Lo scopo di questo libro, di questa raccolta di discorsi antichi e moderni, accompagnati da prove di analisi, è di mostrare la durata, la persistenza della retorica in quanto pratica e tecnica della comunicazione persuasiva sia nei rapporti tra le persone sia nell’azione politica e culturale. Le prove di analisi sono frutto dell’attività seminariale o semplicemente didattica svolta come professore prima incaricato di letteratura latina dal 1969, poi ordinario di retorica classica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino dal 1975 al 1997 e, dopo la cessazione dal servizio, come docente ospite di alcuni licei classici di Torino e della provincia. Esse non si contentano della ricognizione della presenza nei testi di figure di parola e di pensiero e di procedimenti dimostrativi retorici, ma perseguono il fine di riconoscerne la funzione di comunicazione e di persuasione, individuandovi le strutture nelle quali trovano forma pensieri, sentimenti ed emozioni. Per esempio la funzione cognitiva dello straniamento (studi di lingua e stile nella diatriba e nella satira senza pretesa di condurre ricerche antropologiche o di psicologia sociale), dell’inopinatum (o frustrazione dell’attesa) nella teoria della prosa di Frontone, del quale segnalare l’insoddisfazione linguistica e il bisogno del neologismo: «non sono contento delle parole solite ed usuali, ma godo più lietamente di quanto possa comunicare con il linguaggio comune la letizia del mio animo; in realtà con quali parole potrei esprimere la mia gioia? infatti non mi riesce di esprimere con parole mie l’intensità della mia gioia»; mentre Cicerone riprova con forza l’uso del neologismo nello stile oratorio: «ma nelle orazioni è proprio il difetto più grande allontanarsi dal genere popolare del discorso e dalla consuetudine del senso comune»; e di Frontone apprezzare la lode dell’amor fortuitus a confronto con l’officiosus amor; inoltre citare Taziano invece di Minucio Felice per le repentine conversioni al cristianesimo; avanzare la proposta di attribuire alla moneta una funzione di comunicazione – genericamente politica – nel mondo antico per coloro che leggevano soltanto le lettere maiuscole, come Petronio fa dire ad uno dei liberti di successo al banchetto di Trimalcione: “Io non ho studiato né geometria né critica né altre stupide balle, ma le lettere a scatola le conosco e so dividere per cento, assi o libbre o sesterzi che siano”.
(dal risvolto di copertina di: Adriano Pennacini: Discorsi eloquenti da Ulisse ad Obama e oltre con una giunta fino a papa Francesco, Edizioni dell'ORso, pp. 597, € 50)
Tutti insieme retoricamente
- Da Ulisse a Obama, l’arte oratoria attraverso i secoli in uno studio di Adriano Pennacini: le ricette per avvincere e convincere, infiammare e commuovere -
di Alberto Sinigaglia
C’è un collegamento tra Odisseo che si presenta nudo a Nausicaa e Matteo Renzi che si presenta in cravatta al Senato? C’è, sicuro. E c’è tra Pericle e Beppe Grillo, tra Demostene e il Pontefice, tra Cicerone e il presidente degli Stati Uniti. È la retorica, la tecnica della comunicazione persuasiva. «Vero impero, più vasto e più tenace di qualsiasi impero politico», dice Roland Barthes. «Ha digerito regimi, religioni, civiltà. Moribonda fin dal Rinascimento, impiega tre secoli a morire e non è certo se sia morta». Infatti non lo è, se arriva a protagonisti d’oggi l’antologia delle Edizioni dell’Orso di Alessandria, nella quale Adriano Pennacini scandaglia Discorsi eloquenti da Ulisse ad Obama e oltre con una giunta fino a papa Francesco (pp. 597, € 50).
