Georg Lukács: dalle antinomie borghesi al problema della coscienza di classe [*]
- di Sandrine Aumercier -
Viene qui proposta una lettura succinta di "Storia e coscienza di classe". Prima, qualche parola sul contesto. Georg Lukács era nato nel 1885 a Budapest. La Repubblica Democratica Ungherese era stata proclamata nel 1918 da Mihály Károly, che aveva così posto fine alla monarchia. Nel 1919, quando la Triplice Intesa (un'alleanza militare di Francia, Regno Unito e Impero russo) impose un'ulteriore perdita territoriale da parte dell'Ungheria, Karóly si dimise e il 21 marzo 1919 venne proclamato il Consiglio Rivoluzionario di Governo, costituito da una coalizione comunista e socialdemocratica sotto la guida di Béla Kun. Georg Lukács - membro del Partito Comunista Ungherese fin dalla sua fondazione - partecipò alla Repubblica dei Consigli del 1919. Dopo il fallimento di quell'esperienza (rapidamente schiacciata dalle truppe franco-rumene), Lukács, insieme ad altri, andò in esilio. Nazionalizzazioni, confische di terre, leggi sociali, tribunali di epurazione, un partito unico e il lavoro forzato, furono solo alcune delle misure della Repubblica dei Consigli, che si ispirava alla Repubblica Sovietica. I testi che compongono Storia e Coscienza di classe vennero scritti tra il 1919 e il 1922, in un momento in cui si poteva presagire la prossima rivoluzione mondiale; essi fanno parte del rinnovamento del dibattito tra "marxismo occidentale" e "marxismo bolscevico" e vanno visti sullo sfondo di un'interpretazione sociologica della storia (Maximilien Rubel), e cercano di elevare tale dibattito a un livello teorico che lo superi e che lo stabilisca nell'ortodossia. Ma quest'opera è stata subito oggetto di una critica incrociata proveniente dalle due principali tendenzeche aveva criticato. I comunisti del partito l'accusarono di "idealismo soggettivo", e Lukács dovette rinnegarla pubblicamente più volte. Aggiungendo poi, quando la tradusse in francese nel 1960, quella che è forse la sua unica autocritica non commissionata.
Per Lukács, il proletariato è il soggetto della storia, che accede, grazie alla sua posizione nel contesto delle relazioni sociali, alla conoscenza della totalità capitalistica, la quale invece rimane inaccessibile alla coscienza borghese. La teoria, da quel "punto di vista", sostiene che la conoscenza dipende da qual è la posizione di classe all'interno dei rapporti sociali di dominio. Tutte le parti del libro che trattano il proletariato, appaiono come se fossero la giustificazione pratica degli eventi ungheresi, sviluppata dal "punto di vista del proletariato". Qui, Lukács fa l'apologia del Partito Comunista, dell'organizzazione, della disciplina e persino della repressione. Le parti teoriche costituiscono pertanto il fondamento ideologico che sviluppa ciò che egli definisce come il "punto di vista della totalità". In esse viene sostenuto un materialismo dialettico che restituisce alla loro storicità l'apparenza dei fatti sociali immutabili. Non si tratta di ricostruire la loro cronologia esterna, bensì i loro rapporti di necessità organica e la loro novità storica. Lukács ritiene che la reificazione della coscienza borghese - in un oggetto inconoscibile e in un soggetto contemplativo - faccia parte dell'essenza della società capitalista, di cui vede la massima espressione nell'idealismo tedesco. Questo soggetto si dedica alla comprensione del suo oggetto di contemplazione; e lo fa sopprimendo dal suo modo di pensare - in favore di un soggetto puramente formale - tutti i momenti soggettivi e irrazionali. Lukács rifiuta la moderna suddivisione delle scienze in domini autonomi – che egli definisce come il "punto di vista dell'individuo", prendendo, per far questo, in prestito da Max Weber la nozione di individualismo metodologico – affermando invece l'unica scienza "storica e dialettica, unica e unitaria, dello sviluppo della società vista come totalità". Nel capitalismo, tale unità sociale si basa sul dominio della forma-merce, che permea tutti gli aspetti della società. Lukács sviluppa una teoria della reificazione che rompe con la naturalizzazione del valore d'uso, caratteristico del marxismo tradizionale, e reintroduce il feticismo della merce in un corpus ideologico che non voleva aver nulla a che fare con esso. A questo proposito, egli sottolinea una "svolta qualitativa" storica, sottolineando