martedì 16 luglio 2024

Il Viaggio sulla Luna…

Nel frammento N° 106 del suo libro "Della certezza", Wittgenstein riporta il breve racconto di un bambino che sente un adulto dire di essere stato sulla Luna. Nel pezzo, il punto centrale è che Wittgenstein deve convincere il bambino circa il fatto che andare sulla luna sarebbe impossibile: è troppo lontana, raggiungerla in aereo non è possibile, e così via. Tutto il nostro sistema fisico ci impedisce di credere questo, scrive Wittgenstein, convinto che andare sulla luna sia invece possibile! E così ne comincia a elencare le impossibilità: la forza di gravità, la mancanza di atmosfera.

"Della certezza" è stato l'ultimo sforzo filosofico di Wittgenstein. Le note del libro iniziano nel 1949, e arrivano fino al 1951, anno della sua morte. Parte degli appunti, li scrisse tra l'aprile del 1950 e il febbraio del 1951, quando viveva a Oxford nella casa della sua allieva e futura editrice Gertrude Anscombe (che, dopo la morte del filosofo, sarebbe stata una delle responsabili della pubblicazione del libro). L'ultima annotazione scritta da Wittgenstein risale al 27 aprile 1951 (aveva compiuto gli anni il giorno prima, il 26 aprile, 62 anni). Morì due giorni dopo, a casa del suo medico, Edward Bevan (fu alla moglie, Joan, che Wittgenstein consegnò le sue ultime parole: «Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa»).

Wittgenstein, che amava così tanto andare al cinema (sedendosi in prima fila, come riporta il suo biografo Ray Monk), potrebbe aver visto il "Viaggio sulla Luna" di Méliès. Così come, un altro aspetto interessante di quello che avrebbe potuto essere il rapporto di Wittgenstein con un (possibile, impossibile?) viaggio sulla Luna, è rappresentato dalla sua formazione di ingegnere: egli arriva alla Victoria University di Manchester nel 1908 con l'intenzione di studiare, tra le altre cose, Aeronautica. In un certo senso, quando in "Della Certezza" racconta la favola del bambino, non sta commentando solo ed esclusivamente dalla sua posizione del filosofo, ma anche – sia pure indirettamente – a partire dalla posizione dell'ingegnere (e si tratta, per lui, anche di un'impossibilità meccanica: come fare a volare lì, quale tipo di propulsione sarebbe necessaria, ecc.).

fonte: Um túnel no fim da luz

«106. Un adulto ha raccontato a un bambino di essere stato sulla Luna: il bambino lo racconta a me, e io dico che era soltanto uno scherzo, che quel tizio non è mai stato sulla Luna; che nessuno è mai stato sulla Luna; la Luna è molto, molto lontana da noi, e non ci si può arrampicare o volare fin là. – Se ora però il bambino insiste: che forse un modo per poter arrivare sulla Luna c’è, e che magari io non lo conosco, ecc., – che cosa potrei obiettargli? Che cosa potrei obiettare agli adulti di una tribú che credessero che qualche volta gli uomini vadano sulla Luna (forse interpretano cosí i loro sogni) e che tuttavia ammettessero che con i mezzi attuali non è possibile arrampicarsi sulla Luna o volarci su? – Di solito, però, a una credenza di questo genere un bambino non starà aggrappato e ben presto sarà convinto da quello che gli diciamo in tutta serietà.»

lunedì 15 luglio 2024

Il movimento operaio classico, e le sue… porte aperte…

È il 10 luglio del 1934, quando Erich Mühsam (1878-1934) viene assassinato dai nazisti, nel campo di concentramento di Oranienburg. Scrittore, anarchico, tedesco di origine ebraica ortodossa, Mühsam fu uno dei protagonisti della rivoluzione tedesca del 1918-1919 in Baviera, e dal 1922/23 non smise mai di denunciare l'ascesa dell'estrema destra.

Ragion per cui, pertanto, a partire dell'osservazione dell'Internazionale Situazionista secondo cui «da tempo, l'assalto, condotto da parte del primo movimento operaio, contro la totalità dell''organizzazione del vecchio mondo, si è concluso, e non esiste più nulla che possa farlo rivivere», sia Mühsam che la Repubblica bavarese dei Consigli possono essere considerati parte di quel perimetro di ciò che Debord ha chiamato – proprio in relazione a questo vecchio movimento operaio, «i suoi fallimenti (come la Comune o la rivolta delle Asturie*), che costituiscono però allo stesso tempo anche i suoi successi aperti per noi e per il nostro futuro».

In base a questo criterio, si tratterà pertanto anche oggi di «riprendere in maniera disillusa lo studio del movimento operaio classico», e di «giudicare in appello, salvare, e ritrovare la storia perduta», in modo da lasciare così aperte le porte del XXI secolo a una «reinvenzione, al livello più elevato, del problema della rivoluzione» (da Guy Debord, "Les mauvais jours finiront", Internationale Situationniste n. 7, 1962).

[*] - A tale perimetro, Debord aggiunge anche la rivoluzione comunista libertaria, in Aragona, del 1936-1937, la cui disfatta sulle barricate - nel maggio 1937 - segnò anche la fine del movimento operaio classico.

fonte: @Palim Psao

sabato 13 luglio 2024

Un’oasi di orrore in un deserto di stupidità…

Nel 1871 Auguste Blanqui, «l’eterno cospiratore», sta scontando l’ennesima pena detentiva di una vita trascorsa per metà in carcere. Questa volta, per impedirgli qualsiasi contatto con la Comune che sta infiammando Parigi, lo hanno trasferito nel remoto Fort du Taureau, in Bretagna, dove è sottoposto a una reclusione tra le più dure, in totale isolamento. E tuttavia, pur in condizioni estreme, Blanqui riesce a scrivere e a far arrivare all’esterno, eludendo la censura, il testo di quello che sarà il suo primo libro, pubblicato l’anno successivo a Parigi. Ci si aspetterebbe, dall’ormai vecchio rivoluzionario, un pamphlet politico. E invece quello che Blanqui ha meticolosamente composto nella sua cella è un visionario trattato di «astronomia metafisica», uno scritto insieme scientifico, poetico e filosofico, che avanza un’ipotesi vertiginosa: «Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, non soltanto sotto uno dei suoi aspetti, ma quale si trova in ognuno degli istanti della sua vita, dalla nascita sino alla morte. Tutti gli esseri distribuiti sulla sua superficie, grandi o piccoli, viventi o inanimati, condividono il privilegio di questa perennità». Ogni uomo, così, «possiede nello spazio un numero infinito di doppi che vivono una vita tale e quale la sua». Il lettore rimarrà sbalordito nel constatare, come già fecero Benjamin e Borges, che questo piccolo libro anticipava i concetti alla base dell’eterno ritorno di Nietzsche, ma in una dimensione, notava ancora Benjamin, di malinconia baudelairiana. Perché nel ‘multiverso’ di Blanqui – vicino a quello di certe attuali teorie cosmologiche – ogni prospettiva di «progresso» fatalmente si rivela illusoria.

(dal risvolto di copertina di: Louis-Auguste Blanqui, "L'eternità viene dagli astri", Adelphi, pp.132, €12,35)

Il cielo di un carcerato
- di Giuseppe Scaraffia -

«L'imputato si alzi. Il suo nome?». «Louis-Auguste Blanqui». «Quanti anni ha?». «77». «Domicilio?» «La prigione». La risposta del più celebre rivoluzionario francese del XIX secolo non era una battuta. Il teorico del colpo di stato rivoluzionario, eseguito da una minoranza lucida e decisa, poi ripreso da Lenin, doveva trascorrere in carcere più di metà della sua tumultuosa esistenza, senza contare tre condanne a morte. Mentre la Comune di Parigi viveva la sua effimera vittoria, l'uomo che più di ogni altro aveva contribuito a scatenarla era rinchiuso in una cella, sorvegliato da un secondino che gli impediva persino di avvicinarsi alle sbarre per vedere il mare che circondava la prigione. Ma quando scendeva la notte poteva finalmente contemplare il cielo stellato. Da quelle notti solitarie era nato "L'eternità viene dagli astri" (ben curato da Ottavio Fatica), scritto a caratteri minuscoli su entrambi i lati di tanti foglietti per sfuggire alla censura dei carcerieri. In quell'«oasi orrore in un deserto di stupidità», l'eterno ritorno fa la sua comparsa, inesorabile e consolatorio, anticipando Nietzsche e affascinando Benjamin e Borges. Blanqui era per tutti l'emblema della rivolta: nel "Dizionario dei luoghi comuni", Flaubert lo aveva beffardamente citato: «Insurrezione. Il più sacro dei doveri (Blanqui)». Baudelaire, colpito dall'eterno nero del suo logoro abbigliamento, aveva schizzato il suo ritratto su un foglio vicino ai versi di Longfellow e di Gray. «In quell'uomo, aveva notato Victor Hugo, c'era un aristocratico calpestato da un demagogo». Segnato da un precoce invecchiamento aveva le labbra livide, la fronte rugosa, le mani tremanti, ma nei suoi «occhi selvaggi si vedeva la giovinezza di un pensiero eterno».

