A metà degli anni Venti in un teatro viennese andava in scena Broadway, una dark comedy impreziosita da «cinque signorine elegantemente svestite». Tra queste, ne spiccava una «di strana e avvincente bellezza», che «sbrigava la sua parte con una sorta di baldanzosa bravura». Alfred Polgar, che era tra il pubblico, ne rimase folgorato. Tanto che a distanza di anni – quando quell’attrice, assurta a fama mondiale, era ormai diventata il simbolo stesso del divismo cinematografico – scrisse questo ritratto ispirato, vera e propria ecfrasi dell’opera d’arte vivente che era Marlene Dietrich. Con quella leggerezza di tocco che lo aveva reso celebre nella Vienna di inizio Novecento, Polgar dipinge magistralmente i tratti che hanno fatto di Dietrich un fenomeno unico: un viso «che parla non solo all’occhio ma anche allo spirito»; una voce «in cui verità e illusione coesistono in maniera sconcertante», e che «esercita una fortissima magia erotica»; il portamento inconfondibile di chi «ha la musica dentro» – e una personalità che si riflette nei personaggi da lei interpretati: «donne per le quali l’amore è l’aria che respirano, la rinuncia un peccato contro natura, l’infedeltà un imperativo della fedeltà che esse serbano al proprio io».
(dal risvolto di copertina di: Alfred Polgar, "Marlene". A cura di Ulrich Weinzierl. Adelphi, pp.112, €12 )
Ritratto di una dea
- di Bruno Ventavoli -
La fortuna di Marlene Dietrich iniziò quando dovette rinunciare, bambina, allo studio di violino e pianoforte per un'infiammazione al polso. Libera di dedicarsi al cinema divenne il simbolo universale della seduzione irresistibile (e devastante). Alfred Polgar, il maestro della prosa breve, potente critico teatrale, se ne innamorò quando la vide debuttante e costituì con altre intellighenzie viennesi un circolo di fan appassionati. In questo breve libretto ne racconta la favolosa carriera dagli esordi nel mondo austro-tedesco funestato dall'inflazione e dai violenti vagiti del nazionalsocialismo, fino all'incontro con il genio barocco di Josef von Sternberg. È l'appassionato «ritratto di una dea», con il senso del dovere degli junker prussiani, raffinata, colta, «senza lati negativi», madre affettuosa e sposa monogama. In realtà fu sfrenata negli amanti, anaffettiva con la figlia, capricciosa, narcisista come ogni star. Ma il colto panegirico è un gioiellino letterario, ancor più prezioso alla luce delle traversie personali dell'autore. Fu commissionato da un editore austriaco nel 1937; quando Alfred Polgar non era più il rispettato cantore della Vienna felix (e dei suoi caffè). Ebreo, finito all'indice dopo l'ascesa di Hitler, sbarcava il lunario grazie all'aiuto degli amici (anche la Dietrich mandava qualche dollaro dall'America). L'Anschluss bloccò la pubblicazione del testo cui si era dedicato con enormi fatiche, e notevole energia nervosa per accantonare l'amara inquietudine per i tempi che correvano. Si portò il dattiloscritto in America quando riuscì a fuggire, ma rimase per sempre inedito. La grazia dello stile e l'ironia che pervade quelle poche paginette dimenticate in un cassetto sono la manifestazione di una dignità immensa. Di quella forza spirituale e intellettuale che rese il «mondo di ieri» austro-ungherese-ebraico il baricentro della modernità.
- Bruno Ventavoli - Pubblicato su Tutto Libri del 16/12/2023 -
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