo, vuol dire votare in maniera procedurale senza che venga lasciato spazio alle iniziative autonome, spontanee; ma soprattutto, votare delle proposte elettorali in divenire. L'alter-politica, è l'eterno ritorno di una politica separata, separata dai nostri desideri erotici di rivolta, separata dalle altre rivolte, separata dalla nostra vita quotidiana irrimediabilmente sottomessa al capitalismo.
La politica, anziché essere vita come mobilitazione collettiva del nostro potere di agire, si allontana in una una rappresentazione, nell'assemblea come spettacolo, come simulacro auto-referenziale, della vita collettiva. In questo modo, si ricostituisce sotto forma di uno spazio separato, come rappresentazione teatrale, a detrimento di un agire rivoltoso e della costruzione di immaginari emancipati dal capitalismo. Accetta che a lato di un micro-spazio di decisione collettiva e di auto-organizzazione esista un macro-spazio di impotenza collettiva e di organizzazione eteronoma, che in fondo si tratterebbe solo di conquistare elettoralmente e potenzialmente.
Niente decisioni, niente rivolta, niente auto-organizzazione al fuori delle piazze: ecco verso cosa ci porta l'alter-politica ed il suo "paradiso" separato. Anziché distruggere la politica in quanto sotto-sistema capitalista, ci si accontenterebbe quindi di "giocare alla democrazia" in un teatro globale rimasto invariato.
L'alter-politica gioca al parlamentarismo autogestito, trasformando tendenzialmente i nostri desideri in programma elettorale, il nostro prendere la parola in voti. Il luogo stesso della Comune si riconfigura in funzione di quest'ottica alter-politica: diventa uno spazio rinchiuso su sé stesso. In numerose città, Nuit debout non è un punto di partenza delle rivolte, ma un punto di arrivo, un regime permanente, il cadavere delle nostre insurrezioni. La critica dell'assemblearismo non è affatto un appello ad abbandonare le piazze o a sciogliere tutte le assemblee. Affinché la politica cessi di essere un'alter-politica separata dalle nostre vite, l'assemblea deve cessare di costituirsi in Assemblea. Deve legare le soggettività, finora frammentate in lotte riformiste settoriali, deve trasformarle in rivolte auto-organizzate che agiscono di concerto contro questo mondo, deve diventare blocco generalizzato dell'economia.
L'assemblea riunisce degli individui separati nella vita quotidiana, ma li riunisce in quanto separati. L'Assemblea Generale serve in parte da valvola di sfogo per i frustrati della parola venuti a rigurgitare le loro opinioni e la loro indignazione personale, a detrimento di una costruzione collettiva. Le commissioni democraticiste diventano dialoghi fra sordi dove ciascuno va a promuovere il suo prêt-à-penser ideologico personale o, peggio, una comunione simbiotica di vittime lobotomizzate dai video confusionisti o alter-capitalisti. In breve, un aggregato di individui piuttosto che una riunione di comunardi, degli spettatori separati dal loro proprio spettacolo.
Contro questa tendenza, ritroviamoci, creiamo delle relazioni amicali e politiche. In assemblea, le nostre relazioni rimangono non-dirette, mediate con l'Assemblea come intermediario obbligatorio. Ritrovarsi, al contrario, significa creare delle relazioni immediate, amicali, senza struttura di intermediazione al di fuori di noi (lavoro, politica, spettacolo...), relazioni "politiche" in quanto relazioni fra auto-organizzati, rivoltosi, per una società emancipata.
Le assemblee e le loro piazze tuttavia non possono essere intese se non come parte di uno spazio più ampio, quello delle città, delle metropoli, quello di queste materializzazioni concentrate di esigenze del capitale. Il movimento delle piazze si scontra con un altro ostacolo diverso da quello delle forze repressive scatenate e da quello delle tendenze alter-politiche: quello della sua stessa iscrizione urbana.
La città
La città è organizzata nella misura in cui organizza. Come le nostre vite, essa è divisa, frammentata in differenti zone specifiche che sono allo stesso tempo delle temporalità: a ciascun momento separato corrisponde il suo luogo specifico. La zona di abitazione, la zona commerciale, la zona industriale, la zona degli uffici, la zona ricreativa. Ciascun spazio svolge una funzione esclusiva che deve rispondere ad uno dei tempi dell'inesistenza dell'individuo contemporaneo: lavorare, alloggiare, nutrirsi, distrarsi. La specializzazione dei territori non è altro che la traduzione spaziale della divisione capitalista del lavoro. Alla complessità dei micro-compiti sociali specifici corrisponde un ordine materiale: quello di una città organizzata in funzioni, in spazi, la cui unità di senso viene smantellata, proprio come avviene con l'attività umana diventata lavoro attraverso la sua specificità e la sua complessità. Allo stesso modo in cui il modo di produzione capitalista produce i suoi rapporti sociali specifici, esso produce il suo spazio ed i suoi tempi. Organizza e razionalizza lo spazio per mezzo del cerchio chiuso della produzione-circolazione-consumo. La gestione del territorio è un'ideologia che ha come vocazione indicibile l'educazione capitalista dello spazio: "riqualificazione urbana", "attrattività" o "specificità territoriale", sono tutte altrettante espressioni che vanno a nutrire la neolingua della gestione e dello sviluppo urbano. L'inattaccabile retorica che mette in una concorrenza generalizzata gli spazi ed i luoghi nella folle corsa della crescita!