- Giuseppe Scaraffia - Pubblicato su Tutto Libri del 16/12/2023 -

venerdì 12 luglio 2024

L’Ultima Elezione Democratica…

Perché limitarsi solo alla rimozione di Biden?
  - Collettivo CrimethInc. -

Sembrerebbe quasi una metafora troppo pesante, se non fosse che è questa la nostra realtà effettiva: un patriarca ormai anziano, che simboleggia un progetto politico centrista al collasso, si rifiuta di farsi da parte, persino una volta che la sconfitta che dovrà subire da parte di un autocrate ancora più autoritario è ormai certa. Eppure è proprio tutto questo a riassumere, oggi, le prospettive globali della democrazia. A diventare senile, non è un politico in particolare, ma tutto un sistema politico nella sua totalità. Nel 2018, quando la politica centrista è stata descritta come una corsa al ribasso che condannava i suoi seguaci a sostenere «il secondo peggior male possibile», la cosa ci era sembrata un'iperbole. Ma oggi, persino i più fedeli giornalisti centristi riconoscono che è effettivamente questo ciò che sta accadendo. Una struttura di potere ormai sclerotica ha reso impossibile ogni cambiamento sociale, e quindi ha reso il disastro inevitabile. Rendendo insostenibili le disparità in atto, in termini di ricchezza e di potere, e schiacciando ogni possibile intervento dei movimenti di base, i Centristi hanno creato una situazione nella quale i Fascisti possono indossare la maschera di unica alternativa. Non dimentichiamo che, negli Stati Uniti, sono stati i politici democratici sotto Obama a organizzare lo sgombero dei campi di Occupy, per impedire che l'anticapitalismo si affermasse. Dopo gli omicidi di George Floyd e di Breonna Taylor, a Minneapolis, a New York e altrove nel Paese, sono stati i Democratici ad aumentare i fondi per la polizia, anche se milioni di persone chiedevano l'abolizione della polizia. Sia nel 2016 che nel 2020, la macchina del Partito Democratico ha costretto Bernie Sanders a farsi da parte a vantaggio di Hillary Clinton e di Joe Biden. Di sicuro, un'amministrazione Sanders sarebbe stata altrettanto deludente quanto lo sono state le amministrazioni di sinistra in Spagna e in Grecia; ma la questione è che la macchina del Partito Democratico ha sistematicamente soppresso qualsiasi alternativa, contribuendo in ultima analisi alla propria stessa rovina. Intenzionalmente, per formulare la sua ingannevole retorica sulle "élite" e sul "globalismo", Donald Trump ha copiato Bernie Sanders. Da un decennio a questa parte, in tutto il mondo, l'estrema destra ha vinto fingendo di opporsi a quella stessa élite che essa rappresenta. Nel mentre, allo stesso tempo, governi centristi si sono concentrati sulla repressione dei movimenti che avrebbero potuto costituire la prima linea di difesa contro una presa di potere fascista, rafforzando simultaneamente quelle istituzioni che i fascisti utilizzeranno per imporre il loro dominio.Ormai da anni, l'intero establishment democratico sostiene Biden anche quando egli raddoppia la militarizzazione dei dipartimenti di polizia, copia le politiche di confine di Trump e assiste al genocidio in Palestina. La questione dell'età di Biden non dovrebbe essere importante: un politico come lui è più pericoloso quando è in ottima forma. I suoi supporter hanno sempre sostenuto che se non fosse stato Biden, a fare tutte queste cose sarebbe stato Trump. Ogni e qualsiasi critica a Biden è stata sempre respinta a partire da quello che i suoi sostenitori consideravano un pragmatismo di fondo, a muso duro. Ma ecco che, improvvisamente, nel bel mezzo del dibattito tra Biden e Trump del 27 giugno, è diventato ineluttabilmente ovvio che il pragmatismo stava per fargli perdere le elezioni del 2024: l’unico alibi che avevano per tutte le atrocità che hanno appoggiato fino a questo momento. Ma sebbene un coro di opinionisti abbia immediatamente iniziato a chiedere a gran voce di sostituire Biden con qualsiasi mezzo, la stragrande maggioranza dei politici democratici è rimasta però in qualche modo unita dietro al presidente, che si ostina a ribadire di meritare di mantenere il potere fino alla fine dei suoi ottant'anni. Qualsiasi capo di Stato lo ha sempre fatto, a prescindere dalle circostanze, come ha sottolineato Mikhail Bakunin un secolo e mezzo fa: «Per la moralità privata dell'uomo [sic], non c'è nulla di più pericoloso dell'abitudine al comando. L'uomo migliore, il più intelligente, più disinteressato, più generoso, più puro, finirà, infallibilmente e sempre, per essere rovinato da questo mestiere.» (M.B.).


Ma per quale motivo i Democratici si accingono a perdere allegramente quella che - come hanno ripetuto a gran voce - potrebbe essere l'ultima elezione democratica nella storia degli Stati Uniti? L'apparato di partito deve essere così tanto intriso di ambizioni meschine, di sistemi patronali e di clientelismo da non poter cambiare rotta per nessun motivo. Dopo aver tradito quella che all'interno del Partito Democratico veniva chiamata "sinistra", ora la macchina sta per tradire anche il centro: l'unico gruppo che apparentemente dovrebbe servire. A quanto pare, è evidente che se l'obiettivo è imporre disuguaglianza e oppressione alle persone, prima o poi il fascismo diventa un contendente più efficiente della democrazia. Sì, è penoso da guardare, è imbarazzante per tutti i soggetti coinvolti, e le implicazioni per il futuro sono terrificanti, ma nondimeno dovrebbe essere significativo anche per noi il fatto che la democrazia, da tempo propagandata come l' equivalente politico del libero mercato - il quale si suppone rappresenti il modello più efficiente per produrre la soluzione ai bisogni umani - ci abbia portati alla fine a questo punto. Tale situazione dovrebbe far riflettere tutti coloro che finora hanno difeso le strategie elettorali sulla base del pragmatismo. Le argomentazioni che molti democratici stanno adducendo per sostituire Biden adesso - in violazione del protocollo del partito, nel momento in cui le primarie gli hanno già consegnato definitivamente la nomination - hanno delle implicazioni che non vengono prese in considerazione. Se sono pronti a sbarazzarsi del loro candidato debitamente nominato, perché fermarsi qui? Perché non gettare via l'intera macchina del partito e la stessa politica del partito, come buona misura? Ammettere che fino ad ora hanno vissuto in un vero e proprio paradiso degli sciocchi, significa mettere in discussione tutto il sistema politico che ha reso possibile questo disastro. Ora, il problema non è tanto quello di un singolo uomo in età senile che stringe le sue mani avvizzite sul volante e che si rifiuta di lasciarlo. E neppure che un particolare gruppo dirigente del Partito Democratico abbia monopolizzato il potere. Il problema è ben più grande rispetto alla lealtà dei funzionari che fino a due settimane fa erano disposti ad assecondare qualsiasi decisione della leadership democratica. È più grande dell'intero Partito Democratico. Coinvolge tutti gli elettori che hanno sperato che fosse sufficiente votare ogni anno o due e sperare per il meglio, tutti coloro che cercano un leader che risolva i problemi del mondo per conto nostro. Il problema con la decrepita ma apparentemente intoccabile posizione di potere in mano a Biden è quella stessa che ci impedisce di affrontare le cause delle ondate di calore e degli uragani che stanno flagellando il Nord America in questo momento. È lo stesso problema che ci impedisce di affrontare le catastrofi provocate dal capitalismo e dal colonialismo. In definitiva, è il problema che riguarda lo Stato, che riguarda la gerarchia stessa. Il rifiuto di Biden di farsi da parte diventa il Microcosmo di un'intera civiltà che si trova in un'impasse. Sappiamo tutti che il capitalismo industriale sta accelerando i cambiamenti climatici, le estinzioni di massa e il collasso ecologico, tuttavia continuiamo a delegare le nostre competenze a dei rappresentanti che rispondono solo alle multinazionali e che se ne fregano di noi. Sappiamo benissimo che affidare il nostro futuro a una classe dirigente composta da alcune delle persone più egoiste del pianeta non ci metterà al sicuro, eppure tuttavia continuiamo a votare per loro, a lavorare per loro e a comprare i loro prodotti. Sappiamo bene che, per noi, nascondere la testa sotto la sabbia non funzionerà, ma siamo terrorizzati dalla prospettiva di doverci identificare in coloro che dovranno produrre il cambiamento per mezzo delle nostre stesse azioni. Sono tutte delle strategie perdenti che ci sono state vendute come pragmatismo, ovvero come l'unica opzione possibile. Ora stiamo entrando nell'ultima fase del capitalismo dei disastri, in cui guerre, crisi economiche e catastrofi ambientali stanno facendo sfollare milioni di persone in tutto il pianeta: non è più possibile evitare di riconoscere le conseguenze di questo approccio, proprio come non è possibile negare l'età di Biden e le sue scarse prospettive di battere Trump. Pertanto, non ci si deve fermare all'allontanamento di Biden. Devono andarsene tutti. Delle due l'una: o siamo obbligati a rispettare il protocollo e l'autorità di coloro che il protocollo eleva al potere - siano essi aspiranti autocrati o carciofi senescenti - oppure la nostra libertà e il nostro benessere sono più importanti di qualsiasi insieme di regole; nel qual caso possiamo fare molto meglio che sostituire Biden con qualche altro politico non responsabile. E' la politica democratica, a far parte di ciò che ci ha portato a questo punto. E se la democrazia è così tanto fragile da poter essere abolita per effetto di una sola elezione, allora essa è già fallita: non è mai stata un mezzo per garantire e difendere quell'autodeterminazione che tutti meritano. Abbiamo bisogno di qualcosa di più ambizioso, capace di fronteggiare il fascismo ed estromettere chiunque altro cerchi di detenere il potere. Abbiamo bisogno di un insieme di valori, principi organizzativi e strategie che ci permettano di orientarci nell'incubo che senza dubbio ci attende. È ancora possibile che la leadership del Partito Democratico si ricomponga e cambi rotta. Ma anche se lo facessero, il fatto che ci sia voluto così tanto tempo dimostra quanto sia pericoloso dipendere da loro, o da qualsiasi altro politico. Un concorso pubblico per la scelta di un candidato che sostituisca Biden, come proposto da alcuni dei democratici più accorti, potrebbe rivitalizzare il partito, richiamando alcuni fra coloro che se ne sono allontanati. Non sarebbe una buona notizia.

Risistemare le sedie a sdraio del Titanic di certo non ne impedirà l'affondamento, neanche se ci fosse un numero sempre maggiore di passeggeri entusiasti di partecipare a tale operazione. In attesa di un vero e proprio fascismo, o di un rinnovamento del riformismo democratico, dobbiamo considerare questa situazione come una finestra di opportunità, come un momento di insegnamento. È assai probabile che, a prescindere da ciò che i democratici faranno nei prossimi quattro mesi, Donald Trump vinca le elezioni. Allora tutte le istituzioni su cui i centristi contavano per proteggersi - la politica elettorale, il sistema giudiziario, la polizia, l'inclinazione dei cittadini comuni a rispettare la legge e a identificarsi con le autorità - diventeranno tutte armi nelle mani dei loro nemici. Naturalmente, molti di noi vivono già queste istituzioni come avversari. I sostenitori di Biden dovranno chiedersi se sono disposti a lavorare al nostro fianco contro di loro o se, in realtà, preferiscono il fascismo alla libertà. Negli ultimi vent'anni, è stato più facile bruciare le stazioni di polizia e rovesciare i governi piuttosto che ottenere delle modeste riforme. Questo dovrebbe essere istruttivo. Se c'è speranza di un qualche vero cambiamento, questa non proverrà dal pragmatismo, né dagli sforzi per ottenere dei miglioramenti incrementali. «La via conosciuta è un vicolo cieco», come disse una volta Eraclito. Quando nel 2016 Trump è salito al potere, un numero relativamente piccolo di anarchici si è immediatamente attivato per dimostrare il tipo di tattica con cui i movimenti di base possono impegnarsi in una resistenza decentralizzata. Quelle che erano poche centinaia di persone il primo giorno dell'amministrazione Trump sono diventate milioni nel maggio 2020. In vista di un altro periodo tumultuoso, dovremmo pensare a quali sono le nostre proposte strategiche oggi, a come queste potranno rivolgersi e dare potere ai milioni di persone che saranno costrette a cercare soluzioni al di fuori della politica elettorale, che lo vogliano o meno. I centristi non meritano di rimanere al potere e noi non meritiamo di vivere sotto il fascismo. Sta a noi tracciare una rotta per allontanarci da entrambi.

Dal CrimethInc. Collective (07/11/2024) - fonte: Autonomies -

Una Trappola Diabolica !!

«Sinora, gli artisti hanno solo rappresentato il mondo in vari modi diversi; ora si tratta di cambiarlo» (antyphayes, 2023).

