Il pianeta dei superflui
- di Gerd Bedszent -
Già nel suo testo del 1991, "Die Krise die aus dem Osten kam" [La crisi che è venuta dall'Est], Robert Kurz indica come causa della crescente miseria delle masse a livello mondiale «l'assoluta incapacità da parte della moderna società capitalista di riuscire ad incorporare nel suo processo di riproduzione la stragrande maggioranza dell'umanità globale». E conclude: «Già adesso le masse sradicate del mondo diventano una minaccia per le isole di normalità e di benessere dell'Occidente, che stanno diminuendo.» (in Helmut, orgs., "Der Krieg der Köpfe" Horlemann Verlag, 1991, p. 150 sg.).
È più che dubbio che al sociologo urbano statunitense, Mike Davis, sia capitato mai di leggere questo testo. In ogni caso, Davis descrive, nel suo libro "Il pianeta degli slum" [Ed. italiana Feltrinelli], pubblicato per la prima volta nel 2006 e rieditato in un'edizione ampliata, la miseria della popolazione in crescita permanente alla periferia delle grandi città come Mumbai, Kinshasa o Città del Messico. L'autore si pone nella tradizione dei reportage e delle ricerche di critica sociale svolte sul terreno, come ad esempio l'analisi pioneristica di Friedrich Engels, "La situazione della classe operaia in Inghilterra, del 1845, cui anche Davis occasionalmente fa riferimento.
Va chiarito da subito anche il fatto che da parte Davis non c'è quasi alcun approccio alla critica del valore. Tuttavia l'autore si posiziona in maniera chiara contro i punti di vista neo-malthusiani che attribuiscono alla crescita sfrenata della popolazione, la responsabilità per l'aumento esplosivo della povertà urbana, nella maggior parte delle regioni del mondo, degli ultimi decenni. Soltanto una volta, all'inizio del suo libro, Davis si riferisce alla relazione, "dal tono dichiaratamente malthusiano", su "I limiti della crescita" del 1972. Per Davis sono in primo luogo le "brutali distorsioni attuate dalla globalizzazione neoliberista" che hanno fatto crescere sempre più la miseria a livello mondiale ed insieme ad essa i quartieri della miseria situati sul bordo delle metropoli traboccanti. Altrove scrive: «La mercificazione delle abitazioni e del suolo urbano (...) è la ricetta sicura proprio per il circolo vizioso dei redditi alti e del sovraffollamento.» Tuttavia l'ascesa del neoliberismo non viene tematizzata da Davis in quanto strategia di crisi per la creazione capitalistica del valore; egli dà la colpa di tutto questo soprattutto alla mancanza "di uno Stato interventista che si senta seriamente obbligato a costruire abitazioni sociali e a creare posti di lavoro". Davis si colloca in questo modo nella posizione della sinistra socialdemocratica classica; tuttavia non idealizza a posteriori i regimi di modernizzazione falliti dell'Est e del Sud.
Nelle sue descrizioni delle distorsioni sociali che in ultima analisi hanno portato all'attuale situazione di disastro, Davis evidenzia innanzitutto il neoliberismo. Come egli scrive, la disuguaglianza sociale a livello mondiale ha raggiunto il massimo negli anni 1980. Ad esempio, la povertà urbana si è duplicata rapidamente negli anni 1987/1988 in Costa d'Avorio, un paese africano considerato finora dall'Occidente come un ottimo allievo. Anche in Sudan, a causa dei "tagli" nei servizi pubblici, si sono impoveriti fino ad una punta massima di un milione di persone. Simultaneamente in India, con il boom dell'industria high-tech il paese "ha guadagnato" più di 56 milioni di poveri. Davis documenta una crescita massiccia della prostituzione, del traffico di organi e del lavoro minorile predatorio, insieme a molte rivolte della fame - oggi generalmente scomparse dalla memoria dell'umanità - con le quali la popolazione delle regioni periferiche ha accompagnato le terribili riforme strutturali neoliberiste. Davis non condivide i sogni di una rivolta immediatamente imminente della popolazione urbana povera, che ancora perseguitano, ad esempio, i resti falliti dell'operaismo. I residenti nelle baraccopoli reagiscono in maniera estremamente differente all'abbandono e all'isolamento strutturale. Ci sono di fatto rivolte contro le situazioni percepite come insopportabili, ma questo viene frequentemente espresso sotto forma di violenza religiosa o razzista. Interi gruppi di popolazione sono caduti nelle braccia di movimenti insurrezionali fondamentalisti, milizie etniche, gang di banditi di strada e cartelli della droga. Circa un terzo di Rio de Janeiro, per esempio, si trova sotto il contro dei cartelli della droga e dei loro agenti criminali. È a partire almeno dal disastro dei militari nordamericano nella capitale somala Mogadiscio, nel 1993, che gli "strati popolari esclusi" vengono percepiti dall'occidente come una minaccia per la parte intatta della metropoli; gli slum diventano così il futuro "campo di battaglia del XXI secolo".
