L'implosione del "patto sociale" brasiliano
- di Marcos Barreira e Maurílio Lima Botelho -
La vittoria elettorale di Lula e del Partito dei Lavoratori nel 2002 è stata il prodotto del fallimento del modello neoliberista. La stabilizzazione monetaria, nel decennio 1990, non aveva inaugurato una ripresa della crescita; al contrario, aveva avuto come effetto la de-industrializzazione e la disoccupazione di massa. L'aggravarsi della crisi sociale esigeva cambiamenti ed il Partito dei Lavoratori, che aveva portato a termine la sua svolta programmatica, si poteva presentare come unica alternativa di potere realmente capace di attutire lo shock di un processo continuo di svuotamento economico. All'epoca del primo mandato di Lula, tuttavia, un cambiamento nella congiuntura economica mondiale - soprattutto per quel che riguardava i termini internazionali di scambio - aveva permesso una parziale ripresa della crescita. Era stato soprattutto l'aumento dei prezzi delle materie prime, in parte dovuto alla domanda cinese, che aveva consentito il cosiddetto "spettacolo della crescita" ed il "patto sociale" dell'era Lula. L'industrializzazione cinese assorbiva gran parte delle derrate agricole, cementizie e del minerale di ferro brasiliano. La Cina, a sua volta, rimaneva completamente dipendente dal potere di acquisto dei paesi centrali e, mentre il Brasile si era convertito in fornitore di materie prime, l'industrializzazione politicamente indotta del gigante orientale si era trasformata in esportazione unilaterale verso i mercati di consumo sempre più indebitati, in primo luogo gli Stati Uniti. In ultima analisi, tutta la crescita periferica registratasi nell'ultimo decennio era dovuta all'espansione globale del credito e dell'indebitamento statale [*1].
La nuova strategia di inserimento del Brasile nell'economia globale era condizionata da un progetto di ristrutturazione economica interna. Di fatto, a partire dal 2013 si era verificato il grande salto del settore agricolo che aveva trasformato il Brasile nel secondo maggior esportatore "primario" mondiale. Tale orientamento verso le domande estere aveva due conseguenze: in primo luogo, l'imposizione della modernizzazione della campagna, con produttività, scala e modello commerciale inaccessibile ai piccoli produttori. Questo aveva come risultato una concentrazione ancora maggiore delle terre, la distruzione delle foreste ed una crescente disorganizzazione della produzione di alimenti; in secondo luogo, il cambiamento del profilo delle esportazioni, in quanto supporto all'industrializzazione periferica cinese, aveva prodotto una seconda ondata di de-industrializzazione interna. Non erano soltanto i piccoli produttori di alimenti, ivi inclusi i tradizionali lavori di sussistenza, a venire pregiudicati dalla nuova specializzazione, ma anche il più moderno e diversificato settore industriale che veniva colpito dalla "ri-primarizzazione" economica, cosa che ampliava la già accentuata vulnerabilità della struttura produttiva brasiliana. L'orientamento da parte della congiuntura verso il mercato delle materie prime aveva un altro effetto: cominciò ad essere costruita, a partire dal 2004, una rete di protezione per le situazioni di povertà estrema attraverso un ampio programma di reddito minimo, o "Bolsa Família", il cui obiettivo era la massa di disoccupati delle campagne e delle periferie povere. Al di là della retorica governativa, la funzione principale di questo programma, come ebbe a dichiarare Roberto Rodrigues, uno dei principali rappresentanti del settore agroalimentare e ministro dell'agricoltura nel primo governo Lula, è quello di sovvenzionare apertamente e "per un periodo di due generazioni" le popolazioni escluse dal sistema di produzione agroindustriale. In questo modo, è stato possibile redirezionare l'economia e, allo stesso tempo, diminuire i conflitti nelle aree di interesse dei grandi proprietari e indebolire le basi del movimento per la riforma agraria. Questo "modello di successo" delle esportazioni brasiliane ha effetti sociali ed ecologici devastanti come l'espropriazione delle terre e dei modi di vita "tradizionali", oltre all'ampliamento incontrollato della deforestazione nelle aree di espansione dell'agrobusiness [*2].