Questa vuole essere una variazione sulla giustamente famigerata undicesima tesi di Marx su Feuerbach, vista dal punto di vista situazionista, attraverso il détournement e il fumetto francese Blake e Mortimer.
Nella sua undicesima tesi, Marx scrisse che «Sinora, i filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, in diversi modi; ora si tratta di cambiarlo.» Nel contesto della sua critica alla filosofia di Ludwig Feuerbach - un filosofo che aveva profondamente influenzato il pensiero di Marx - Marx sosteneva che la filosofia dovesse diventare mondana, quotidiana, in modo da intervenire sulla critica del mondo, al fine di cambiarlo in meglio. Così facendo, la filosofia avrebbe smesso di essere, in senso stretto, una pratica contemplativa separata da quel mondo che pretendeva di interpretare, e si sarebbe invece nuovamente fusa con il flusso della vita quotidiana da cui - nel mondo antico - era emersa sotto forma di attività specializzata.

Sebbene molti marxisti volgari immaginino che, nel mettere l' enfasi sul cambiamento del mondo piuttosto che sulla sua interpretazione, Marx stesse voltando le spalle alla filosofia, egli invece proponeva piuttosto che in questo modo la filosofia - "l'arma della critica", come la chiamava egli stesso - potesse diventare popolare, in modo da poter così essere superata, in quanto vista come serva del regno del capitale e della sua classe dominante. Il progetto di Marx, che prevedeva la realizzazione e l'abolizione della filosofia, venne ripreso dall'Internazionale Situazionista. Emergendo dalle avanguardie artistiche europee del secondo dopoguerra, i situazionisti giunsero a pensare l'arte in termini analoghi a quelli della critica di Marx alla filosofia. Secondo i situazionisti, il sogno delle avanguardie artistiche (ad esempio, dei Dada e dei Surrealisti) di realizzare la pratica artistica nel quotidiano, poteva essere realizzato solo abolendo l'arte così come la si conosceva: vale a dire un'attività relativamente di nicchia ed emarginata, il cui carattere era completamente dominato dai valori commerciali della società borghese. Il che non equivale a dire che l'arte vada distrutta; piuttosto, essa dev’essere abolita grazie alla sua realizzazione nella vita di tutti i giorni. O come ebbe a scrivere Isidore Ducasse nel lontano 1870, «la poesia deve essere fatta da tutti, non da uno solo». In tal modo, le pratiche artistiche diventano così altrettante pratiche, tra le tante altre. Come ha osservato una volta anche lo stesso Marx, ciò equivarrebbe a dedicarsi alla pittura senza mai limitarsi a essere soltanto un pittore. Allo stesso modo, in cui avviene nella vignetta che vedete qui sotto ...


Come se si dovesse tornare sempre e comunque sulla questione della rappresentazione - se non addirittura a quella della sua impossibilità - mentre invece quello che dobbiamo affrontare è il problema pressante di un industrialismo capitalista che ha assunto l'aspetto e le sembianze di un un inarrestabile cambiamento climatico ormai del tutto fuori controllo? Ecco che pertanto, allora, la questione non è quella secondo cui dobbiamo fare più arte - da mettere poi in vendita, o in qualsiasi altro modo, ma si tratta piuttosto di usare l'arte come se fosse solo un martello - solo uno tra i tanti altri strumenti - con cui rimodellare questo mondo morente prima che ci sia ormai ben poco altro da fare, se non morire con esso. Restate sintonizzati...

fonte: the sinister science

giovedì 11 luglio 2024

Un vasto programma !!

Serge Quadruppani, Une histoire personnelle de l’ultra-gauche, Paris, Divergences, 2023, 216 pages, 16 €.

Per il grande pubblico, Serge Quadruppani è noto soprattutto per il suo lavoro di traduttore e scrittore di romanzi noir. Per gli ambienti legati all'estrema sinistra, c'è da scommettere che tornerà alla mente la denuncia, partita da Didier Daeninckx, alla fine del secolo scorso a proposito delle connessioni tra alcuni militanti di estrema sinistra e i circoli negazionisti. Questo, torna assai utile per rievocare alcune realtà, per far luce su un singolare percorso personale e per fornire degli elementi di riflessione sul futuro del comunismo.

Il rischio che si corre, però è quello di confondere, in parte, il lettore, dal momento che "Une histoire personnelle de l’ultra-gauche" mescola insieme testi scritti oggi, letture di appunti e articoli più o meno vecchi, richiami storici e considerazioni sullo stato attuale del capitalismo, oltre a testi che parlano delle alternative che oggi fanno una notevole fatica a cercare di districarsi da tutto ciò. Ma una cosa è certa: non è in questo piccolo opuscolo che troverete una storia completa e dettagliata della cosiddetta ultrasinistra, la quale può anche essere definita "comunismo di sinistra". Certo, Serge Quadruppani parte dalle intuizioni del giovane Marx per sottolinearne tutta la freschezza, poi fa una deviazione verso Paul Lafargue e il suo "Il diritto alla pigrizia" - una lettura che lo colpì molto quand'era ancora adolescente – quindi passa a criticre la tesi, di Kautsky e di Lenin, secondo cui la coscienza politica dovrebbe arrivare necessariamente al proletariato portata dall'esterno, per poi evocare - tra le altre cose - uno dei momenti chiave della storia dell'ultrasinistra: la polemica tra Lenin e i comunisti consiliari.

Di questa corrente proteiforme, egli conserva soprattutto l'enfasi che viene posta sull'auto-organizzazione della classe, riferendosi ai vari portatori e continuatori di tale tesi, che furono Socialisme ou Barbarie, l'Internazionale Situazionista e Information et Correspondance Ouvrières (ICO). E qui, se c'è un secondo momento chiave di tutta la sua storia, questo risiede nel '68 e in quelli che sono stati tutti i suoi effetti indotti. Ma "Une histoire personnelle de l’ultra-gauche" offre a Serge Quadruppani anche l'opportunità di poter parlare di sé, delle sue modeste origini e della sua carriera politica. A partrire dalla sua maestra d'asilo, la "madrina” sociale alla quale venne affidato era in realtà la sorella di René Lefeuvre, figura chiave dell'estrema sinistra e fondatore dei Cahiers Spartacus. E fu così che al Quadruppani adolescente si aprì una porta sul movimento operaio, e sulle sue fertili e ricche frange (tra cui il gruppo/libreria La Vieille Taupe, che non va confuso con quella che poi si legò al negazionista dell'Olocausto Pierre Guillaume), ma quella porta si apri' anche sul letto del suo mentore.

Senza acrimonia - che non significa «senza rabbia repressa» – viene così rivelato il rapporto pedofilo che, da adolescente, lo ha legato per un certo periodo a quel riservato omosessuale. Facendolo, egli evidenzia anche il nesso tra itinerario individuale e contesto storico ; salutando perciò anche la forza sovversiva di quel maggio ‘68 che osò attaccare tutte le istituzioni, ma di certo non si curò della questione del consenso.

Del patrimonio dell'ultra-sinistra, una vera e propria "cassetta degli attrezzi", egli conserva la ricerca quasi ossessiva del soggetto rivoluzionario - del proletariato chiamato a realizzare l'essere-comune - ma critica la "passione per l'impotenza" (p. 16) così come pure gli errori di alcuni testi pubblicati da La Banquise, la rivista che uscì per quattro numeri negli anni Ottanta, e che un decennio dopo sarebbe finita nel mirino di Didier Daeninckx.

Autocritica non significa rinnegare, ma semplicemente ricollocare le cose nel loro contesto e fare chiarezza su ciò che si considerano errori. Per quanto riguarda la situazione attuale, e il futuro del comunismo inteso come movimento, rigetta le limitazioni imposte da alcuni teorici dell'ultra-sinistra riguardo le caratteristiche del proletariato, e lo fa a favore di una visione più ampia, giustificata a suo avviso anche dalla crisi climatica, da cui è nato il cosiddetto "essere-comune".

«Nel corso delle battaglie combattute nei secoli precedenti al nostro, la classe operaia si è trovata a essere depositaria di un tesoro più antico di sé stessa, un tesoro di possibilità per tutta l'umanità, che dobbiamo imparare a saccheggiare che gli operai ci sono ancora, ma che la classe operaia, in quanto “classe che deve abolire tutte le classi”, è ormai definitivamente assente». (p. 125-126).

Non sorprende, pertanto, che Serge Quadruppani critichi la tendenza eccessivamente scientista dell'ultrasinistra che la porta a privilegiare la complessità delle cause e la pluralità delle possibilità, sia passate che future. «(...) agli occhi dei rivoluzionari, ciò che avrebbe potuto essere dovrebbe essere altrettanto importante di ciò che è, al fine di intravedere ciò che sarà». (p. 132).

Dopo Le Brise-glace, Mordicus e l'esperienza associativa de La Bonne descente, Quadruppani si allontana dall'ultra-sinistra, ma non dall'impegno e dalla militanza. Ora, scrivendo per Lundì Matin, si definisce come un ultra-sinistro anarchico-autonomo, che ha mantenuto l'etica dell'anarchismo e l'esperienza epocale dell'operaismo, con l'obiettivo di porre fine allo sfruttamento capitalistico. Un vasto programma!

- Recensione di Jean-Guillaume Lanuque -  Pubblicato l'11/7/2024 su Dissidences : le blog -

mercoledì 10 luglio 2024

Ma tu guarda, l'Intelligenza Artificiale, cosa ne tira fuori dai vecchi versi di Dylan !!

«Einstein - mascherato da Robin Hood, insieme a un misterioso monaco - è passato di qui un'ora fa, con le sue memorie ben chiuse dentro un baule. Sembrava così candidamente spaventato mentre scroccava una sigaretta, finché poi non ha cominciato ad annusare le grondaie e a recitare l'alfabeto… A guardarlo ora non sembrerebbe, ma molto tempo fa era famoso per suonare il violino elettrico in Vicolo della Desolazione».

- Bob Dylan - da "Desolation Row", in "Highway 61 Revisited", 1965 -

fonte: @Dylanology Revisited

Il proletariato come sintomo ?!!???

Georg Lukács: dalle antinomie borghesi al problema della coscienza di classe [*]
- di Sandrine Aumercier -

Viene qui proposta  una lettura succinta di "Storia e coscienza di classe". Prima, qualche parola sul contesto. Georg Lukács era nato nel 1885 a Budapest. La Repubblica Democratica Ungherese era stata proclamata nel 1918 da Mihály Károly, che aveva così posto fine alla monarchia. Nel 1919, quando la Triplice Intesa (un'alleanza militare di Francia, Regno Unito e Impero russo) impose un'ulteriore perdita territoriale da parte dell'Ungheria, Karóly si dimise e il 21 marzo 1919 venne proclamato il Consiglio Rivoluzionario di Governo, costituito da una coalizione comunista e socialdemocratica sotto la guida di Béla Kun. Georg Lukács - membro del Partito Comunista Ungherese fin dalla sua fondazione - partecipò alla Repubblica dei Consigli del 1919. Dopo il fallimento di quell'esperienza (rapidamente schiacciata dalle truppe franco-rumene), Lukács, insieme ad altri, andò in esilio. Nazionalizzazioni, confische di terre, leggi sociali, tribunali di epurazione, un partito unico e il lavoro forzato, furono solo alcune delle misure della Repubblica dei Consigli, che si ispirava alla Repubblica Sovietica. I testi che compongono Storia e Coscienza di classe vennero scritti tra il 1919 e il 1922, in un momento in cui si poteva presagire la prossima rivoluzione mondiale; essi fanno parte del rinnovamento del dibattito tra "marxismo occidentale" e "marxismo bolscevico" e vanno visti sullo sfondo di un'interpretazione sociologica della storia (Maximilien Rubel), e cercano di elevare tale dibattito a un livello teorico che lo superi e che lo stabilisca nell'ortodossia. Ma quest'opera è stata subito oggetto di una critica incrociata proveniente dalle due principali tendenzeche aveva criticato. I comunisti del partito l'accusarono di "idealismo soggettivo", e Lukács dovette rinnegarla pubblicamente più volte. Aggiungendo poi, quando la tradusse in francese nel 1960, quella che è forse la sua unica autocritica non commissionata.

