martedì 24 ottobre 2017

Un orgasmo della storia

0 - IMMAGINE MOSTRA TANO

Dopo quarant'anni di censura sul Movimento del 1977, il Museo di Roma in Trastevere dedica a quegli avvenimenti una mostra che rimarrà aperta fino al 14 gennaio 2018. In occasione di questa mostra le edizioni Postcart pubblicano un libro sullo stesso argomento. Dal catalogo che accompagna la Mostra, presentiamo qui di seguito lo scritto di Gianfranco Sanguinetti - UN ORGASMO DELLA STORIA: IL 1977 IN ITALIA. Digressioni sul filo della memoria di un ex-situazionista. Un testo che - proprio adesso nel momento in cui la strada che dal '68 ha portato al '77 ed al presente può essere vista nella giusta prospettiva storica -  permette di poter finalmente coniugare teoria politica e ribellione.  Pubblico il testo su questo blog cercando di dare alla cosa la maggior diffusione possibile, ringraziando Gianfranco per quanto ha scritto e per la sua amicizia.

UN ORGASMO DELLA STORIA: IL 1977 IN ITALIA
- Digressioni sul filo della memoria di un ex-situazionista -
di Gianfranco Sanguinetti

“Mi trovan duro?
Anch’io lo so
Pensar li fo…”
( Vittorio Alfieri, Epigrammi, 1783.)

La catastrofe delle ideologie.
Ci sono stati due 1977 in Italia, uno dei quali non fu altro che l’estremo sussulto, il rantolo di morte delle illusioni, delle menzogne e dei crimini di cui erano portatrici e beneficiarie le burocrazie filosovietiche e filocinesi, e i loro seguaci locali, che costituivano ancora la zavorra ideologica e la falsa coscienza dei gruppuscoli a pretese estremiste nati dalle ceneri del 1968.
   Fin dal 1969 i situazionisti italiani affermavano, nell’editoriale della rivista «Internazionale Situazionista», che: “La critica dell’ideologia è la premessa di ogni critica... Bisogna tuttavia accelerare il processo di decomposizione del “marxismo” (operaismo--burocratismo, sottosviluppo teorico--ideologia del sottosviluppo)... Per prendere coscienza del proprio contenuto, il conflitto sociale contro le condizioni moderne della sopravvivenza fa venire a galla tutte le carogne del passato di cui provvede a liberare il campo… Il consumo dell’ideologia deve sostenere una volta di più l’ideologia del consumo… Dalle idee ai fatti non c’è che un passo. Le azioni le miglioreranno… Ma nel movimento presente l’I.S. prefigura in pari tempo l’avvenire del movimento stesso. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute… per sopprimere la divisione delle classi e le classi stesse, la divisione del lavoro e il lavoro stesso, e per abolire l’arte e la filosofia realizzandole nella creatività liberata della vita senza tempo morto, quando solo il meglio sarà sufficiente, il mondo sarà governato dalla più grande aristocrazia della storia, l’unica classe della società e la sola classe storica dei padroni senza schiavi. Questa possibilità ricorre forse oggi per la prima volta. Ma ricorre” [*1].

La devastazione del pensiero critico.
   Nello spaventoso e desolato paesaggio di devastazione del pensiero critico prodotto in Italia dalle ideologie egemoniche, dogmatiche e arroganti, al servizio della sinistra e dell’estrema sinistra, alle quali si conformavano tutti gli intellettuali, l’esplosione del movimento di rivolta del 1977, poi detto degli Indiani metropolitani, fu un avvenimento dirompente e inatteso, fu il guastafeste non invitato alle nozze fra comunisti e democristiani, fu uno scandalo imbarazzante e sconveniente, un pubblico e sfrontato orgasmo della storia. È quindi disdicevole parlarne, e infatti quasi nessuno ne ha parlato. Fu questo l’altro 1977, quello che ha saputo nova dicere novo modo, per riprendere l’espressione di Girolamo Savonarola. Malgrado il silenzio che tuttora lo circonda, questo movimento di rivolta sociale fu il più moderno del dopoguerra.

