Nel 1871 Auguste Blanqui, «l’eterno cospiratore», sta scontando l’ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. Questa volta, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che sta infiammando Parigi, lo hanno trasferito nel remoto Fort du Taureau, in Bretagna, dove è sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riesce a scrivere e a far arrivare all’esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarà il suo primo libro, pubblicato l’anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall’ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui ha meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che avanza un’ipotesi vertiginosa: «Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità». Ogni uomo, così, «possiede nello spazio un numero infinito di doppi che vivono una vita tale e quale la sua». Il lettore rimarrà sbalordito nel constatare, come già fecero Benjamin e Borges, che questo piccolo libro anticipava i concetti alla base dell’eterno ritorno di Nietzsche, ma in una dimensione, notava ancora Benjamin, di malinconia baudelairiana. Perché nel ‘multiverso’ di Blanqui – vicino a quello di certe attuali teorie cosmologiche – ogni prospettiva di «progresso» fatalmente si rivela illusoria.
(dal risvolto di copertina di: Louis-Auguste Blanqui, "L'eternità viene dagli astri", Adelphi, pp.132, €12,35)
Il cielo di un carcerato
- di Giuseppe Scaraffia -
«L'imputato si alzi. Il suo nome?». «Louis-Auguste Blanqui». «Quanti anni ha?». «77». «Domicilio?» «La prigione». La risposta del più celebre rivoluzionario francese del XIX secolo non era una battuta. Il teorico del colpo di stato rivoluzionario, eseguito da una minoranza lucida e decisa, poi ripreso da Lenin, doveva trascorrere in carcere più di metà della sua tumultuosa esistenza, senza contare tre condanne a morte. Mentre la Comune di Parigi viveva la sua effimera vittoria, l'uomo che più di ogni altro aveva contribuito a scatenarla era rinchiuso in una cella, sorvegliato da un secondino che gli impediva persino di avvicinarsi alle sbarre per vedere il mare che circondava la prigione. Ma quando scendeva la notte poteva finalmente contemplare il cielo stellato. Da quelle notti solitarie era nato "L'eternità viene dagli astri" (ben curato da Ottavio Fatica), scritto a caratteri minuscoli su entrambi i lati di tanti foglietti per sfuggire alla censura dei carcerieri. In quell'«oasi orrore in un deserto di stupidità», l'eterno ritorno fa la sua comparsa, inesorabile e consolatorio, anticipando Nietzsche e affascinando Benjamin e Borges. Blanqui era per tutti l'emblema della rivolta: nel "Dizionario dei luoghi comuni", Flaubert lo aveva beffardamente citato: «Insurrezione. Il più sacro dei doveri (Blanqui)». Baudelaire, colpito dall'eterno nero del suo logoro abbigliamento, aveva schizzato il suo ritratto su un foglio vicino ai versi di Longfellow e di Gray. «In quell'uomo, aveva notato Victor Hugo, c'era un aristocratico calpestato da un demagogo». Segnato da un precoce invecchiamento aveva le labbra livide, la fronte rugosa, le mani tremanti, ma nei suoi «occhi selvaggi si vedeva la giovinezza di un pensiero eterno».
- Giuseppe Scaraffia - Pubblicato su Tutto Libri del 16/12/2023 -
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