Giusto cominciare dal re di Itaca e da Omero, che ne cantò la sagacia oratoria. Sull’isola dei Feaci è solo un naufrago «coperto di salso, orribile». Si copre i genitali con un ramo, avanza «come un leone», le «fanciulle dai bei capelli» fuggono. Solo la figlia di Alcinoo rimane. L’eroe decide di parlarle da lontano, pronuncia «un discorso dolce e accorto: «Ti abbraccio le ginocchia, signora, sei dea o mortale? (...) Sono scampato al mare color del vino ed era il ventesimo giorno da che le onde e le tempeste impetuose mi trascinavano dall’isola Ogigia; ora mi ha gettato qui un demone, perché anche qui io soffra sventure».
L’Italia «arrugginita»
Passa il tempo e il 24 febbraio 2014 a Roma il presidente del Consiglio incaricato non abbraccia le ginocchia ai senatori, ma si rivolge loro «in punta di piedi, con il rispetto profondo, non formale, che si deve a quest’Aula (...), con lo stupore di chi si rende conto di essere davanti a un pezzo di storia». Chiede la fiducia per guarire «un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante».
Stessi ingredienti: utilità, ossequio, adulazione, pietà (Odisseo per la sua sventura, Matteo per l’Italia incatenata). Ma ben altro scopre la lente di Pennacini, professore emerito dell’Università di Torino, traduttore per Einaudi delle Guerre di Giulio Cesare e dell’Istituzione oratoria di Quintiliano. Scienziato della lingua e dell’eloquenza, disseziona i testi, ne soppesa il lessico, l’esordio, l’epilogo, le tecniche seduttive.
Dall’Antigone di Sofocle sceglie il discorso ingannatore di Creonte. Dalle Storie di Erodoto, quello minaccioso di Alessandro I agli Ateniesi. Da Tucidide l’epitafio di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso.
Poi Lisia contro Eratostene superstite dei Trenta Tiranni, Ippocrate e l’importanza dell’educazione, Demostene sulla pace, Catone il vecchio dalla parte dei Rodiesi in Senato, Cicerone contro Gaio Verre e a favore di Milone. Non mancano Cesare, De bello gallico, con il discorso del nobile Critognato ad Alesia assediata, né Sallustio, Bellum iugurthinum, con l’orazione di Gaio Mario all’assemblea popolare.
Il «grido di dolore»
Dall’allocuzione di Attila agli Unni si può balzare al discorso breve e concreto che Napoleone rivolse in italiano ai rappresentanti della Repubblica Cisalpina. O a quello di Cavour al Parlamento Subalpino per l’abolizione del foro ecclesiastico. O al «grido di dolore» di Vittorio Emanuele II. O al proclama di Garibaldi che sta per salpare con i Mille e si rivolge agli «Italiani» perché non lascino i siciliani insorti a combattere da soli «i mercenari del Borbone, (...) quelli dell’Austria e quelli del Prete di Roma».
Grida Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, annuncia alle «camicie nere della rivoluzione» che il maresciallo Badoglio ha conquistato Addis Abeba. Prega Yitzhak Rabin firmando la Dichiarazione di principi con Arafat alla Casa Bianca nel 1993: «Lasciate che dica a voi, Palestinesi, che siamo destinati a vivere insieme sullo stesso suolo. (...) Basta col sangue e le lacrime. Basta. Non abbiamo desideri di vendetta... non nutriamo odio nei vostri confronti. Noi, come voi, siamo gente... gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere al vostro fianco con dignità, in affinità, come esseri umani, come uomini liberi (...). Preghiamo che arrivi il giorno in cui tutti noi diremo addio alle armi».
Metafore e anafore
Tra lingue originali e traduzioni, connessioni e simmetrie, metafore, anafore, Pennacini scopre le trame oratorie anche di Lenin, Einaudi, Pertini, Berlusconi. Si sofferma sugli impeti grillini e sulle sfumature dei tre ultimi Papi. Decritta i segnali per avvincere e convincere, infiammare e commuovere. Provvidenziale giacimento di esempi e di note per gli studiosi, guida i comuni lettori a capire perché certi discorsi siano passati alla storia e a capirla meglio.
- Alberto Sinigaglia - Pubblicato su La Stampa del 3 giugno 2016 -
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