I diversi spazi che compongono l'ambiente urbano sono sempre più omogenei, dalla strada dello shopping del centro città ai quartieri della periferia e fino ai sobborghi passando per la zona degli uffici - la cui architettura standardizzata e le insegne globalizzate fanno ormai da sfondo ad uno scenario intercambiabile - sono collegati da un flusso continuo di beni, di merci, di individui, di servizi e di informazioni. La circolazione non è altro che l'organizzazione dell'isolamento di ciascuno, il flusso che perpetua la separazione. Questa organizzazione spaziale che standardizza il modo di vivere urbano impatta ugualmente le zone "non-urbane": la città non è più solo questo spazio geograficamente identificabile, questa zona spazialmente circoscritta; la città è un concetto, un modo di vedersi, di muoversi, di essere mossi e di essere fermati. La città ormai si estende al di là della città, la sua ideologia realizzata sottomette i luoghi ed i corpi, ordina tutto quello che ancora sfugge alla sua logica. Allo stesso modo, la campagna è anche città, è centrale nucleare e pedaggio autostradale, è aeroporto e linee dell'alta tensione, è parco naturale e zona turistica balneare. La città non è più solamente all'interno della città; l'urbano si trova assai di più nella campagna svuotata dei suoi abitanti che nei centri delle città d'arte museificati.
L'idea stessa di una natura separata è urbana. Con la nascita delle città industriali si sviluppa una concezione dissociata, dualista del mondo, dove la natura in quanto mondo del non-umano separato si oppone al mondo umano artificiale delle città, seppure costituita da tale mondo artificiale in quanto separato.
Fare Comune nella città
Nelle città dove il passato è museificato ed il presente viene reso eterno, dove trovare il più piccolo punto cieco in seno ai dispositivi di controllo diventa una sfida, dove ognuno tende ad essere separato da sé stesso come dagli altri, l'espressione del nostro desiderio di vivere può essere solo una lotta quotidiana, una trasgressione radicale di questa mortifera situazione. Lo spazio urbano è allo stesso tempo sia produzione sociale che terreno di lotta. Il modo di produzione capitalista produce uno spazio che gli è proprio; una strategia rivoluzionaria deve immaginare un'altra spazialità, che passi per una riappropriazione collettiva della città, vale a dire per una liberazione della nostra vita quotidiana.
Disfarsi dell'influenza quotidiana del capitalismo sulle nostre vite diventa vitale. E questo significa rompere con la città e con la sua ideologia urbanista, con la sua pianificazione urbana e con la sua gestione totalitaria del territorio. Rompere con la dinamica mortifera della produzione-circolazione continua di merci e di esseri umani in quanto merce. Rompere con la frammentazione e l'atomizzazione delle nostre esistenze, che rendono sempre più facile il controllo e l'organizzazione di tali esistenze. Bisogna riappropriarsi di questi spazi resi pericolosamente asettici, lisci e sorvegliati, spezzando il corso della normalità, rompere con tutto ciò che evidente, trasgredire e sperimentare. Sperimentare nuove forme di vita con un gesto poetico e politico allo stesso tempo. Desiderare una città il cui cuore sia un luogo per ritrovarsi e non un parcheggio, una città i cui flussi siano costituiti da derive e da parole, non da automobili. Occupando piazze, organizzando banchetti per strada, riappropriandoci degli arredi urbani, facendo dei nostri quartieri un focolaio di insurrezioni o di feste popolari, rifiutandoci di essere obbedienti, si rompe la triste ripetizione del quotidiano, si dà inizio alla rottura con il mondo della merce e della sua circolazione.
Se i flussi non devono trovare ostacoli, allora che ci sia un'interruzione. Opponiamo delle reti di legami sociali densi, stretti, intrecciati territorialmente, come altrettanti blocchi permanenti dei flussi quotidiani.