L'altra faccia del modello economico brasiliano è stato il processo di espansione del mercato interno a partire dall'ampliamento del consumo degli strati popolari. Nonostante la tendenza generale alla de-industrializzazione, il saldo commerciale favorevole con l'estero aveva permesso di realizzare delle politiche di micro-credito e di stimolo ai settori industriali in difficoltà. I pacchetti di stimolo vennero celebrati come un nuovo patto produttivo e sono serviti a che il governo guadagnasse l'appoggio dei grandi gruppi industriali, ma è stato principalmente nel settore dei servizi a basso costo e di bassa qualifica che è avvenuta la creazione della maggior parte dei posti di lavoro (assai spesso in condizioni precaria e ad alto turn-over). Per qualche tempo si è arrivato perfino a sperimentare un guadagno reale di salario minimo - il che ha garantito gli alti indici di popolarità del governi. La bolla del consumo formatasi a partire da questa congiuntura è stata idealizzata dai rappresentanti del governo come se fosse un'ascesa dei poveri verso la "classe media". Al culmine del consenso lulista, dopo la rielezione del 2006, questo "capitalismo popolare", che includeva anche il consumo di base delle masse direttamente assistite dallo Stato, è stato venduto come un modello inedito di crescita con inclusione sociale, una soluzione "radicalmente nuova" per le economie "emergenti". In realtà, si trattava di una crescita garantita solamente dalla situazione di prezzi elevati. Per mezzo di interventi politici concordati con le associazioni imprenditoriali, sono stati mantenuti per qualche tempo, ed in funzionamento precario, i settori industriali poco competitivi, nel mentre che veniva alimentata l'espansione del consumo popolare a credito. In ultima analisi, tuttavia, l'ondata di prodotti industriali a buon mercato, provenienti specialmente dalla Cina, ha fatto sì che il governo brasiliano contribuisse a finanziare la deindustrializzazione.
Quando, nel 2008, ha avuto luogo la grande turbolenza mondiale iniziata nei mercati secondari di ipoteca, negli Stati Uniti, il mondo è stato spazzato da una successione di crolli nei mercati dei titoli, di fallimenti di istituti finanziari e di insolvenze statali. In Brasile, la crisi è stata avvertita immediatamente: nell'ultimo semestre di quell'anno ed all'inizio del 2009, il tasso di investimento in economia (investimenti fissi lordi) è sceso rispettivamente del 7,9% e del 10,1%. Dopo quasi quattro anni di investimenti in infrastrutture, la crisi ha colpito l'economia brasiliana in maniera violenta e per la prima volta dalla stabilizzazione monetaria del decennio 1990 ha fatto crollare il PIL. La risposta del governo brasiliano, ancora sotto la presidenza di Lula, è stato un enorme ampliamento della spesa pubblica.
Gli investimenti "anti-ciclici" sono stati diretti principalmente al finanziamento immobiliare e alla costruzione di infrastrutture - il cosiddetto Programma di Accelerazione e Crescita. Negli anni successivi, sono stati riversati miliardi di dollari nell'economia brasiliana. A quel tempo, Dilma Rousseff, ministro "da Casa Civil", cominciò a distinguersi nel governo, e incontrò rapidamente il consenso dell'opinione pubblica grazie al volume di investimenti: nei quattro anni successivi, il tasso di investimento si avvicinerà ad una media del 20%, una cifra assai vicina agli indici del periodo classo della modernizzazione brasiliana nel dopoguerra.
Fondamentale in tale strategia è stata la mobilitazione finanziaria svolta dalle banche statali.
La banca principale per il finanziamento degli investimenti nel paese, la BNDES, divenne il garante delle grandi corporazioni. Oltre agli ingenti prestiti concessi al settore privato, la banca acquisisce azioni di imprese privare, capitalizzandole sul mercato dei titoli e diventandone socia nella più grande relazione fra pubblico e privato di cui si abbia notizia: la banca intratteneva relazioni finanziarie (prestiti o attività) con più di 700 delle 1000 maggiori imprese del Brasile. Anche i fondi pensione delle grandi imprese statali (Petrobrás e le banche pubbliche) divennero garanzie per gli investimenti nelle infrastrutture, rafforzando vecchie imprese privatizzate nel decennio 1990. Ma l'intervento governativo era tutto tranne che un ritorno al vecchio statalismo del 20° secolo. Questo paradossale "keynesismo neoliberista", che replicava nella politica economica il carattere "post-ideologico" o pragmatico del lulismo, ha fatto sì che una parte sostanziale dell'infrastruttura costruita col finanziamento statale da imprenditori privati fosse, in seguito, privatizzata.