La maggior parte del libro tratta i problemi della sociologia urbana globale. Qui, il pretesto è il momento allora immediatamente imminente (nel 2006) nel quale la popolazione urbana sorpassa la popolazione rurale, e si inverte così la relazione numerica fra l'una e l'altra. Tale inversione, tuttavia, orami appartiene da tempo al passato, ovviamente; anche parte dei dati numerici nel frattempo sono diventati superati a causa dello sviluppo. Rimane attualmente la progressione dimostrata da Davis della crescita della povertà urbana a livello urbano con al simultanea riduzione della popolazione rurale. Le cause delle dislocazioni delle popolazioni verificatesi in questo contesto, però, vengono affrontate solo di passaggio; il tema del libro non è innanzi tutto lo sviluppo delle forze produttive, ma semmai i suoi effetti sul modo di vita della popolazione urbana.
Eppure, Davis descrive il modo in cui la deregolazione delle economie africane, promossa dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, ha portato in forma brutale all'esodo della popolazione agraria "eccedente" verso le baraccopoli urbane. La conseguenza della scomparsa della rete di previdenza statale nazionale, così come la cessazione delle limitazioni al dislocamento verso le città, è stato una crescente "dissoluzione del modo di vita contadino". Un altro fattore che menziona, è la serie di guerre civili, che non vogliono avere fine, negli Stati periferici, non di rado alimentate dagli "aggiustamenti strutturali imposti e dalle imprese straniere predatrici". Il processo di esodo rurale forzato ha continuato anche dopo che l'industria è entrata in un processo di contrazione, e le città africane non potevano più continuare a funzionare come "macchine per l'occupazione". Le metropoli urbane della periferia funzionano, pertanto, sempre più come bacini di ritenzione di un'inutilizzabile ed assortita "popolazione eccedente di forza lavoro senza qualifiche, sottopagata e senza garanzie, nel commercio e nei servizi informali".
Davis descrive, in una forma estremamente espressiva, le relazioni sociali nei quartieri miserabili che raggiungono proporzioni gigantesche nelle periferie delle città dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, così come descrive l'implacabile lotta per la sopravvivenza delle persone che vivono lì intrappolate senza alcuna speranza. L'autore si basa in particolare sulla relazione "The Challenge of Slum", del 2003, un inventario globale della povertà urbana pubblicato dal programma per le abitazioni ed il ripopolamento, delle Nazioni Unite. «
Viene considerata Baraccopoli [favela, slum], secondo una definizione approvata dall'ONU nel 2002, un alloggio sovraffollato, povero ed informale, senza un'adeguata connessione di acqua potabile né di scarico, e con un incerto potere di disposizione rispetto al suolo».
Secondo tale relazione, nel 2003 vivevano nelle baraccopoli 193,8 milioni di abitanti della Cina, 158,4 milioni dell'India, 51,7 milioni del Brasile, 41,6 milioni della Nigeria... con una tendenza chiaramente crescente. In un altro punto del suo libro, Davis fa notare che solo una parte della povertà urbana vive in baraccopoli ed inoltre neppure tutti gli abitanti delle baraccopoli sono del tutto poveri.
Secondo i dati numerici che vengono presentati, la relazione fra la popolazione dei territori sviluppati, come le città, e gli abitanti delle baraccopoli urbane si rivela molto diversificata. Ad esempio, nel 2003 in Etiopia era il 99,4% della popolazione urbana viveva negli slum, ma a Città del Messico erano soltanto il 19,6% degli abitanti. Davis descrive come le baraccopoli si sono sviluppate in maniera estremamente rapida nella Federazione Russa e in altre repubbliche dell'ex Unione Sovietica. Le città, insieme ai siti industriali chiusi, si sono ridotte drasticamente in un lasso di tempo vertiginosamente breve. Ma i quartieri della povertà più terribile si trovano nella periferia delle città africane ed indiane. Il vecchio potere coloniale britannico, ai suoi tempi, si rifiutò assolutamente di fornire i quartieri della popolazione locali con le più elementari infrastrutture, situazione che si mantiene ancora oggi.