Il rifiuto delle ideologie.
   Nella sua componente più genuinamente sovversiva, la rivolta del 1977 fu il rifiuto radicale della servitù volontaria imposta da qualsivoglia ideologia, fu il rifiuto del militantismo, della politica, della rappresentanza, della gerarchia, della delega irrevocabile, e fu il rifiuto di ogni compromesso. Fu anche l’esplosione della creatività e della fantasia, aperta a ogni contaminazione artistica, dai futuristi ai situazionisti. La langue de bois ideologica del marxismo volgare comunista aveva permeato, infettato e ammorbato non solo il suo doppio pensiero, indigente e contraffatto, e il linguaggio, meschino e miserabile, della sinistra istituzionale, ma anche quello di tutti quei gruppetti che si credevano estremisti, dal 1968 in poi, quasi senza eccezioni. La “pratica sociale” di questi militanti, poi confluiti nel 1977 fra gli Autonomi, era degna del loro linguaggio burocratico, confuso, pomposo, minaccioso, apodittico e ridondante, come le ideologie totalitarie che veicolava. Fra di loro c’erano anche molte persone in buona fede, ma non i capi che avevano accettato. Furono proprio questi capi arroganti, ammiratori del terrorismo e della lotta armata, ma pavidi e stupidi, congiuntamente alle provocazioni poliziesche e alla repressione del PCI, i veri becchini di quel movimento: nessuno storico onesto potrà contraddirmi.

Un’esecuzione in effigie.
   Il 17 febbraio 1977 il potente caporione della polizia sindacale comunista, Luciano Lama, fu irriso, umiliato e scacciato come un cane a sassate dall’Università di Roma, e questo fu lo scandalo fondante del movimento, per la novità assoluta rappresentata da una libera assemblea che riusciva nella pratica a possedere la propria libertà e la propria piazza, cacciando quelli che ancora speravano di imbavagliarla e usurparla.
   Si trattò di una vera e propria esecuzione in effigie del sindacato e del Partito comunista, e nello stesso piazzale fu appeso, a maggiore ignominia, un fantoccio denigratorio di Luciano Lama.
   Disprezzando la disonestà intellettuale di tanti che proiettano retrospettivamente i loro attuali giudizi su un tempo nel quale non brillarono né per lucidità, né per onestà, io citerò qui di seguito ciò che scrissi già in quell’epoca, e che penso tuttora. Non sono fra coloro che cambiano idea al cambiar del vento.

Il “comunismo” del XX secolo.
   L’impostura del cosiddetto comunismo del XX secolo non crollò nel 1989 nei paesi dell’Est Europa (allora crollarono solo gli screditati regimi al potere, ai quali l’URSS aveva improvvisamente ritirato ogni sostegno), bensì crollò nel 1977 a Roma e a Bologna, così come in altre città italiane. Questa soperchieria era durata sessant’anni, ed era abbastanza. Ciò che si è chiamato “comunismo”, in paesi arretrati come Russia, Cina e altrove, non è stato altro che un sistema brutale di espropriazione e di accumulazione primitiva accelerata del capitale. Esso riproduceva, concentrati, tutti gli orrori che il capitalismo aveva commesso in Europa occidentale dal XV secolo in poi, già descritti in dettaglio da Marx, nel famoso capitolo del Capitale dedicato a questa accumulazione - che gli asini marxisti, grazie ai loro paraocchi ideologici, hanno letto senza accorgersi che le stesse mostruosità succedevano sotto i loro occhi in Russia e Cina. Il “comunismo” sovietico e cinese sono stati in realtà il travestimento dell’antico dispotismo orientale, che si perpetuava così sotto altro nome, come Wittfogel e altri dimostrarono ampiamente [*2]. L’“astuzia della ragione” aveva fatto vivere e morire generazioni di uomini edificando un’opera che non aveva niente a che vedere con ciò che essi credevano, volevano, o si illudevano di fare. Invece del socialismo, essi costruirono un capitalismo senza borghesia e senza proprietà privata. Tutto apparteneva allo Stato, cioè alla burocrazia che lo dirigeva dispoticamente, come nell’antico dispotismo orientale. Sarebbe necessario, e forse anche urgente, chiamare le cose col loro nome. Ma basterebbe.