Per Lukács, il proletariato è il soggetto della storia, che accede, grazie alla sua posizione nel contesto delle relazioni sociali, alla conoscenza della totalità capitalistica, la quale invece rimane inaccessibile alla coscienza borghese. La teoria, da quel "punto di vista", sostiene che la conoscenza dipende da qual è la posizione di classe all'interno dei rapporti sociali di dominio. Tutte le parti del libro che trattano il proletariato, appaiono come se fossero la giustificazione pratica degli eventi ungheresi, sviluppata dal "punto di vista del proletariato". Qui, Lukács fa l'apologia del Partito Comunista, dell'organizzazione, della disciplina e persino della repressione. Le parti teoriche costituiscono pertanto il fondamento ideologico che sviluppa ciò che egli definisce come il "punto di vista della totalità". In esse viene sostenuto un materialismo dialettico che  restituisce alla loro storicità l'apparenza dei fatti sociali immutabili. Non si tratta di ricostruire la loro cronologia esterna, bensì i loro rapporti di necessità organica e la loro novità storica.  Lukács ritiene che la reificazione della coscienza borghese - in un oggetto inconoscibile e in un soggetto contemplativo - faccia parte dell'essenza della società capitalista, di cui vede la massima espressione nell'idealismo tedesco. Questo soggetto si dedica alla comprensione del suo oggetto di contemplazione; e lo fa sopprimendo dal suo modo di pensare - in favore di un soggetto puramente formale -  tutti i momenti soggettivi e irrazionali.  Lukács rifiuta la moderna suddivisione delle scienze in domini autonomi – che egli definisce come il "punto di vista dell'individuo", prendendo, per far questo, in prestito da Max Weber la nozione di individualismo metodologico – affermando invece l'unica scienza "storica e dialettica, unica e unitaria, dello sviluppo della società vista come totalità". Nel capitalismo, tale unità sociale si basa sul dominio della forma-merce, che permea tutti gli aspetti della società. Lukács sviluppa una teoria della reificazione che rompe con la naturalizzazione del valore d'uso, caratteristico del marxismo tradizionale, e reintroduce il feticismo della merce in un corpus ideologico che non voleva aver nulla a che fare con esso. A questo proposito, egli sottolinea una "svolta qualitativa" storica, sottolineando che "la forma mercantile deve di conseguenza [...] penetrare tutte le manifestazioni vitali della società e trasformarle a sua immagine e somiglianza, anziché limitarsi a collegare dall'esterno dei processi che sono a loro volta indipendenti da essa e che sono orientati alla produzione di valori d'uso. [...]  Poiché è solo come categoria universale dell'essere sociale totale che la merce può essere compresa nella sua autentica essenza. L'uguaglianza formale di tutti i prodotti del lavoro astratto non rappresenta solamente il denominatore comune di tutti questi prodotti - insiste Lukács - ma costituisce quello che è anche il vero principio del processo reale di produzione delle merci". Ciò che viene qui introdotta, è una comprensione del feticismo della merce che comprende non solo i prodotti della produzione, ma la produzione stessa. Alla vecchia produzione organica si sostituisce il legame astratto tra elementi dislocati. Il principio fondamentale della forma merce - per la cui descrizione Lukács si rifà agli scritti di Max Weber - è la crescente razionalizzazione della produzione, che implica l'estensione del dominio del calcolo e la sempre maggiore decomposizione dell'insieme in elementi distinti: "Non è pensabile una razionalizzazione senza una specializzazione". Le specifiche operazioni della produzione acquistano un'autonomia relativa per poi venire riunite a posteriori attraverso l'omogeneizzazione globale - e contingente, dal punto di vista qualitativo - del loro elemento calcolabile, declinato in tempo astratto. Queste operazioni hanno la loro controparte nella razionalizzazione formale da parte dello Stato, del diritto e dell'amministrazione. Inoltre, hanno anche la peculiarità di cancellare dalla coscienza borghese "ogni e qualsiasi immagine di totalità", dal momento che la formalizzazione costituisce una "barriera metodologica " alla comprensione della crisi. Tuttavia, le "possibilità di ampliamento illimitato" di tale metodo di razionalizzazione non possono superare il suo "limite strutturale" costituito dalle antinomie della totalità. Quanto più i campi scientifici separati si danno un metodo chiaro e delimitato, tanto più eludono il problema del loro fondamento ontologico localizzandolo, se necessario, nell'inafferrabile "cosa-in-sé". Da Kant in poi, la filosofia critica ha eternizzato queste antinomie pretendendo di risolverle solo nel pensiero, attraverso l'assolutizzazione di una sorta di astuzia filosofica. La dialettica idealista di Hegel, che pone l'unità speculativa tra soggetto e oggetto, fallisce per lo stesso limite, in quanto ritiene di poter risolvere nell'idea la disgiunzione stessa che aveva giustamente diagnosticato. Hegel, contravvenendo alle sue intenzioni, situa la Ragione al di fuori della storia, ovvero nell'irruzione storicamente contingente di un "bisogno di filosofia". Questo bisogno definisce il nuovo compito di una ragione che ricapitola la propria storia essenzializzando retroattivamente sé stessa. Ma lo stesso Hegel non sa come si spieghi l'irruzione storica di questa necessità. Pertanto, l'universalità della forma-merce condiziona tanto soggettivamente quanto oggettivamente l'oggettivazione astratta del lavoro, e lo fa istituendo l' impotente confronto faccia a faccia tra l'operaio e il processo di produzione globale. Conseguentemente, per Lukács, "questa dislocazione dell'oggetto della produzione comporta necessariamente anche la dislocazione del suo soggetto". Nel corso della dinamica dello sviluppo capitalistico, questa struttura di reificazione continua a penetrare sempre più profondamente nella coscienza degli esseri umani, e lo fa man mano che essi interiorizzano sempre più la loro sottomissione alle "leggi" giuridiche ed economiche, che il più del volte si riducono a essere solo delle leggi di probabilità. Pertanto, la critica della reificazione non può essere limitata solo a una critica esteriore della mercificazione di tutta la produzione (quella che oggi è chiamata la "mercificazione del mondo"). Essa deve occuparsi anche di quella stessa reificazione soggettiva dei suoi soggetti, tramite la quale essi vedono i propri talenti e le proprie capacità come delle proprietà simili a quelle delle cose che essi credono di "possedere", in modo da potersi inserire nel processo di produzione globale sotto forma di un intervento strumentale.

È a questo punto che Lukács compie un salto assertivo in direzione del proletariato. Dal "punto di vista della totalità" che si cela nel soggetto della merce, poiché sprofondato nell'impotente contemplazione delle proprie condizioni sociali oggettivate, Lukács passa direttamente all'esaltazione del proletariato in quanto classe che risolve nell'azione le antinomie insolubili del pensiero determinate dall'appartenenza ai rapporti di produzione. Qui l'impasse idealista trova la sua soluzione pratica. Le precedenti antinomie sono infatti quelle per cui il pensiero borghese si riflette nella propria insuperabile reificazione. Ma il proletariato sarebbe portatore di un "punto di vista" in grado di trascendere queste antinomie proprio per il fatto della sua posizione pratica dentro gli antagonismi sociali. Soltanto lui avrebbe quindi potenzialmente accesso alla conoscenza della totalità rimasta preclusa alla coscienza borghese. In tale maniera, Lukács trasferisce l'analisi delle antinomie strutturali del pensiero borghese all'interno di una strutturazione sociale degli antagonismi di classe. La natura borghese di queste antinomie, prima dichiarata strutturale, viene subito identificata con la classe dei borghesi a livello empirico. La categoria mediatrice diventa quella della coscienza di classe, che si suppone accessibile al proletariato attraverso l'esperienza della lotta e con la mediazione del Partito. Lukács assegna al proletariato il compito del "fondamentale rovesciamento di tutta la società borghese". Il proletariato è in grado di impadronirsi delle mediazioni oggettive dell'essere sociale che la borghesia ha congelato come antinomie del pensiero. Ma ciò per Lukács non significa un'evoluzione lineare e meccanica in direzione della rivoluzione proletaria. Lukács non spiega in alcun modo su cosa sia fondata questa capacità del proletariato, accontentandosi di asserire che "per il proletariato prendere coscienza dell'esistenza dialettica della propria esistenza è questione di vita o di morte". In realtà, secondo Lukács, all'operaio viene negata l'illusoria attività di soluzione filosofica che mantiene la borghesia nel suo ruolo di classe. L'operaio è condannato a essere ridotto a una cosa. Pertanto, secondo Lukács, egli, di questo, ne possiede una conoscenza immediatamente pratica. Può perciò soltanto diventare consapevole di quelle che sono le mediazioni invisibili che organizzano la sua situazione. Neanche per un attimo, Lukács ritiene che il proletariato condivida con la borghesia la tendenza a integrarsi in dei rapporti di produzione capitalistici pienamente realizzati. È possibile che, a breve termine, il proletariato confonda benissimo questa tendenza con i suoi interessi di classe. In quanto soggetto di interessi capitalistici, fa parte del suo interesse immediato trovare il proprio posto persino all'interno dei rapporti capitalistici, anziché rovesciarli. Né Lukács ritiene che il proletario disponga - quanto ne dispongano gli altri - di altrettanti e variegati espedienti ideologici che gli consentano di mantenere il proprio status. Di fronte a un simile rischio, Lukács si rifugia nella magnificenza leninista della guida illuminata delle masse ad opera del Partito... La mancanza di lucidità di Lukács dovrebbe quindi condurci a una completa rivalutazione della categoria di coscienza di classe e di coscienza sociale nell'ambito del marxismo. E infatti è in base a una concezione ingenua della coscienza collettiva, attinta dal marxismo tradizionale, che Lukács può passare da un' analisi della natura insolubile di quelle che lui chiama le "antinomie della totalità" alla loro risoluzione, svolta mediante una coscienza di classe postulata ad hoc in un proletariato che non sarebbe influenzato da queste antinomie. In questo modo la reificazione strutturale si tramuta improvvisamente in una reificazione sociologica. La coscienza di classe diventa l'istanza finale del rovesciamento, non perché sia stato dimostrato che essa abbia questa capacità, ma perché senza di essa la teoria della rivoluzione collasserebbe sull'ultima vera antinomia, quella tra coscienza e inconscio.