Iscriversi collettivamente ed in maniera offensiva in un medesimo spazio-tempo ponendo i nostri legami al di là dello spazio dei flussi rende al termine 'abitare' la sua carica politica. Abitare per smettere di soggiornare. Con un solo gesto, spezzeremo le catene della circolazione, nel momento in cui si tornerà ad abitare i nostri quartieri, le nostre comuni, come un territorio abitabile e non più circolabile. Smettere di accontentarsi di dormire, di circolare e di consumare per appartenere ad un ambiente di vita, e sviluppare degli attacchi, creare dei riferimenti, rendere densi i legami. Squat urbani, appropriazioni di spazi pubblici o privati, occupazioni di piazze, fabbriche o università, queste diverse appropriazioni di luoghi fanno nascere un ambiente di vita specifico, situato, ancorato, vissuto e difeso di modo che si viva e si inventi. Questo mettere in gioco delle presenze dà luogo ad una forma di insorgenza, di densità materiale che crea un'interferenza, un taglio nello spazio-tempo fluido del capitale. Ciò che oppone l'abitare pienamente allo spazio diluito dell'organizzazione del mercato, è la sua dimensione di approfondimento; non si tratta di una semplice estensione in cui i differenti poli sono poli solo perché sono dotati di funzioni economiche superiori.
È quando si conosce un luogo alla perfezione, che si tratti di un quartiere o di una valle, che si sviluppano delle complicità, che si condivide un'esperienza (e a volte una rabbia) comune agli altri abitanti, vale a dire quando si comincia ad aver realmente presa su quel luogo, che un territorio può diventare un luogo di lotta. Una lotta a bassa intensità, essenzialmente, che è fatta di solidarietà ed amicizia, di proteste e di cospirazioni, di rifiuti e di affermazioni, in un movimento di riconfigurazione perpetua ed in cui il sollevamento è solo un momento. Che ci si trovi nella banlieue parigina o in Val di Susa, in una bidonville di Buenos Aires o nella campagna bretone, lottare e creare non devono e non possono coniugarsi se non in un unico movimento di rifiuto-creazione.
Rifiutiamo di lasciarci organizzare, di farci stritolare da questa forza distruttrice che tendenzialmente è la città: distruttrice di legami, distruttrice di spazi, distruttrice di vite. Facciamo dello spazio urbano sia il focolaio della nostra rabbia e delle nostre lotte che la pagina bianca su cui essere infine liberi di tracciare il nostro potere creativo. Appoggiamoci ad alcune solide amicizie, riuniamoci ovunque, al di là delle nostre differenze e reinventiamo la vita nei nostri quartieri, nelle nostre strade o nei nostri pianerottoli. Nel crepuscolo del vecchio mondo, il mondo della merce e del denaro, dello Stato e della separazione, cerchiamo di essere ogni giorno sempre più numerosi per emanciparci dalle ristrettezze della vita presente, per fare dei nostri corpi efficaci, delle nostre menti contrastanti, delle nostre speranze crescenti, l'humus dei molteplici mondi che vogliamo far nascere.
La comune urbana è una cristallizzazione di questo respiro collettivo di diserzione, di lotta e di auto-organizzazione di una vita altra. Si trova nella città, ma contro la città; è urbana nell'ottica dell'abolizione dell'urbanità capitalista.
La comune non è né un "movimento" destinato ad una morte rapida o ad una mortificazione istituzionalizzata, né un embrione pacifico di un'altra società, né una fase transitoria, me è, come riunione auto-organizzata finalizzata ad un noi estensivo, lo sviluppo di relazioni orizzontali non di mercato, di una solidarietà collettiva e di un immaginario comune contro-e-al-di-là dell'economia e dello Stato, una forza di blocco generalizzato dell'economia. La comune non è un orizzonte lontano preceduto da una transizione senza fine, è immediatamente o mai, non è un fine separato dai mezzi per raggiungerlo. Tuttavia, non è solo un'iniziativa locale, ma deve, in una costellazione di altre comuni, abolire mondialmente un sistema totalitario a causa del quale non è possibile alcuna emancipazione personale o collettiva finché tale sistema non soccomberà grazie ad un totale blocco dei suoi flussi e ad una rivolta generalizzata, e soprattutto ad una riappropriazione di massa, autonoma, non-capitalista, comunizzante, dei mezzi di produzione, delle risorse e degli stock, degli alloggi e degli spazi coltivabili. Le comuni insorte fatte di rapporti sociali auto-organizzati, non-capitaliste, orizzontali, destituiranno in un colpo solo l'economia ed il suo braccio armato politico-statale, in uno scontro su un terreno non-militare (pena una sanguinosa repressione). Le attuali forme di lotta, resistenze non-pacifiste alle violenze poliziesche, blocco dei flussi, occupazioni, ecc., diverranno quindi dei momenti necessari di un'emancipazione generalizzata delle comuni, destituendo quest'incubo che è il nostro mondo.
Largo alle Comuni!
Comité érotique révolutionnaire – 2 giugno 2016 -
FONTE: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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