che "la forma mercantile deve di conseguenza [...] penetrare tutte le manifestazioni vitali della società e trasformarle a sua immagine e somiglianza, anziché limitarsi a collegare dall'esterno dei processi che sono a loro volta indipendenti da essa e che sono orientati alla produzione di valori d'uso. [...] Poiché è solo come categoria universale dell'essere sociale totale che la merce può essere compresa nella sua autentica essenza. L'uguaglianza formale di tutti i prodotti del lavoro astratto non rappresenta solamente il denominatore comune di tutti questi prodotti - insiste Lukács - ma costituisce quello che è anche il vero principio del processo reale di produzione delle merci". Ciò che viene qui introdotta, è una comprensione del feticismo della merce che comprende non solo i prodotti della produzione, ma la produzione stessa. Alla vecchia produzione organica si sostituisce il legame astratto tra elementi dislocati. Il principio fondamentale della forma merce - per la cui descrizione Lukács si rifà agli scritti di Max Weber - è la crescente razionalizzazione della produzione, che implica l'estensione del dominio del calcolo e la sempre maggiore decomposizione dell'insieme in elementi distinti: "Non è pensabile una razionalizzazione senza una specializzazione". Le specifiche operazioni della produzione acquistano un'autonomia relativa per poi venire riunite a posteriori attraverso l'omogeneizzazione globale - e contingente, dal punto di vista qualitativo - del loro elemento calcolabile, declinato in tempo astratto. Queste operazioni hanno la loro controparte nella razionalizzazione formale da parte dello Stato, del diritto e dell'amministrazione. Inoltre, hanno anche la peculiarità di cancellare dalla coscienza borghese "ogni e qualsiasi immagine di totalità", dal momento che la formalizzazione costituisce una "barriera metodologica " alla comprensione della crisi. Tuttavia, le "possibilità di ampliamento illimitato" di tale metodo di razionalizzazione non possono superare il suo "limite strutturale" costituito dalle antinomie della totalità. Quanto più i campi scientifici separati si danno un metodo chiaro e delimitato, tanto più eludono il problema del loro fondamento ontologico localizzandolo, se necessario, nell'inafferrabile "cosa-in-sé". Da Kant in poi, la filosofia critica ha eternizzato queste antinomie pretendendo di risolverle solo nel pensiero, attraverso l'assolutizzazione di una sorta di astuzia filosofica. La dialettica idealista di Hegel, che pone l'unità speculativa tra soggetto e oggetto, fallisce per lo stesso limite, in quanto ritiene di poter risolvere nell'idea la disgiunzione stessa che aveva giustamente diagnosticato. Hegel, contravvenendo alle sue intenzioni, situa la Ragione al di fuori della storia, ovvero nell'irruzione storicamente contingente di un "bisogno di filosofia". Questo bisogno definisce il nuovo compito di una ragione che ricapitola la propria storia essenzializzando retroattivamente sé stessa. Ma lo stesso Hegel non sa come si spieghi l'irruzione storica di questa necessità. Pertanto, l'universalità della forma-merce condiziona tanto soggettivamente quanto oggettivamente l'oggettivazione astratta del lavoro, e lo fa istituendo l' impotente confronto faccia a faccia tra l'operaio e il processo di produzione globale. Conseguentemente, per Lukács, "questa dislocazione dell'oggetto della produzione comporta necessariamente anche la dislocazione del suo soggetto". Nel corso della dinamica dello sviluppo capitalistico, questa struttura di reificazione continua a penetrare sempre più profondamente nella coscienza degli esseri umani, e lo fa man mano che essi interiorizzano sempre più la loro sottomissione alle "leggi" giuridiche ed economiche, che il più del volte si riducono a essere solo delle leggi di probabilità. Pertanto, la critica della reificazione non può essere limitata solo a una critica esteriore della mercificazione di tutta la produzione (quella che oggi è chiamata la "mercificazione del mondo"). Essa deve occuparsi anche di quella stessa reificazione soggettiva dei suoi soggetti, tramite la quale essi vedono i propri talenti e le proprie capacità come delle proprietà simili a quelle delle cose che essi credono di "possedere", in modo da potersi inserire nel processo di produzione globale sotto forma di un intervento strumentale.