 1 - Benvenuti nella citta

Il ruolo dei comunisti italiani nel ’77.
   Il Partito comunista italiano, già in fregola, allora, perché si apprestava a entrare nel governo, s’incanaglì e s’incattivì ulteriormente, e incominciò a combattere in ogni modo e con ogni mezzo quel movimento, per meglio accreditarsi come il cane da guardia della classe dominante. Scrivevo già a quel tempo: “Per la prima volta in Occidente, un partito detto comunista si propone non solo di organizzare la sconfitta del proletariato, correndo il rischio di farsi sconfiggere con lui – come a Barcellona nel 1936 –; ma si propone di trionfare direttamente sul proletariato, insieme alla borghesia. È utile dichiarare questa semplice verità proprio a Bologna, che è la Disneyland dello stalinismo nostrale, ma che, proprio per questo, è anche la roccaforte dell’antistalinismo rivoluzionario[*3].
   La cacciata di Luciano Lama dall’Università fu anche un inatteso e sonoro schiaffo a tutti i gruppuscoli neo-leninisti, maoisti, castristi, operaisti, eccetera, che non avevano mai cessato di puttaneggiare con lo stalinismo e con i suoi crimini, di cui erano sempre stati gregari, e qui non c’è bisogno di far nomi, perché i loro leader sono troppo noti a tutti a causa della pubblicità che il capitalismo aveva deciso di fare ai più arretrati e impotenti dei suoi nemici apparenti -a quelli, voglio dire, che si sarebbero presto risciacquati la bocca con la «geometrica potenza dispiegata in via Fani».

Repressione e giustizia poetica.
   Per far piacere ai capitalisti, e per sbarazzarsi di una forza politica concorrente alla loro sinistra, furono poi i comunisti ortodossi a farli sbattere in galera, il 7 aprile 1979, cosa che fu per questi capi Autonomi neo-bolscevichi una sorta di giustizia poetica. Il processo durò nove anni, ma ci fu una repressione di dimensioni mai viste prima, che portò a oltre 25.000 arresti e 60.000 indagati fra i giovani, a diversi secoli di carcere preventivo scontato: cose che se fossero avvenute in un paese dell’Est avrebbero suscitato indignazione nel mondo [*4]. In Cecoslovacchia, nella stessa epoca, gli arresti per Charta ‘77 furono 200, più alcuni altri in seguito, ma si tratta di cifre incomparabili con quelle della repressione coordinata e perpetrata dai comunisti italiani. I numeri di questa repressione sono il migliore indicatore della profondità e vastità raggiunta dalla rivolta, e d’altra parte danno la misura dell’infamia sia dei comunisti sia dello Stato, come di quella degli intellettuali asserviti che la appoggiarono generalmente, tranne rarissime eccezioni. Poiché le complicità del cosiddetto “arco costituzionale” erano così ampie, e questi fatti assolutamente vergognosi, è stato dato poi l’ordine di censurare completamente la rivolta del ’77. E quest’ordine è stato eseguito. Il 1977 divenne tabù, una delle tante parties honteuses della Repubblica “nata dalla Resistenza”, come si diceva allora, per coprire queste parti.
   I capi degli Autonomi vennero poi, dopo qualche anno di prigione, tutti accolti a braccia aperte dallo Stato francese - da cui un lungimirante ministro degli Interni mi aveva espulso fin dal 1971 -, segno che poi così pericolosi non erano. Ancora oggi questi leader, fini e profondi conoscitori della storia, pretendono che l’11 settembre 2001 sia stato «un evento dalla bellezza sublime» e i terroristi «un pugno audace di intellettuali» [*5]. Probabilmente educati a Hollywood.

La distruzione delle giovani generazioni.
   Fu a partire dalla repressione del movimento del ’77 che lo Stato italiano incominciò una sistematica distruzione delle giovani generazioni, una dopo l’altra, ora sostituite da quelle di giovani migranti importati come schiavi dall’Africa. Per realizzare questa distruzione lo Stato si è servito del terrorismo, della disoccupazione, delle droghe, della miseria, della polizia, dei tribunali e della prigione [*6]. Ma questa distruzione delle generazioni italiane prosegue impunemente ancora oggi con la disoccupazione di massa, l’immigrazione organizzata dalla mafia politica e l’emigrazione di quei giovani italiani che per salvarsi sono costretti a fuggire altrove.