Se si può considerare la situazione del proletariato come un "sintomo" della totalità capitalistica, dal momento che esso subisce nella propria carne la contraddizione principale, questo sintomo tuttavia non costituisce una reificazione semplicemente oggettiva. Il "sintomo proletario" si esprime anche attraverso il suo stesso essere compromesso nell'integrazione all'interno delle relazioni capitalistiche. La stessa constatazione vale anche per tutte le forme moderne dell'esclusione - dal razzismo ordinario fino alla produzione del superfluo - nelle quali il sintomo sociale non costituisce solo l'effetto di una logica oggettiva imposta dall'esterno ai soggetti passivi della merce. Il sintomo è allo stesso tempo anche il "trattamento della contraddizione" (Robert Kurz) da parte di questi stessi soggetti, vale a dire tutte le forme assunte dall'auto-esplicazione soggettiva della propria situazione. Per di più, il sintomo è anch'esso una creazione individuale derivante dall'individualizzazione strutturale dei rapporti sociali: esso non viene eliminato solo attraverso una comprensione intima di questo, né attraverso la comprensione dei rapporti di dominio. Le creazioni di sintomi sono rese necessarie, universali e allo stesso tempo privatizzate grazie all'atomizzazione dell'individuo in quanto soggetto di interesse all'interno di relazioni sociali competitive. La sua situazione di individuo atomizzato lo costringe a soggettivare attivamente, e in modo sintomatico, non solo le contraddizioni esterne, ma anche quelle interne, ossia il modo in cui esse verranno rappresentate nella sua economia libidica. Si tratta di due livelli di formazione del sintomo. Questo processo di soggettivazione non è suscettibile di essere semplicemente abolito, se non attraverso la lunga storia delle purghe con le quali il comunismo ha creduto di potersi liberare di questa aporia mediante la liquidazione totale degli individui scomodi. Questa nuova situazione non consente di attribuire il superamento della propria forma sintomatica immanente a un qualsiasi emergere della "coscienza, sempre posta come esteriorizzazione idealistica rispetto alle relazioni esistenti. L'analisi di tale situazione moderna proibisce anche l'angelizzazione paternalistica dei dominati". Non per niente questi paradossi hanno costituito la base del programma di ricerca della Scuola di Francoforte. Gli autori della Scuola di Francoforte trovarono in Lukács una prima riflessione sul tema della merce. Tale riflessione era stata bandita dal marxismo ortodosso, che aveva una visione deterministica del proletariato. In questo senso, l'accusa di idealismo rivolta a Lukács dai comunisti di partito sulla base di una concezione positivista delle leggi della storia era tanto più sbagliata se si considera che lo stesso comunismo di partito partecipava a questa falsa oggettività borghese, svuotando il soggetto delle cosiddette "leggi" che credeva di trovare nel materiale storico. Era altrettanto positivista della sua controparte capitalista, poggiando inconsapevolmente sulle stesse basi categoriali. Era proprio questo ciò che Lukács minacciava di sovvertire con la sua teoria della reificazione. Ma intravediamo già nel suo tentativo la deriva successiva, quella che riguarda la teoria del soggetto stesso. Tale teoria non è stata sottoposta alla critica decisiva, quella della coscienza. La falsa esternalità della coscienza di classe - costantemente invocata o postulata, eppure puntualmente fallita fin dalle origini del marxismo - è un chiarissimo segno dell'assorbimento acritico, da parte del marxismo, della forma più insidiosa di idealismo borghese: quello che crede di poter determinare gli eventi attraverso la "consapevolezza" - eventi di cui la coscienza è sempre, però, ontologicamente e storicamente il prodotto secondario e derivato (Hegel almeno era coerente con questa premessa; e Marx, che ne aveva preso le misure, l'ha trasformata in una mistificazione sulla "uscita dalla preistoria"). Anche Lukács lo ammetterà, nella sua ultima autocritica: "Il ribaltamento della coscienza ‘assegnata’ che diventa una prassi rivoluzionaria, appare qui oggettivamente come se fosse un puro miracolo". È proprio a partire da questa seconda posizione, che non potrà essere la prima - come dimostra la psicoanalisi - che invece è possibile esplicitare realmente un trattamento del sintomo, evitando di postulare una riconquista del potere o una gestione consapevole dei rapporti di dominio, se non addirittura una soppressione autoritaria del sintomo che potrebbe arrivare fino alla liquidazione del suo portatore... Un simile pseudo-rovesciamento dei rapporti di dominio si risolve regolarmente nel cloro passaggio di mano, non nella loro eliminazione. Tuttavia, non si tratta nemmeno di una mera accettazione dell'ordine esistente. Al contrario, l'esplicitazione dell'assoggettamento del soggetto costituisce il modo paradossale con cui il soggetto può riappropriarsi della sua attività, non come la riconquista di una padronanza astratta (che nel post-freudismo revisionista viene assimilata all'"io forte"), ma come un barlume di quella che è la propria attività inconscia all'interno del determinato campo dei rapporti di potere che la precedono radicalmente. Il rovesciamento per cui la seconda coscienza diventa coscienza fondatrice, non può che portare al regno della rimozione. Invece, la riappropriazione negativa (o critica) della seconda posizione della coscienza costituisce, al contrario, il fermento di un'azione riveduta senza utopismo, e senza illusione di padronanza: quella che si può chiamare un'etica. Che il capitalismo produca tale illusione di dominio, come se fosse la sua ombra, attiene a ciò che rimane da sviluppare per quel che riguarda una teoria critica del soggetto, in particolare del soggetto politico. E' necessario spiegare perché quest'ultimo insegua costantemente il recupero della sua falsa autonomia all'interno dei rapporti esistenti - quelli che denuncia - anziché rifiutarsi di dare credito a questi rapporti.

Sandrine Aumercier, 1° Giugno 2024 - [*] Questo testo è la versione scritta in francese di un contributo presentato il 1° Giugno 2024 nel seminario "Psicoanalisi e capitalismo" (Café Plume, Berlino).

fonte: GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme

martedì 9 luglio 2024

Appunti amorosi…

«Roland Barthes è stato un uomo con il quale ho anche fatto amicizia, ma che in fondo non ho mai potuto ammirare. Con lui, ho sempre avuto come l'impressione che assumesse sempre la stessa postura cattedratica, assai controllata, rigorosamente di parte. Una volta che ebbi finito il suo ciclo delle "Mitologie", poi non sono più riuscita a leggerlo. Dopo la sua morte, ho riprovato a leggere il suo libro sulla fotografia, ma a tutt'oggi non ci sono ancora riuscita, tranne che per un capitolo molto bello su sua madre. Questa madre venerata, che era stata la sua compagna e l'unica eroina nel deserto della sua vita. In seguito, poi ho iniziato a leggere "Frammenti di un discorso amoroso", ma non ho potuto continuare a leggerlo. Naturalmente è un libro molto intelligente. Appunti amorosi, certo, è questo, amorevole, discolparsi in quel modo, senza amare, ma non è niente, a me sembra niente, era una delizia d'uomo, una vera delizia, in ogni caso. E uno scrittore, in ogni caso. Ecco, è così. Scrittore di una particolare scrittura, immobile, regolare.»

(Marguerite Duras, da “La vita materiale”, 1988, ...)

lunedì 8 luglio 2024

Miseramente infelice, l'uomo...

«Tra le cose più tristi che può fare, l'unica attività che un uomo può svolgere per otto ore al giorno, ogni giorno, un giorno dopo l'altro, è quella di lavorare. Non puoi mangiare per otto ore al giorno, né puoi bere per otto ore al giorno, né puoi fare l'amore per otto ore; per otto ore si può solo lavorare. Ed è questa la ragione per cui l'uomo rende sé stesso - e ogni e chiunque altro - così tanto miseramente infelice». (William Faulkner)

Era la primavera del 1947, quando il dipartimento di inglese dell'Università del Mississippi incaricò William Faulkner di tenere una lezione al giorno per una settimana. Per l'occasione, venne impedito all'insegnante di ogni classe di partecipare a quelle sessioni durante le quali Faulkner trascorse tutto il tempo a rispondere alle domande degli studenti. La frase in calce, all'inizio, proviene dalla registrazione di quelle sessioni.

Questo non l'ha fatto l'economia!!

È tutto scritto nel titolo: non ci sarà nessun viaggio interstellare fino a quando non ci libereremo del capitalismo! E pertanto, di conseguenza, fino a che non ci libereremo anche della sua idea, e prassi, che impone ci sia una sfera economica organizzata separatamente, e in contrapposizione alla vita quotidiana.

L'immagine che vedete proviene dalla serie tv, UFO, di Gerry Anderson, e forse è questo il motivo per cui in quella serie gli Alieni stavano cercando di aiutarci, nel mentre che l'organizzazione fascista SHADO si adoprava per salvaguardare il capitalismo sulla Terra. Maledetto Ed Straker!! Restate sintonizzati...

fonte: the sinister science

domenica 7 luglio 2024

Una malattia della specie !!???

In un momento chiave del celebre film sul generale Patton, un memorabile George C. Scott passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita». È eloquente che James Hillman abbia scelto proprio questa scena, tanto spiazzante quanto rivelatrice, per introdurre il provocatorio tema del suo nuovo libro: la guerra come pulsione primaria e ambivalente della nostra specie – come pulsione, cioè, dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Il presupposto è che se di quella pulsione non si ha una visione lucida ogni opposizione alla guerra sarà vana. Frantumando la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant –, Hillman risale così, in perfetta consonanza con la sua visione della psicologia, al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares e Afrodite. In questa prospettiva tutte le guerre del passato e del presente appariranno quindi semplici variazioni della guerra più emblematica dell’Occidente classico, quella cantata nell’Iliade. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt –, Hillman ci guida a una scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – lo dimostra la contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.

(dal risvolto di copertina di: James Hillman, "Un terribile amore per la guerra", Adelphi, pp.296, €22,80) 

Leggere la guerra (e capirla)
- di Nicola Lagioia -

Alla fine del secolo scorso abbiamo vissuto un breve «sciopero degli eventi». Finita la guerra fredda ci siamo illusi che la Storia (cioè l'avventura umana fondata su violenza, prevaricazione, scontro di popoli e nazioni) si stesse trasfigurando. Se già allora sarebbe bastato guardare a due passi per ricevere smentita (la guerra civile nella Ex-Jugoslavia), i decenni successivi hanno smentito in modo sempre più evidente questa illusione, fino a vederla svanire del tutto adesso con l'invasione dell'Ucraina e la crisi in Medio Oriente. Riecco la guerra, non se n'era mai andata. Le trasmissioni televisive si sono popolate di esperti in geopolitica, i quali cercano di farci capire cosa sta accadendo, perché è accaduto, cosa potrebbe succedere.