Anche in quel momento è stato importante l'approfondimento delle relazioni economiche fra Brasile e Cina: le politiche di forte investimento di quest'ultimo - che hanno raggiunto il record mondiale del 48% del PIL nel 2012 - hanno alimentato il settore di esportazione brasiliano, soprattutto quel flusso che si era già stabilito durante il boom delle materie prime. Nel 2009, gli Stati Uniti sono stati sostituiti dalla Cina in quanto maggior partner commerciale del Brasile e questo commercio, in eccedenza per l'economia brasiliana, è diventato una principale fonte di riserva di valuta estera, permettendo la riduzione dei tassi di interesse di base e l'espansione del credito, cosa che ha rafforzato ulteriormente i flussi finanziari (nel 2012, il paese accumulava 378miliardi di dollari in riserve di valuta estera). Nonostante questo patto fra Stato e Mercato, lo "spettacolo della crescita" del governo Lula ha avuto una durata assai minore del periodo di forte industrializzazione, quando l'investimento ha avuto una media elevata per un periodo durato più di due decenni (1950-1973). Dopo l'elezione di Dilma Rousseff, la forte espansione del 7,50% del PIL nel 2010 (conseguenza dei massicci investimenti pubblici, ma anche della compensazione successiva alla caduta del precedente anno) negli anni seguenti e nella depressione del biennio 2014/2015 si è trasformata ben presto in una crescita strisciante.
Da principio, la crisi si potrebbe spiegare a partire dal vecchio dilemma strutturale della sovraccumulazione del capitale. Ma il forte investimento non ha fatto altro che aggravare gli eccessi già esistenti in vari settori dell'economia, in un paese in cui il mercato del consumo interno è ancora ristretto, nonostante i discorsi sulla "inclusione sociale". L'industria automobilistica brasiliana, una delle basi dell'industrializzazione della metà del 20° secolo, poi ampliata con l'apertura neoliberista, alla fine del 2014 presentava uno stock di quasi mezzo milione di autovetture. Il numero di occupati in questo settore, che era significativamente crollato negli ultimi vent'anni, nonostante l'ampliamento della produzione, da allora in poi è stato drasticamente ridotto attraverso massicci licenziamenti. Spinto dai sussidi degli ultimi anni, il settore automobilistico oggi presenta una capacità inutilizzata del suo capitale fisso che supera il 50%. È nel settore delle risorse naturali, agricoltura e minerali che la crisi si è sentita in maniera più evidente. Il rallentamento dell'economia cinese - che ha visto il suo tasso di crescita dimezzato - ha significato un forte calo nel mercato delle materie prime, amplificato dalla riduzione della domanda mondiale. A dicembre del 2015, il minerale di ferro ha avuto nelle quotazioni internazionali una caduta del 80%. La compagnia Vale, una delle più grandi società minerarie del mondo (privatizzata negli anni 1990), in questo periodo ha sofferto nel suo valore di mercato una perdita di 247miliardi di real brasiliani. Nel settore petrolifero l'impatto non è stato da meno. Dalla scoperta delle grandi riserve del "Pre-salt layer", la principale compagnia, la Petrobrás (impresa a capitale misto sotto controllo statale), ha capitalizzato sul mercato finanziario sulla base di un'aspettativa di guadagni futuri che non si sono mai realizzati. A causa dei costi elevati per l'esplorazione, questa nuova fonte di petrolio, trasformata dalla propaganda in un biglietto della lotteria che avrebbe garantito il futuro del paese, ha sofferto dell'accentuato declino del prezzo internazionale del barile, ed oggi ha accumulato un debito di 400miliardi di reali brasiliani. Questo collasso ha portato alla paralisi di raffinerie, oleodotti e porti in tutto il paese, con centinaia di migliaia di disoccupati e con intere città rovinate economicamente.
Il settore abitativo, che ha ricevuto un forte impulso a partire dal 2009 grazie all'abbondante credito nella produzione (costruttori) e nel consumo delle famiglie, ha subito un gigantesco shock. La sua crescita era dovuta più ad una bolla immobiliare alimentata dall'insieme degli investimenti statali (incluso il pacchetto di salvataggio per i costruttori) piuttosto che ad una domanda repressa dalla mancanza di alloggi: con la crisi economica, i prezzi degli immobili sono caduti nel 2015 quasi del 10% ed è rapidamente cresciuto il numero di nuove imprese senza inquilini e con progetti paralizzati.
Si è reso evidente, a partire da questa spirale di decadimento, che l'espansione della capacità economica era stata rafforzata dalla "fictionalizzazione" del capitale, cioè, la capitalizzazione nei mercati immobiliari, i mercati futuri ed il credito a buon mercato sovvenzionato dallo Stato avevano creato un ambiente di euforia che aveva stimolato per qualche tempo gli affari. Ora tornava l'indebitamento delle imprese e delle famiglie (60milioni di individui avevano debiti arretrati) e la disoccupazione aperta, che dal 2004 aveva cominciato a retrocedere. Davanti a questo quadro, si può anche vedere con maggior chiarezza che la riduzione del tasso di disoccupazione era avvenuto nel corso degli ultimi anni non solo attraverso posti di lavoro creati dagli investimenti statali e grazie a puntuali misure di stimolo all'industria, ma anche in forza di una relativa riduzione della domanda di lavoro: il governo aveva sovvenzionato una gran quantità di borse di studio e di qualificazione che aveva ritardato l'ingresso nel mercato del lavoro di molti beneficiari di queste sovvenzioni.