Rifiuto del compromesso e dell’obbedienza.
   Il 1977 fu anche la reazione di fronte alla squacquera verbale di Enrico Berlinguer sul “compromesso storico” con la classe dominante e contro la classe operaia, alla quale era negata ogni occasione per esprimersi; e a quell’altra squacquarella di Aldo Moro sulle “convergenze parallele”. Agli operai si chiedeva, come al solito, di far sacrifici e tacere, con un’inflazione oltre il 20%, la povertà che avanzava rapidamente, la riduzione del costo del lavoro, la disoccupazione giovanile ai massimi, divenuta da allora in poi endemica. Il 1977 che io ho conosciuto e amato, invece, è stato un movimento di ribellione così libero che è perfino poco immaginabile nell’attuale società addomesticata, in cui non c’è neppure il tempo di dire “non fumare!” perché tutti già obbediscano: una società in cui è vietato tutto ciò che non è obbligatorio. Oggi il mondo, come direbbe Giacomo Leopardi, “è precipitato nell’obbedienza”.

Un movimento imperdonabile.
   Contro tutto questo monumentale malaffare e malpensare, imperdonabilmente si ergeva fiero e inatteso, all’improvviso, un movimento radicale e scanzonato, mai visto prima in Italia, né altrove in Europa, un’eruzione vulcanica di fuoco e lava, di iniziative audaci e felici, nelle quali si fondevano, con dovizia, immaginazione, arte, vita, autoironia, sarcasmo, politica, derisione e sovversione. Siccome imperdonabile, questo movimento non fu mai perdonato, ma fu invece calunniato, vilipeso e represso da tutti i poteri, e screditato dagli intellettuali asserviti al Partito. E ancora oggi, a quarant’anni di distanza, resta scandalosamente coperto da un velo peloso di sfacciata impudicizia censoria, squarciata dal coraggio solitario con cui ne hanno trattato Claudia Salaris, Pablo Echaurren e pochi altri happy few - che furono, di fatto, fra i protagonisti di un movimento che non ne aveva bisogno, ma che aveva sollevato il mio immediato entusiasmo.

Prima digressione: la beffa di Censor.
   Devo qui fare qualche digressione nel libro della mia memoria. Nel 1977 avevo 28 anni, e vivevo già da oltre due anni in volontario confino, isolato su un colle toscano ben scelto, perché bersaglio continuo di polizia, carabinieri e del Procuratore antiterrorismo Pier Luigi Vigna, che mi aveva già arrestato, anche se solo per otto giorni, nel marzo del 1975 a Firenze, mentre mi dirigevo a Milano, accusato di trasportare armi da guerra. Queste armi mi erano state effettivamente messe in auto, non so se dai Carabinieri, dalla Polizia o dalla Guardia di Finanza: perché al posto di blocco, in cui fui controllato, erano eccezionalmente presenti tutte e tre queste forze di polizia. In realtà trasportavo quel giorno preciso qualcosa di più pericoloso delle armi: il manoscritto del mio libro, pubblicato poi sotto lo pseudonimo di Censor. In quel pamphlet, dal titolo Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il Capitalismo in Italia, mi fingevo un vecchio borghese ultraconservatore, cinico e disinvolto, che ammetteva, certo, la dimostrata utilità del ricorso al terrorismo da parte dello Stato, a partire da Piazza Fontana, per infamare e reprimere sovversivi e proletari, e risparmiarci così una guerra civile, ma criticava aspramente i dérapages polizieschi e giudiziari successivi. Quanto ai comunisti, Censor affermava che noi borghesi avevamo ampiamente avuto tutte le prove necessarie da parte loro per assumerli nel governo in un momento di crisi, per combattere contro la classe operaia, cosa che avevano dimostrato di saper fare in modo eccellente dappertutto nel mondo, per poi licenziarli come dei domestici, una volta superata la crisi. Come poi, in effetti, è avvenuto, e continua ad avvenire ancora oggi, avendo loro solo cambiato nome, ma non mestiere – e ciò è avvenuto nonostante che a rompere le uova nel paniere dei comunisti sia sopraggiunto l’episodio del rapimento e assassinio di Aldo Moro, nel 1978, voluto da forze del sistema, irrazionalmente ostili all’impiego dei comunisti contro la classe operaia. Erano le stesse forze che preferivano usare, come deus ex machina, le ineffabili Brigate Rosse, al posto dei comunisti, come più tardi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, usarono Bin Laden e oggi lo Stato Islamico. Erano queste, e in parte restano, cose inaudite. In ogni caso, cose che disturbano ancora ogni falsa coscienza. Il mio scopo nell’operazione - Censor - era quello di usare il metodo del nemico, creando un pamphlet sotto falsa bandiera, facendo dire l’indicibile ai miei nemici. Provai quindi sperimentalmente e scientificamente come è facile ingannare la popolazione in generale, e il nemico stesso, con gli stessi metodi usati nella messa in scena del terrorismo. Mettevo in questo modo a nudo l’imbroglio, e ingannavo gli ingannatori col loro stesso metodo.