È a questo punto che Lukács compie un salto assertivo in direzione del proletariato. Dal "punto di vista della totalità" che si cela nel soggetto della merce, poiché sprofondato nell'impotente contemplazione delle proprie condizioni sociali oggettivate, Lukács passa direttamente all'esaltazione del proletariato in quanto classe che risolve nell'azione le antinomie insolubili del pensiero determinate dall'appartenenza ai rapporti di produzione. Qui l'impasse idealista trova la sua soluzione pratica. Le precedenti antinomie sono infatti quelle per cui il pensiero borghese si riflette nella propria insuperabile reificazione. Ma il proletariato sarebbe portatore di un "punto di vista" in grado di trascendere queste antinomie proprio per il fatto della sua posizione pratica dentro gli antagonismi sociali. Soltanto lui avrebbe quindi potenzialmente accesso alla conoscenza della totalità rimasta preclusa alla coscienza borghese. In tale maniera, Lukács trasferisce l'analisi delle antinomie strutturali del pensiero borghese all'interno di una strutturazione sociale degli antagonismi di classe. La natura borghese di queste antinomie, prima dichiarata strutturale, viene subito identificata con la classe dei borghesi a livello empirico. La categoria mediatrice diventa quella della coscienza di classe, che si suppone accessibile al proletariato attraverso l'esperienza della lotta e con la mediazione del Partito. Lukács assegna al proletariato il compito del "fondamentale rovesciamento di tutta la società borghese". Il proletariato è in grado di impadronirsi delle mediazioni oggettive dell'essere sociale che la borghesia ha congelato come antinomie del pensiero. Ma ciò per Lukács non significa un'evoluzione lineare e meccanica in direzione della rivoluzione proletaria. Lukács non spiega in alcun modo su cosa sia fondata questa capacità del proletariato, accontentandosi di asserire che "per il proletariato prendere coscienza dell'esistenza dialettica della propria esistenza è questione di vita o di morte". In realtà, secondo Lukács, all'operaio viene negata l'illusoria attività di soluzione filosofica che mantiene la borghesia nel suo ruolo di classe. L'operaio è condannato a essere ridotto a una cosa. Pertanto, secondo Lukács, egli, di questo, ne possiede una conoscenza immediatamente pratica. Può perciò soltanto diventare consapevole di quelle che sono le mediazioni invisibili che organizzano la sua situazione. Neanche per un attimo, Lukács ritiene che il proletariato condivida con la borghesia la tendenza a integrarsi in dei rapporti di produzione capitalistici pienamente realizzati. È possibile che, a breve termine, il proletariato confonda benissimo questa tendenza con i suoi interessi di classe. In quanto soggetto di interessi capitalistici, fa parte del suo interesse immediato trovare il proprio posto persino all'interno dei rapporti capitalistici, anziché rovesciarli. Né Lukács ritiene che il proletario disponga - quanto ne dispongano gli altri - di altrettanti e variegati espedienti ideologici che gli consentano di mantenere il proprio status. Di fronte a un simile rischio, Lukács si rifugia nella magnificenza leninista della guida illuminata delle masse ad opera del Partito... La mancanza di lucidità di Lukács dovrebbe quindi condurci a una completa rivalutazione della categoria di coscienza di classe e di coscienza sociale nell'ambito del marxismo. E infatti è in base a una concezione ingenua della coscienza collettiva, attinta dal marxismo tradizionale, che Lukács può passare da un' analisi della natura insolubile di quelle che lui chiama le "antinomie della totalità" alla loro risoluzione, svolta mediante una coscienza di classe postulata ad hoc in un proletariato che non sarebbe influenzato da queste antinomie. In questo modo la reificazione strutturale si tramuta improvvisamente in una reificazione sociologica. La coscienza di classe diventa l'istanza finale del rovesciamento, non perché sia stato dimostrato che essa abbia questa capacità, ma perché senza di essa la teoria della rivoluzione collasserebbe sull'ultima vera antinomia, quella tra coscienza e inconscio.