Con i tagli nella spesa sociale e con la fine dei programmi di stimoli alla crescita, in solo un anno il numero dei disoccupati è cresciuto del 40% ed ha raggiunto una cifra totale di 11milioni nel maggio del 2016. Ma questa frammentazione negativa delle politiche "anti-cicliche" non era stato previsto. Al contrario, il governo aveva ritenuto che si trattasse di una ricostruzione dello Stato come promotore dell'economia. Questo presunto "nuovo sviluppo" basato sulla bolla delle materie prime e del credito è stato trasformato in un modello di contrasto alla crisi che non solo avrebbe permesso di attraversare immuni la tormenta globale, ma avrebbe anche aperto una nuova era di opportunità per i paesi periferivi. Nei circoli della sinistra governista, nel pieno della crisi mondiale, è stata elaborata un'ideologia delirante della "potenza Brasile" che andava ben oltre la speranza di una rinnovata crescita e di una lotta alla miseria, che avevano assicurato la prima vittoria elettorale di Lula - e includeva le misure repressive dell'amministrazione di crisi, quali l'impiego delle forze armate nelle favelas [*3]. La convinzione che il Brasile fosse sulla strada di tornare ad essere una potenza globale - con l'egemonia sull'America Latina - recuperava la prima versione di questo progetto, elaborato durante la dittatura militare [*4]. In passato, il Brasile aveva avuto l'opportunità di completare la sua matrice industriale ottenendo prestiti dall'estero, ma già alla fine degli anni 1970, lo sviluppo era stato ostacolato dalla mancanza di finanziamento; ora la ripresa dello sviluppo simulava solamente una situazione di normalità in termini di investimento e di "piena occupazione", mentre tutti nutrivano la speranza per un superamento della crisi internazionale che non è mai avvenuto. Infine, la fede esagerata in questa simulazione statale della crescita - in maniera simile alla crisi durante il periodo militare - aveva minato il patto politico fra governo e gruppi imprenditoriali.
Per quanto illusorio fosse il nuovo sviluppo, non ha mai smesso di produrre effetti reali. In primo luogo, il disastro ambientale legato a progetti faraonici, come la Diga di Belo Monte, in Amazzonia, un progetto bloccato nel 1990 e ripreso nel 2011, dopo la disputa fra ambientalisti e tecnici del governo legati al settore energetico - fra di loro il presidente Dilma - solo al fine di alimentare i costruttori e mantenere in funzione la macchina dello sviluppo apparente. Il Brasile ha attratto l'attenzione del mondo anche con la campagna vittoriosa per ospitare la Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi. Si è pensato di poter fare della celebrazione intorno ai mega-eventi una sorta di coronamento del modello lulista. Ma, come avviene di solito nelle situazioni in cui il partneriato pubblico-privato viene irrigato con abbondante credito, in questi ed in altri casi fondamentalmente sovvenzionati dallo Stato, emergono gli scandali della corruzione e corrodono poco a poco la popolarità del governo - soprattutto fra la classe media. Inoltre, il consenso iniziale intorno ai grandi eventi - e all'insieme degli interventi urbanistici che questi impongono - è servito a produrre un boom immobiliare ed un aumento generale del costo della vita in diverse città, cosa che ha colpito soprattutto gli strati periferici con un reddito molto basso, erodendo i guadagni ottenuti negli anni precedenti. Il contrasto sempre più grande fra la celebrazione dei "cambiamenti sociali" e la realtà quotidiana ha prodotto un'ondata di insoddisfazione generalizzata ed ha avuto come risultato le grandi manifestazioni del giugno 2013.
A partire da tutto questo ha cominciato ad essere realmente decostruito il "patto sociale", che, da un lato, avevano recato beneficio alle élite economiche legate allo Stato e, dall'altro, aveva portato miglioramenti immediati per gli strati popolari delle regioni più povere del paese. Le strategie adottate dal governo diventavano sempre più disfunzionali per i suoi partner politici ed imprenditoriali. Tuttavia, quello che di fatto aveva fornito la base per le proteste del 2013 era stato un segmento escluso dalle politiche governative: le classi medie dei grandi centri.