La geopolitica è importante, ma da sola non basta. Dobbiamo provare a leggere la guerra anche come problema dell'umanità, una malattia della specie. Per farlo torna utile uno degli ultimi libri di James Hillman, "Un terribile amore per la guerra", secondo alcuni il testamento del grande psicologo junghiano scomparso nel 2011. Perché gli umani, si chiede Hillman - in modo troppo regolare per considerarla un'eccezione -, vanno ciclicamente alla guerra? Perché, in certi momenti della nostra storia, agiamo collettivamente sotto l'influsso di Marte? Cosa ci fa impazzire, cosa ci inebria in modo tanto oscuro? «Se non entriamo dentro questo amore per la guerra, non riusciremo né a prevenirla né a parlare di pace e disarmo», scrive Hillman, «nessuna sindrome può veramente essere strappata alla sua tragica fissità se prima non spingiamo l'immaginazione fin dentro il suo cuore». Dall'Iliade alle guerre contemporanee, un lungo e inquietante viaggio notturno, necessario per provare a leggere a una diversa profondità anche il periodo che stiamo vivendo.

- Nicola Lagioia - Pubblicato su Tutto Libri del 16/12/2023 -

sabato 6 luglio 2024

La parola chiave è: «eliminare» !!

Bordiga e Gramsci di fronte alla tattica del fronte unico, il processo di bolscevizzazione e il caso Matteotti (1924)
- di Agustín Guillamón -

Dopo il V Congresso dell'Internazionale Comunista, tenutosi nel giugno-luglio 1924, due fenomeni dominarono la vita politica del PCd'I: la tattica parlamentare aventiniana e la bolscevizzazione del partito. Allo stesso tempo, parallelamente all'emarginazione della sinistra, c'era stato un notevole aumento numerico del numero dei militanti. La tattica parlamentare del PCd'I, che consisteva nell'isolare i fascisti in Parlamento per unire i partiti liberali e socialdemocratici in un'opposizione democratica antifascista, si era conclusa con un fallimento. Il 10 giugno 1924, Matteotti, segretario del PSU che si era distinto nel denunciare la violenza fascista usata nella campagna elettorale di aprile, venne rapito da una squadra fascista e assassinato. Il 14 giugno tutta l'opposizione parlamentare ai fascisti, dai Popolari ai comunisti, lasciò il Parlamento per creare un comitato chiamato Aventino. L'opposizione sperava in un'azione giudiziaria che denunciasse la brutalità del regime fascista e ottenesse la rimozione di Mussolini. Ma sia il re che la magistratura divennero tacitamente complici del regime mussoliniano. Gramsci e Scoccimarro, che, vista la gravità delle vicende italiane, avevano annullato il loro viaggio a Mosca compresero la difficoltà del momento e le ampie prospettive politiche che si stavano aprendo. Gramsci ne scrisse: «A giugno, subito dopo il delitto Matteotti, il colpo subito dal regime era stato così forte che un intervento decisivo da parte di una forza rivoluzionaria lo avrebbe messo in pericolo. L'intervento non è stato possibile, e questo perché la maggioranza delle masse non era in grado di muoversi, o era sotto l'influenza dei democratici e dei socialdemocratici» [*1]. Le masse non erano pronte all'azione contro il fascismo perché nessun partito antifascista, tranne il PCd'I, era disposto a fare quel salto nel vuoto che avrebbe portato a una situazione simile a quella che era seguita allo sciopero generale dell'agosto 1922. La CGL, fin dall'inizio si è opposta a qualsiasi appello alla protesta che potesse sfociare in uno sciopero. Le trattative con Mussolini, per l'inserimento di un sindacalista nel governo fascista, da parte di D'Aragona e di altri importanti dirigenti della CGL, oppure l'idea di un partito operaio basato sull'organizzazione della CGL, finirono per avvicinare al regime fascista quella che era l'unica organizzazione sindacale a livello nazionale, allontanandola così dall'opposizione antifascista e dall'influenza comunista. Gramsci e Scoccimarro, imprigionati nella tattica del fronte unico, non potevano fare da soli ciò che il resto dei partiti liberali, democratici e socialdemocratici dell'Aventino non voleva. Così, dopo aver denunciato su L'Unità l'assassinio di Matteotti da parte dei fascisti, il 14 giugno si associarono alla decisione di astenersi dai lavori parlamentari. Il PCd'I si unì al resto dei partiti antifascisti dell'Aventino. La proposta di sciopero generale, avanzata dal PCd'I all'Aventino, venne respinta da tutto il resto dei partiti antifascisti, i quali temevano la prospettiva rivoluzionaria delle masse più della violenza del fascismo.

Bordiga non era d'accordo con la tattica del fronte unico proposta dalla nuova direzione del PCd'I. Così spesso descritto come un astensionista, Bordiga proponeva invece, nella più pura ortodossia del parlamentarismo rivoluzionario, l'uso della Camera per denunciare da essa il carattere criminale del governo fascista. Il PCd'I convocò uno sciopero generale per il 27 giugno, il quale fu un fallimento assoluto. L'isolamento dei comunisti era ora un dato di fatto. Allo stesso tempo, d'altra parte, l'idillio nelle relazioni diplomatiche tra il regime fascista e il regime sovietico raggiunse il suo apice proprio nel pieno della crisi Matteotti. Così, il 7 novembre, Mussolini fu invitato dall'ambasciata sovietica a celebrare l'anniversario della rivoluzione russa.  Il banchetto, che non fu certo un aneddoto poco interessante, quanto piuttosto il culmine delle buone relazioni economiche tra Russia e Italia, contribuì ad alimentare la leggenda di una collaborazione italo-russa e, attraverso i due governi, di una collaborazione tra fascismo e comunismo che non mancò di danneggiare il PCd'I e accentuarne l'isolamento. L'Aventino respinse la tattica dell'Anti-parlamento che era stata approvata dal Comitato Centrale del PCd'I il 15 ottobre. Solo le fortissime pressioni provenienti dalla base e dalla sinistra - favorevoli al ritorno dei comunisti nel Parlamento fascista - riuscirono a far accettare all'Internazionale Comunista una formula intermedia. All'apertura delle sessioni parlamentari, venne inviato dapprima un solo parlamentare comunista, per poi, via via, progressivamente, nella Camera dei deputati sarebbe stato integrato l'intero gruppo parlamentare. Il deputato scelto per il ritorno in Parlamento, era il militante di spicco della sinistra ed ex membro del Comitato esecutivo nominato a Livorno, Luigi Repossi. Il suo coraggioso intervento parlamentare, davanti a 300 deputati fascisti, trovò ampia eco nel paese, e accrebbe notevolmente il prestigio del PCd'I tra le masse. Repossi iniziò il suo intervento accusando direttamente Cesare Rossi e Marinelli di essere gli assassini di Matteotti. Per poi negare ai parlamentari fascisti, complici dell'omicidio, il diritto di commemorare il deputato assassinato: «Dacché mondo è mondo, agli assassini e ai complici degli assassini non è mai stato permesso di commemorare le loro vittime» [*2]. Malgrado i fascisti avessero l'evidente consegna di non attaccare l'unico deputato comunista presente in Aula, il clima di tensione prodotto dalle aspre accuse di Repossi era evidente nelle minacce verbali lanciate contro Repossi, quando fu a metà del suo discorso: «Non ti tocco perché mi fai schifo!» (Capanni) Repossi aveva incluso nella sua breve dichiarazione un elenco dei punti essenziali proposti dal PCd'I per risolvere la crisi: «Fuori il governo degli assassini e di tutti coloro che vivono alle spalle del popolo. Disarmare le camicie nere. Armare il proletariato. Istituire un governo operaio e contadino. Alla base di questo governo e della dittatura della classe operaia, ci saranno i comitati operai e contadini». L'intervento di Repossi si concludeva rivolgendo ai parlamentari fascisti il grido accusatore di «assassini!»: «E ora commemorate pure Giacomo Matteotti, ma ricordatevi del grido della madre del Martire, che ora è diventato anche il grido di milioni di lavoratori: "Assassini! Assassini!"». L'intervento di Repossi in Parlamento, il 12 novembre, non rappresentava una vittoria delle tesi di Bordiga a proposito del parlamentarismo rivoluzionario, quanto piuttosto una tipica oscillazione della tattica del fronte unico che era stata adottata a partire dalla direttiva gramsciana. Il 3 gennaio del 1925, in concomitanza con l'approvazione delle leggi straordinarie che mettevano fine alla "crisi Matteotti", avvenne la reintegrazione in parlamento dell'intero gruppo parlamentare comunista. Nella seduta parlamentare del 3 gennaio 1925, Mussolini si assumeva la piena responsabilità dell'assassinio di Matteotti: «Dichiaro alla presenza di questa Assemblea e alla presenza dell'intero popolo italiano che io, e solo io, mi assumo la responsabilità politica, morale e storica di quanto è accaduto. […] Se il fascismo è un'associazione di criminali, il capo di questa associazione di criminali sono io!» [*3]. Si concludeva in questo modo la crisi Matteotti: con il rafforzamento del fascismo e di Mussolini, con la sconfitta assoluta dell'opposizione antifascista e con la fine dell'Aventino. Dopo il discorso di Mussolini, l'esistenza di un'opposizione parlamentare diveniva praticamente impossibile. Di fatto, i partiti entravano ora in una fase di semi-legalità, a seconda di qual era il grado di tolleranza del regime. La crisi Matteotti si era aperta il 12 giugno 1924 con l'assassinio di Matteotti e si concludeva il 3 gennaio 1925 con la vittoria politica del fascismo e la sconfitta di tutti i partiti antifascisti. L'Aventino fu, pertanto, un fallimento totale che finì per rafforzare il fascismo. In coincidenza cronologica con la crisi Matteotti e con la tattica parlamentare - guidata da Gramsci - di un'alleanza antifascista con i partiti liberali e socialdemocratici, ebbe inizio la bolscevizzazione del Partito Comunista.