L'autore cita una serie di studi di sociologia urbana: nei quartieri della miseria della città indiana di Calcutta vivono mediamente 13,4 persone per abitazione. Negli slum di Lima, 85 persone condividono la stessa conduttura d'acqua e 93 usano la medesima latrina. E queste persone hanno quanto meno ancora un tetto: nella grande città indiana di Mumbai, negli anni 1990, circa un milione di persone vivevano per strada; anche nella metropoli degli Stati Uniti d'America, a Los Angeles, ci sono centomila senza tetto. I megaslum alla periferia di Nairobi e di Port-au-Prince raggiungono una densità abitativa tale da "poter essere confrontata con quella di uno stabile". La megalopoli africana di Kinshasa non dispone di rete fognaria. In nove delle ventidue baraccopoli indiane studiate non c'è nessuna latrina; in tutto, circa 700 milioni di indiani sono costretti a "fare i loro bisogni all'aria aperta". E in una relazione sulle regioni periferiche della grande città di Rangun, nel Myanmar, si dice: "Locali per la vendita di bevande alcoliche, rifiuti, acqua stagnante e fango contaminato dai liquami delle fogne circondano la maggior parte delle case." Davis menziona vari esempi di baraccopoli nate nei cimiteri, in vecchie discariche ed in prossimità di aree industriali contaminate, così come descrive le conseguenze d questo sulla salute dei residenti. Altre localizzazioni si trovano su pendii soggetti al rischio di franare oppure in zone soggette ad inondazioni. "Tali siti sono nicchie di povertà nell'ecologia della città, e le persone molto povere non hanno altra scelta se non quella di vivere con la catastrofe."
Gran parte delle informazioni raccolte da Davis possono anche essere di fatto rilevate specificamente in altri luoghi. In generale, tali informazioni isolate che parlano dell'orrore della vita quotidiana tendono a sparire velocemente dall'insalata mediatica. Nella loro forma concentrata, come avviene in questo libro, hanno un effetto orrorifico.
In quest'opera, l'autore contraddice molti luoghi comuni che si presentano ripetutamente nei media e nella letteratura a proposito delle zone di povertà urbana. Vivere nei quartieri che sono stati eretti illegalmente nella periferia delle grandi città non è affatto "gratis", in nessun modo. Davis descrive gli abitanti delle baraccopoli come parte integrante ed attori di un "complesso intreccio di reti familiari, relazioni id proprietà e di affitto". I proprietari di baracche costruite illegalmente spesso ottengono un reddito addizionale subaffittandole alle persone più povere. Ed i proprietari di terreno alla periferia delle grandi città frequentemente tollerano l'esistenza di baraccopoli costruite illegalmente per poter così esercitare pressione politica sul governo. Una volta che questo avrà installato nei quartieri finora illegali reti idriche, fogne, elettricità e comunicazioni, il valore degli immobili ne risulterà moltiplicato. Le baraccopoli urbane ed i loro abitanti sono quindi parte integrante del sistema di economia capitalista; in nessun modo ne stanno fuori.
Davis a volte argomenta in maniera disperata. Da un lato, il suo libro costituisce un'amara denuncia di quelle che sono condizioni indegne di esseri umani nelle baraccopoli della periferia, accusando la maggior parte dei governi che "da tempo hanno rinuncisto a qualsiasi serio sforzo per combattere le baraccopoli e farla finita con la marginalità urbana". Dall'altro lato, egli stesso documenta una serie di esempi nei quali programmi di urbanizzazione per la riabilitazione dei ghetti dalla miseria si scontrano con una forte resistenza da parte degli interessati. E questa resistenza ha delle cause perfettamente razionali: gli abitanti dei quartieri miserabili sanno perfettamente che una volta concluso il recupero essi semplicemente non saranno in grado di sopportare i costi delle abitazioni. Nei casi in cui i programmi di riabilitazione con l'appoggio dello Stato - spesso sotto protezione poliziesca e militare - sono stati effettivamente realizzati, il quartiere residenziale si è rapidamente trasformato in un ghetto di lusso per i membri dell'élite e/o della classe media. Pertanto, riabilitazione sarebbe uguale ad espulsione. Gli abitanti originari si sono trasferiti alla periferia della città, dove poi è sorta una nuova baraccopoli. I cui abitanti dovranno spendere una buona parte dei loro magri redditi per raggiungere i posti di lavoro nel centro della città. Le conseguenze delle distorsioni sociali non possono essere risolte in nessun modo semplicemente con i mezzi dell'edificazione urbana.
Davis dà una risposta chiaramente negativa all'idea liberale di progresso, il cui pronostico di continuazione dello sviluppo è miseramente fallito: «Di conseguenza, le città del futuro non saranno costruzioni di vetro ed acciaio, come venivano immaginate dalle precedenti generazioni di urbanisti, ma semmai saranno fatte di mattoni grossolani, di paglia, di plastica riciclata, di blocchi di cemento e di pezzi di legno. Ed invece di vivere in città di lusso, aspirando al cielo, una gran parte del mondo urbano del XXI secolo sarà sepolto nella miseria, in mezzo all'inquinamento ambientale, agli escrementi ed ai rifiuti. I mille milioni di cittadini che popoleranno le baraccopoli postmoderne allora si volgeranno possibilmente a guardare indietro, pieni di invidia, alle rovine delle case di argilla di Catal Huyuk, in Anatolia, costruite all'alba della vita urbana, novemila anni fa".
- Gerd Bedszent - Pubblicato su EXIT! Krise und Kritik der Warengesellschaft, nº 13 (01/2016), pag. 181-185 -
fonte: EXIT!
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