Si era lentamente formata una ribellione della "classe media", con un peso maggiore nel centro-sud del paese, contro un accordo politico incentrato sui vantaggi per i grandi gruppi economici e sulle politiche assistenziali di emergenza. Era soprattutto contro i più poveri e contro i beneficiari degli aiuti sociali che si dirigeva l'odio dei settori della classe media, che rivendicavano per sé, contro un governo "parassitario", la condizione di vera "classe lavoratrice".
Tuttavia, questa massa eterogenea ed atomizzata non possiede strumenti propri di organizzazione. Perciò, ha bisogno di delegare ai politici tradizionali di opposizione la formazione di un'alternativa di potere articolata ai grandi gruppi economici. È stato questo ciò che è avvenuto con la disfatta dell'imprenditoriato e con la formazione di una nuova maggioranza di opposizione che, in seguito, ha rimosso la presidentessa eletta ed ha costituito il nuovo governo [*5]. Gli strati intermedi hanno formato, soprattutto a partire dalle nuove manifestazioni del 2014 e del 2015, una massa passiva che, alimentando ideologie di mercato e il risentimento contro "quelli che non lavorano" - o il discorso ancora più estremista che chiede il ritorno dei governi militari -, dà supporto alle misure di aggiustamento e ai tagli sociali.
Quello che si esaurisce con l'implosione del "patto sociale" non è soltanto il sogno di coniugare la crescita economica con l'inclusione sociale, ma anche la possibilità di tornare al primo e di mantenere il secondo. Non si può immaginare alcuna inclusione senza crescita e tanto meno è plausibile un nuovo ciclo di crescita - con o senza la "pacificazione" delle tensioni sociali - basata solo sulle aspettative del mercato. Il programma che si annuncia è puramente distruttivo. E l'alternativa appare essere limitata alle minoranze organizzate per difendere un progetto sconfitto. Niente di tutto questo è opera del caso. I governi guidati dal nucleo del Partito dei Lavoratori che si era costituito intorno a Lula hanno funzionato per più di dieci anni come una forza attiva di smobilitazione delle iniziative sociali e hanno stabilito un vincolo puramente monetario con gli esclusi dai processi economici. Si è anche formata, negli ultimi dodici anni, una generazione di giovani che non ha conosciuto la crisi sociale che ha portato all'ascesa del Partito dei Lavoratori. Questa generazione yuppie tardiva ha assistito all'eccesso di intervento statale e lo ha visto come l'origine di tutti i mali, e ha idealizzato una società di mercato libera dalla "corruzione dei politici". Ma lo scontro con la realtà è inevitabile. Le misure già annunciate di destatalizzazione e di smantellamento dei diritti e della protezione sociale minima non offrono alcuna prospettiva se non il ritorno, in una situazione ancora più precaria, alla crisi sociale degli anni 1990. Anziché una rinnovata fiducia negli agenti economici, questo nuovo ciclo di smantellamento può solo produrre un aggravamento della crisi e delle misure repressive.
- Marcos Barreira e Maurílio Lima Botelho -
NOTE:
[*1] - Sulla dipendenza della recente industrializzazione dei paesi "emergenti" in relazione all'espansione del credito e della speculazione, al suo carattere strutturalmente improduttivo e su come tale legame agisca in funzione di una nuova ed inevitabile crisi dell'economia mondiale, vedi: Lohoff e Trenkle, "La grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’État ne sont pas les causes de la crise". Post Éditions 2014 [2012], pp. 110-117.
[*2] - Vedi; André Villar Gomez e Marcos Barreira. "A catástrofe como modelo. Agronegócio, crise ambiental e movimentos sociais durante os anos 2003-2013". Sinal de Menos, 11, vol.1. 2015. https://sinaldemenos.org/2015/04/26/sinal-de-menos-11-vol-1/
[*3] - Vedi, ad esempio, Marcos Barreira e Maurílio Lima Botelho, "O Exército nas ruas: da Operação Rio à ocupação do Complexo do Alemão. Notas para uma reconstituição da exceção urbana". In: Felipe Brito e Pedro Rocha de Oliveira (orgs.). "Até o último homem Visões cariocas da administração armada da vida social". São Paulo: Boitempo, 2013.
[*4] - André Villar Gomez, "Brasil potência? As ilusões do desenvolvimento em Raúl Zibechi e Giovanni Arrighi". Testo inedito che verrà pubblicato in una raccolta sulla crisi del patto sociale lulista, insieme agli autori del presente testo.
[*5] - Fino ad ora un governo ad interim.
fonte: Ensaios e textos libertários
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