Se si può considerare la situazione del proletariato come un "sintomo" della totalità capitalistica, dal momento che esso subisce nella propria carne la contraddizione principale, questo sintomo tuttavia non costituisce una reificazione semplicemente oggettiva. Il "sintomo proletario" si esprime anche attraverso il suo stesso essere compromesso nell'integrazione all'interno delle relazioni capitalistiche. La stessa constatazione vale anche per tutte le forme moderne dell'esclusione - dal razzismo ordinario fino alla produzione del superfluo - nelle quali il sintomo sociale non costituisce solo l'effetto di una logica oggettiva imposta dall'esterno ai soggetti passivi della merce. Il sintomo è allo stesso tempo anche il "trattamento della contraddizione" (Robert Kurz) da parte di questi stessi soggetti, vale a dire tutte le forme assunte dall'auto-esplicazione soggettiva della propria situazione. Per di più, il sintomo è anch'esso una creazione individuale derivante dall'individualizzazione strutturale dei rapporti sociali: esso non viene eliminato solo attraverso una comprensione intima di questo, né attraverso la comprensione dei rapporti di dominio. Le creazioni di sintomi sono rese necessarie, universali e allo stesso tempo privatizzate grazie all'atomizzazione dell'individuo in quanto soggetto di interesse all'interno di relazioni sociali competitive. La sua situazione di individuo atomizzato lo costringe a soggettivare attivamente, e in modo sintomatico, non solo le contraddizioni esterne, ma anche quelle interne, ossia il modo in cui esse verranno rappresentate nella sua economia libidica. Si tratta di due livelli di formazione del sintomo. Questo processo di soggettivazione non è suscettibile di essere semplicemente abolito, se non attraverso la lunga storia delle purghe con le quali il comunismo ha creduto di potersi liberare di questa aporia mediante la liquidazione totale degli individui scomodi. Questa nuova situazione non consente di attribuire il superamento della propria forma sintomatica immanente a un qualsiasi emergere della "coscienza, sempre posta come esteriorizzazione idealistica rispetto alle relazioni esistenti. L'analisi di tale situazione moderna proibisce anche l'angelizzazione paternalistica dei dominati". Non per niente questi paradossi hanno costituito la base del programma di ricerca della Scuola di Francoforte. Gli autori della Scuola di Francoforte trovarono in Lukács una prima riflessione sul tema della merce. Tale riflessione era stata bandita dal marxismo ortodosso, che aveva una visione deterministica del proletariato. In questo senso, l'accusa di idealismo rivolta a Lukács dai comunisti di partito sulla base di una concezione positivista delle leggi della storia era tanto più sbagliata se si considera che lo stesso comunismo di partito partecipava a questa falsa oggettività borghese, svuotando il soggetto delle cosiddette "leggi" che credeva di trovare nel materiale storico. Era altrettanto positivista della sua controparte capitalista, poggiando inconsapevolmente sulle stesse basi categoriali. Era proprio questo ciò che Lukács minacciava di sovvertire con la sua teoria della reificazione. Ma intravediamo già nel suo tentativo la deriva successiva, quella che riguarda la teoria del soggetto stesso. Tale teoria non è stata sottoposta alla critica decisiva, quella della coscienza. La falsa esternalità della coscienza di classe - costantemente invocata o postulata, eppure puntualmente fallita fin dalle origini del marxismo - è un chiarissimo segno dell'assorbimento acritico, da parte del marxismo, della forma più insidiosa di idealismo borghese: quello che crede di poter determinare gli eventi attraverso la "consapevolezza" - eventi di cui la coscienza è sempre, però, ontologicamente e storicamente il prodotto secondario e derivato (Hegel almeno era coerente con questa premessa; e Marx, che ne aveva preso le misure, l'ha trasformata in una mistificazione sulla "uscita dalla preistoria"). Anche Lukács lo ammetterà, nella sua ultima autocritica: "Il ribaltamento della coscienza ‘assegnata’ che diventa una prassi rivoluzionaria, appare qui oggettivamente come se fosse un puro miracolo". È proprio a partire da questa seconda posizione, che non potrà essere la prima - come dimostra la psicoanalisi - che invece è possibile esplicitare realmente un trattamento del sintomo, evitando di postulare una riconquista del potere o una gestione consapevole dei rapporti di dominio, se non addirittura una soppressione autoritaria del sintomo che potrebbe arrivare fino alla liquidazione del suo portatore... Un simile pseudo-rovesciamento dei rapporti di dominio si risolve regolarmente nel cloro passaggio di mano, non nella loro eliminazione. Tuttavia, non si tratta nemmeno di una mera accettazione dell'ordine esistente. Al contrario, l'esplicitazione dell'assoggettamento del soggetto costituisce il modo paradossale con cui il soggetto può riappropriarsi della sua attività, non come la riconquista di una padronanza astratta (che nel post-freudismo revisionista viene assimilata all'"io forte"), ma come un barlume di quella che è la propria attività inconscia all'interno del determinato campo dei rapporti di potere che la precedono radicalmente. Il rovesciamento per cui la seconda coscienza diventa coscienza fondatrice, non può che portare al regno della rimozione. Invece, la riappropriazione negativa (o critica) della seconda posizione della coscienza costituisce, al contrario, il fermento di un'azione riveduta senza utopismo, e senza illusione di padronanza: quella che si può chiamare un'etica. Che il capitalismo produca tale illusione di dominio, come se fosse la sua ombra, attiene a ciò che rimane da sviluppare per quel che riguarda una teoria critica del soggetto, in particolare del soggetto politico. E' necessario spiegare perché quest'ultimo insegua costantemente il recupero della sua falsa autonomia all'interno dei rapporti esistenti - quelli che denuncia - anziché rifiutarsi di dare credito a questi rapporti.
Sandrine Aumercier, 1° Giugno 2024 - [*] Questo testo è la versione scritta in francese di un contributo presentato il 1° Giugno 2024 nel seminario "Psicoanalisi e capitalismo" (Café Plume, Berlino).
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