La bolscevizzazione del PCd'I significherà una feroce lotta contro Bordiga e la sinistra del partito. Questo sincronismo tra tattica antifascista e bolscevizzazione non fu una semplice casualità, bensì una dimostrazione del fatto che la lotta di Gramsci e del Centro contro Bordiga e la sinistra implicava un totale cambiamento nella strategia, nell'organizzazione e nella funzione storica del partito comunista. La lotta tra la nuova leadership, sostenuta dal Komintern, e la sinistra del PCd'I non si svolse solo sul terreno della tattica, ma fu assai più profonda. Il partito che emerse dal processo di bolscevizzazione non era più il partito di Livorno. Le prime risoluzioni sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti vennero approvate nel corso del V Congresso dell'IC. Anche la sinistra del PCd'I votò a favore delle risoluzioni sulla bolscevizzazione dei partiti, in quanto favorevoli alla centralizzazione e alla disciplina organizzativa. Fu a partire dal V Esecutivo allargato - che si riunì nel marzo 1925 e al quale Bordiga non partecipò, sostituito da Scoccimarro - che cominciarono a prendere forma le misure pratiche di che cosa l'Internazionale, nella sua nuova svolta tattica, ora intendesse per «bolscevizzazione dei partiti comunisti». Il documento più importante che venne prodotto dal V Esecutivo Allargato fu le "Tesi sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti" [*4], le quali sostenevano un inasprimento della disciplina e la centralizzazione dei partiti. Teorizzava l'allontanamento dalla prospettiva rivoluzionaria immediata, il consolidamento della rivoluzione russa e l'assunzione del partito russo come modello da imitare per tutti i partiti comunisti. Il prestigio del Partito bolscevico si trasformava ora nel predominio del partito russo su tutti gli altri partiti, e il Komintern diventava solo uno strumento al servizio della politica estera dello Stato russo. Fu il primo passo verso la teoria del socialismo in un solo Paese, e in questo senso fu esattamente il contrario di quanto sostenuto da Bordiga al Quinto Congresso, secondo cui il Komintern avrebbe dovuto essere il fulcro per risolvere i disaccordi in seno al Partito bolscevico. La bolscevizzazione rappresentava anche l' allargamento a livello internazionale della lotta contro il trotskismo. In pratica, la centralizzazione e la disciplina, teorizzate nelle tesi sulla bolscevizzazione si tradussero nella manipolazione dei partiti comunisti, e nella totale sottomissione agli orientamenti imposti dal partito russo. La bolscevizzazione diventava lo strumento usato dall'esecutivo del partito bolscevico per risolvere, attraverso misure organizzative e disciplinari, qualsiasi discrepanza ideologica. La lotta anti-trotskista - così come quella contro le deviazioni di destra o di sinistra - divenne come una formula vuota che consentiva di schiacciare qualsiasi opposizione all'interno dei partiti comunisti, o dell'Internazionale, attraverso rigide misure disciplinari, di natura arbitraria, che evitavano sia il confronto ideologico che il dibattito politico. Il processo di bolscevizzazione implicò una riorganizzazione dei partiti fondata su cellule operative, le quali avrebbero sostituito la vecchia organizzazione territoriale, giudicata di stampo socialdemocratico. Questa riorganizzazione del partito - unitamente a dei cambiamenti di leadership e a massicce campagne di reclutamento di nuovi militanti, come avvenne nel caso italiano - portò all' avvento di nuovi quadri dirigenti fedeli a Mosca, che dovettero la loro nomina, e il loro dominio sull'opposizione interna, al sostegno del Komintern e alle misure disciplinari e organizzative volute dal partito russo. La riorganizzazione del partito divenne in tal modo uno strumento di quella lotta politica che avrebbe consentito alla direzione imposta da Mosca, e assuefatta alla direzione stalinista dominante nel partito russo, di schiacciare tutte le correnti interne di opposizione. Questi due elementi - la riorganizzazione del partito sulla base delle cellule e il rinnovamento del gruppo dirigente, che doveva le sue posizioni e il suo dominio sul partito proprio all'appoggio di Mosca - ricevettero una copertura ideologica e teorica grazie al leninismo, inteso come interpretazione ortodossa del marxismo e come fede cieca nel partito. Qualsiasi disaccordo o contrarietà alla bolscevizzazione veniva bollata come deviazione eterodossa, che fosse di destra o di sinistra. Storicamente, la bolscevizzazione è stata un fenomeno complesso che ha avuto un'influenza decisiva sulla Terza Internazionale dal 1925 fino alla sua dissoluzione nel 1943, riflettendosi nella dipendenza, dal modello sovietico, di tutti i partiti comunisti, e nella loro totale subordinazione economica, politica e ideologica alle esigenze e alle necessità dello Stato russo. Ideologicamente, significherà anche l'esistenza di un sistema chiuso di valori che subordinerà ogni principio e giustificherà ogni brusco cambiamento di tattica in nome di una rigida disciplina e della centralizzazione. Il dibattito e la discussione erano fuori luogo, l'unica cosa importante era il partito e la difesa della rivoluzione russa.

La bolscevizzazione, le cui caratteristiche generali internazionali sono già state descritte, non mancò di avere delle applicazioni nazionali diverse e con una certa autonomia, giustificata dalle specifiche situazioni nazionali di ciascun Paese. Nel caso italiano, la nuova dirigenza imposta da Mosca: Gramsci, Togliatti, Scoccimarro, Maffi, Terracini, Tasca, ecc., dovette ingaggiare una lunga lotta contro la sinistra del PCd'I, che dominava numerosi e importanti sezioni del partito: Milano, Torino, Novara, Genova, Alessandria, Pavia, Bergamo, Cremona, Bologna, Ferrara, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, Vicenza, Treviso, Trento, Pesaro, Napoli, Salerno, Caserna, Bari, Taranto, Lecce, Cosenza, Messina, ecc. [*5] La tattica usata dalla direzione gramsciana per controllare progressivamente le diverse federazioni del partito, che erano ancora in gran parte bordighiste, si confuse con il processo di bolscevizzazione del partito italiano. Da un lato, la sinistra del PCd'I, che su sua richiesta non aveva alcun rappresentante nel Comitato centrale o nel Comitato esecutivo, venne privata del suo organo di espressione teorica: Prometeo. Tutti gli articoli, o le prese di posizione da parte dei membri della sinistra, apparivano insieme a dei commenti aspramente critici, i quali distorcevano o contraddicevano gli argomenti presentati. E a volte non venivano nemmeno pubblicati, come avvenne con quello di Bordiga sulla questione Trotsky. I rappresentanti del Comitato centrale partecipavano a tutti i congressi e assemblee delle varie federazioni di partito, in cui si contendevano con la sinistra il controllo della sezione del partito, e se prevedevano che i voti potevano essere a favore della sinistra, rinviavano sine die la votazione. Parallelamente a questa manipolazione e censura della stampa e delle assemblee di federazione, la campagna di reclutamento di massa dei nuovi militanti comunisti assumeva grande importanza. Tra maggio e dicembre 1924, il numero dei militanti raddoppiò, e quasi triplicò, passando da 12.000 a 30.000. Le ragioni di un simile incremento erano riconducibili tanto alla fusione con i cosiddetti "Terzini" [N.d.T.: ossia i socialisti favorevoli alla fusione con il Pcd’I e, quindi, all’ingresso nell’Internazionale], che finì per rappresentare un incremento di circa il 35%; quanto alla campagna del mese di settembre in cui venne abolito il periodo di candidatura obbligatoria; e infine al ritorno degli ex militanti, temporaneamente allontanati dal partito dopo l'ondata di repressione che era seguito allo sciopero generale dell'agosto 1922. I nuovi iscritti - per lo più giovani e contadini - non conoscevano la tradizione del partito livornese e, essendo entrati nel partito in un periodo successivo all'assassinio di Matteotti, erano estranei alla lotta frazionistica del partito. L'ingresso di questi nuovi militanti significò un significativo aumento numerico del PCd'I, in una relazione inversamente proporzionale rispetto a quello che era stato finora il livello politico medio del militante. Un tale massiccio afflusso di nuovi militanti - privi di tradizione politica e con un basso livello teorico - sarebbe stata una delle ragioni che, al Congresso di Lione, solo 18 mesi dopo la Conferenza di Como, dove aveva ottenuto un sostegno minoritario, addirittura inferiore a quello della destra, avrebbe permesso alla leadership gramsciana di ottenere il 90% dei voti. Alla fine del 1924, secondo le parole dello stesso Togliatti, nella sua relazione sull'organizzazione del partito alla fine del 1924, il nuovo militante viene così definito: «La suddivisione in varie tendenze, così come si è manifestata negli organi dirigenti del partito, ha avuto uno scarso effetto sulla grande massa dei membri del partito. Infatti, il partito è animato da un profondo spirito di unità ed è particolarmente resistente alle fazioni. Tra la grande massa dei militanti, il senso di disciplina nei confronti degli organi dirigenti nazionali e internazionali è molto forte; d'altra parte, il grado di maturità e di capacità politica è piuttosto basso» [*6]. Fu grazie a un tale basso livello di maturità e di capacità politica che così una grande massa di nuovi membri del partito poté essere facilmente influenzata dal gruppo che dominava l'apparato organizzativo e propagandistico del partito. Tuttavia va detto che, in questa stessa relazione Togliatti ha dato anche un' ulteriore chiave di lettura riguardo il progressivo isolamento della sinistra, e della relativa influenza all'interno del partito: la passività di Bordiga. Infatti, nella sua analisi sulle varie fazioni esistenti, Togliatti constatava tanto la mancanza sia di un' incidenza che di una base militante della Destra quanto l'integrazione della fazione di Terzini nel partito, assorbita a tal punto da non potersi costituire come fazione all'interno del Pcd'I. In questo modo, i due poli attorno ai quali si raggrupparono i militanti furono il Centro e la Sinistra. E così Togliatti, dopo aver proposto una tattica di progressiva conquista delle diverse federazioni -  attraverso l'approvazione delle tesi del V Congresso, dichiarata incompatibile con la posizione di Bordiga nello stesso Congresso - sottolinea quale sia stata la grande debolezza della sinistra: «la solidarietà, ancora possibile, di una frazione del partito nei confronti del compagno Bordiga, è di importanza relativa, poiché non significa affatto un'adesione al suo pensiero e alla sua posizione politica, ma piuttosto l'effetto dell'influenza personale esercitata da Bordiga, influenza che è inevitabilmente destinata a diminuire, tanto più dato l'atteggiamento passivo assunto da Bordiga». L'argomentazione di Togliatti, pur potendo avere una certa validità, rimane personalista e non contempla nemmeno la possibilità che la sinistra si potesse organizzare in una frazione, in modo da poter così difendere le proprie posizioni politiche e la tradizione livornese. Invece, ciò che veniva contemplato e valutato, tuttavia, era l'opera di discredito, e il progressivo isolamento di Bordiga all'interno del Partito Comunista: «Nel prossimo congresso nazionale del partito, l'attuale maggioranza di cui dispone il Comitato centrale potrà garantirsi tale maggioranza solo se il congresso in questione verrà preceduto da un'adeguata opera di purificazione e di educazione politica dei ranghi del partito».

Lavoro questo, che è stato svolto metodicamente, impedendo la libera espressione delle posizioni politiche della sinistra e denunciando come faziosa la formazione del Comitato d'Intesa cui avevano aderito i militanti della sinistra. Secondo Togliatti, Bordiga è responsabile per la disciplina ferrea adottata dalla nuova dirigenza del partito. Ma tale disciplina, che esigeva la totale passività politica di Bordiga, era fastidiosa e dannosa per il partito: «All'interno del partito, Bordiga mostra la massima sottomissione alla disciplina e alle direttive politiche che provengono dagli organi centrali. A dispetto di ciò, però, questo atteggiamento determina un malessere nei ranghi del partito che è necessario eliminare, [...] nelle forme e nei modi più utili al partito e all'Internazionale». Nel testo di Togliatti, la parola chiave  è «eliminare». Ecco il proposito e l'obiettivo del gruppo del Centro, un passaggio preliminare e necessario per il dominio totale del partito che esso si proponeva di realizzare nel prossimo congresso del partito, il quale sarebbe stato convocato nel momento più favorevole, nel momento in cui sarebbe stato possibile spezzare l'influenza di Bordiga nel partito. L'occasione propizia per la finale battaglia diffamatoria contro Bordiga e la Sinistra si presentò nel giugno 1925, allorché L'Unità, svelando l'esistenza di un Comitato d'Intesa, denunciò l'operato fazioso della Sinistra, e di Bordiga [*7]. La critica di Bordiga nei confronti dell'analisi che Gramsci faceva della situazione italiana durante la crisi Matteotti, sottolineava quegli errori di interpretazione che si manifestavano nel credere in un estremo indebolimento del fascismo, e nel sottolineare il primato dei ceti medi rispetto al proletariato [*8]. Bordiga metteva in relazione questa evidente sfiducia nella capacità di classe del proletariato con la tattica del Fronte Unico, declinata secondo le sue ultime interpretazioni di destra, ovvero quale tattica di unità antifascista, vale a dire, di alleanza del PCd'I con i partiti socialisti, socialdemocratici e borghesi sull'Aventino. Nelle parole di Bordiga: «La direzione ha sbagliato a lasciare il Parlamento e a partecipare alle prime riunioni dell'Aventino, quando invece avrebbe dovuto rimanere in Parlamento facendo una dichiarazione di attacco politico al governo e prendendo immediatamente posizione contro i pregiudizi costituzionali e morali dell'Aventino, il quale è stato il principale fattore determinante nell'esito della crisi a favore del fascismo» [*9]. Del resto, la partecipazione del gruppo parlamentare comunista a incontri con cattolici e conservatori borghesi non poteva non suscitare proteste e indignazione in una base militante ancora prevalentemente bordighista, mentre invece non mancò di produrre un enorme disorientamento nella maggioranza della classe operaia. La fluttuazione tattica del PCd'I era quindi il risultato dell'applicazione della tattica del Fronte Unito. Lo stesso Gramsci, in alcune analisi successive [*10] , arrivò alla conclusione secondo cui l'Aventino era del tutto inutile, data l'impotenza della borghesia democratica di fronte al fascismo, quando l'alternativa a esso significava invece l'intervento attivo del proletariato e l'emergere di una nuova situazione con la possibilità di ulteriori sviluppi rivoluzionari. Per Bordiga l'Aventino era stato il grande ostacolo frapposto dinanzi alle masse che impediva lo scatenarsi di una lotta di classe rivoluzionaria [*11]: «abbiamo contribuito a far credere alle masse che l'Aventino potesse provocare la caduta del fascismo. Con il fallimento dell'Aventino non si è realizzato, proprio per colpa di questa manovra, il grande scatto delle masse verso un fronte di classe». Al posto della continuità tattica, della chiarezza delle parole d'ordine, dell'intransigenza nei principi e della fermezza organizzativa - così necessarie di fronte a una situazione critica e mutevole come la crisi Matteotti - il PCd'I offriva la tattica altalenante del Fronte Unico, con delle parole d'ordine chimeriche lontane dalla realtà, come quelle dell'Anti-parlamento e dei comitati operai, un cedimento organizzativo dovuto al massiccio afflusso di nuovi militanti e alla fusione con i Terzini, e un'evidente abbandono dei principi programmatici, che si manifesta nella collaborazione antifascista con cattolici, conservatori borghesi, socialdemocratici e socialisti. Gramsci si rese conto che nella situazione italiana la tattica del fronte unico era sempre più difficile da sostenere [*12]. Dapprima, fece alcune analisi fantasiose ed erronee sulla situazione italiana, tipo quelle che espresse nella riunione del Comitato Centrale, nell'agosto 1924 [*13]. Successivamente, sotto la pressione del partito e della sinistra, cambiò il suo orientamento chiedendo il ritorno dei parlamentari comunisti alla Camera, sebbene questo fini per essere, anziché un successo per la sinistra, piuttosto un altro ulteriore esempio della fluttuazione propria della tattica del fronte unico. Gramsci era obbligato ad applicare la tattica del Fronte Unico, così come la fusione con i Terzini e la massificazione-bolscevizzazione in atto nel PCd'I; sia per la sua lealtà a Mosca, sia per poter così rafforzare il suo dominio sul partito, ancora in gran parte bordighista. Ma, in più a tutto questo, egli era convinto che la caduta del fascismo sarebbe stata la via d'uscita più probabile dalla crisi Matteotti, e che il PCd'I avrebbe raccolto i frutti della sua partecipazione all'Aventino. Secondo Gramsci la situazione e la prospettiva erano democratiche. Nel suo insistere sulla permanenza del PCd'I all'Aventino - anziché tornare a Montecitorio per attuare una tattica di parlamentarismo rivoluzionario, come proponeva Bordiga - Gramsci considerava positiva una probabile vittoria dell'Aventino, semplicemente in quanto così sarebbero state ripristinate le libertà democratiche borghesi. L'alternativa tra riforma o rivoluzione - che veniva ora presentata come alternativa tra antifascismo o rivoluzione - era stata alla base degli scontri tra gradualisti e rivoluzionari che c'erano stati tanto nella II Internazionale, quanto a Livorno. La tattica antifascista, agli occhi di Bordiga e della sinistra del PCd'I, non era altro che l'aggiornamento e l'applicazione della tattica socialdemocratica alla crisi Matteotti. Pertanto, non era un caso che alla tattica antifascista si accompagnasse la fusione con i Terzini e l'ingresso massiccio di nuovi militanti. Il PCd'I doveva diventare a tutti i costi un partito di massa: l'ingresso massiccio di militanti, senza capacità né maturità politica, facilitò l'imposizione di una tattica di collaborazione con i partiti socialdemocratici e borghesi, con l'obiettivo manifesto di difendere la democrazia borghese; e in piena contraddizione con il programma di Livorno.

All'indomani dell'intervento parlamentare di Repossi alla Camera, il 12 novembre 1924, Gramsci constatava ne "Lo Stato Operaio" il fallimento della tattica del fronte unico: «I partiti di opposizione [...] oggi hanno confessato la loro impotenza di fronte al fascismo, dimostrando di non sperare di rovesciarlo se non con l'aiuto della dittatura militare [...]. La maschera di cui si vestono i cosiddetti liberali e democratici dell'Aventino non poteva essere strappata in maniera migliore. La verità è che in loro non c'è nulla di democratico o di liberale. [...] si tratta solo di paura [...] che un movimento di forza popolare e di massa, capace di rovesciare il fascismo, non si limiti solo a sferrare un colpo mortale al fascismo in quanto governo, ma che colpisca il fascismo in quanto reazione borghese e difesa dell'ordine capitalistico [...]. Ma il colmo è stato l'atteggiamento dei partiti cosiddetti di classe, vale a dire la socialdemocrazia unitaria e i massimalisti, [...] quelli che vorrebbero fare del movimento operaio la base di una dittatura militare [...]» [*14]. Fu questo il giudizio dato da Gramsci, alla fine del 1924, sulla tattica del Fronte Unico, dopo due anni di continui scontri a riguardo tra la sinistra del PCd'I e l'IC, e dopo aver accettato di assumere la direzione del PCd'I in quanto uomo idoneo, nominato e incaricato da Mosca per applicare questa tattica in Italia. La constatazione del fallimento della tattica del Fronte Unico non avrebbe prodotto un avvicinamento alle tesi della sinistra da parte della nuova leadership gramsciana. Il ruolo di collaboratori della borghesia svolto dai leader socialisti, la cui alleanza era stata così ansiosamente ricercata, verrà denunciato dai centristi già il 3 gennaio 1925 [*15] , proprio nel momento in cui essi lanceranno una campagna di discredito, diffamazione e critica radicale nei confronti della sinistra. La campagna contro la sinistra si svolse sotto la copertura ideologica assicurata e promossa, non solo in Italia, dalle tesi sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti approvate dal Quinto Esecutivo allargato. La resistenza da parte della sinistra al processo di bolscevizzazione si concretizzò nella costituzione di un Comitato d'Intesa, che venne denunciato dalla leadership come gruppo di fazione. L'Internazionale, per i centristi italiani, era infallibile e aveva sempre ragione. Così, il fallimento della tattica del Fronte Unico, criticata dai bordighisti in ogni occasione sin dal primo approccio, non poteva concludersi con un riavvicinamento tra il Centro e la Sinistra del PCd'I, ma solo con l'eliminazione pura e semplice della fazione che aveva criticato l'Internazionale.

Agustín Guillamón - nel centenario del "caso Matteotti" -

Capitolo 4.1 del libro "Amadeo Bordiga en el Partido comunista de Italia" -

NOTE:

1 - Gramsci, Antonio. La costruzione del Partito comunista 1923-1926. Einaudi, Torino, 1971 (5ª edizione), p. 210.

2 - Comunismo, rivista quadrimestrale del Partito comunista internazionale (Edizioni de «Il Partito Comunista»), nº 16, set.-dic. 1984, Firenze, pp. 82-84.

3 - Salvadori, Massimo L. Storia dell’età contemporánea. Loescher editore, Torino, 1977, p. 679.

4 - V Congreso de la Internacional Comunista. Cuadernos Pasado y Presente, nº 56, Segunda parte, Buenos Aires, 1975, pp. 183-211.

5 - Martinelli, Renzo. Il Partito comunista d’Italia 1921-1926. Politica e organizzazione. Riuniti, Roma, 1977, pp. 203-254.

6 - Togliatti, Palmiro. La formazione del grupo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924. Riuniti, Roma, 1984, pp. 337-339.

7 -  La cosa è stata trattata in maniera più ampia nel capito 4.2. del libro Amadeo Bordiga en el PCd´I

8 - Bordiga, Amadeo. Dialogato con Gramsci. Edizioni «Il Partito Comunista» del Partito comunista internazionale, serie I, Testi della Sinistra comunista, Firenze, 1979, pp. 45-49.

9 - Bordiga, Amadeo. Op. cit., p. 47.

10 -  Gramsci, Antonio. «Il nullismo dell’Aventino» (L’Unità, 12/11/1924) in Gramsci, Antonio. La costruzione…, op. cit., p. 206.

11 - Galli, Giorgio. Storia del PCI. Tascabili Bompiani, Milano, 1977 (1ª edic. 1957), p. 102.

12  - Galli, Giorgio. Op. cit., pp. 102-103; Gramsci, Antonio. «La crisi italiana». Relazione al Comitato centrale del partito del 13-14 agosto 1924, in Gramsci, Antonio. La costruzione…, op. cit., pp. 28-39; Parti communiste international. «Le parti communiste d’Italia face a l’offensive fasciste (1921-1924)», en Programme communiste (Revue theorique du Parti communiste international), nº 50, pp. 7-22.

13 - Gramsci, Antonio. «La crisi italiana». Relazione al Comitato centrale del partito del 13-14 agosto 1924, en Gramsci, Antonio. La costruzione…, op. cit., pp. 28-39.

14 - Galli, Giorgio. Op. cit., pp. 104-105.

15 - Il 3 gennaio 1925 venne sancito il fallimento dell'Aventino, ponendo fine alla crisi del fascismo e dando inizio a un periodo di difficile semilegalità per tutti i partiti antifascisti.

 fonte: Ser Historico - Portal de Historia