Seconda digressione: lo scandalo Censor.
   Questo pamphlet uscì poco dopo in un’edizione di 520 esemplari numerati per bibliofili, in elegante tipografia monotype, su carta speciale, e fu distribuito, per posta, all’élite: banchieri, politici, giornalisti e anche al papa Paolo VI. Gli esemplari inviati avevano una dedica tipografica ad personam.
   Avevo dedicato questo Rapporto Veridico alla memoria del banchiere umanista Raffaele Mattioli, scomparso due anni prima, di cui ero stato giovane amico – e questo fatto confuse ulteriormente le tracce che potevano portare a me. L’editore, Sergio Scotti Camuzzi, fu poi ringraziato per lettera da Giulio Andreotti, Aldo Moro, Pietro Nenni, Giorgio Amendola, Guido Carli, Bruno Visentini, Gianni Agnelli, dal Consiglio Superiore della Magistratura, dal Prefetto di Milano, etc. Tutti i giornalisti, ma in special modo quelli di sinistra, che scalpitavano in attesa del “compromesso storico”, s’illustrarono per la loro piaggeria intessendo ditirambi in favore del potente ed elitista Censor, di cui si contendevano già i favori, prima ancor di saper chi fosse. Non sembravano esser per nulla disturbati dal suo cinismo estremo sull’uso del terrorismo e dei comunisti contro la classe operaia e più particolarmente contro i poveri in generale, certamente non molto politically correct. Furono sospettati come autori il senatore Merzagora, ex-presidente del Senato e della Repubblica ad interim, il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, che si firmava Bancor, e perfino Eugenio Montale, che poi mi scrisse una lettera al proposito. Il libro divenne ricercatissimo, e suscitò morbose curiosità. L’editore Mursia ne pubblicò quindi cinque successive edizioni quello stesso anno [*7].

2 - CENSOR DUE COPERTINE

In prigione.
   La mia principale preoccupazione, il giorno del mio arresto, era quella di nascondere il manoscritto, che diedi subito alla mia donna, Katharine Scott, che era diretta a Venezia, col suo violino e la sua valigetta. Quando l’auto della polizia sulla quale eravamo stati imbarcati si diresse verso la Questura di Firenze, io incominciai a cantare in francese una versione détournée della famosa canzone «Et maintenant…», di Gilbert Bécaud, le cui parole, opportunamente cambiate, erano invece diventate le istruzioni alla mia compagna per salvare il manoscritto, per difendersi e poi per nascondersi. Il manoscritto entrò così, insieme al bagaglio, per due giorni, nel carcere femminile di Santa Verdiana a Firenze, senza suscitar alcun sospetto, per poi uscirne ed esser portato in luogo sicuro. Fu così sfrontato il mio canto che un poliziotto mi chiese: “Mi scusi, ma noi la stiamo arrestando. Che ragione ha lei di cantare?” Chi eseguì l’ordine d’arresto fu proprio il famoso commissario di polizia Giuseppe Impallomeni (tessera P2 n. 2213).
   Se quel manoscritto fosse stato trovato, non sarei uscito dal carcere prima di averne svelata la provenienza, e già dovevo difendermi dall’accusa di possesso delle armi; cosa che feci molto semplicemente dicendo a Pier Luigi Vigna: “le armi ce le avete messe voi, e lo proverò”. L’accusa di porto di armi da guerra comportava una pena minima di 12 anni, se non ricordo male. Il manoscritto configurava invece un’impostura sovversiva, altamente pericolosa per il portatore, che si sarebbe rivolta contro di me se fosse stata rivelata prima ancora di venire alla luce. Io non seppi, per il poco tempo che passai in carcere alle Murate, della sorte del manoscritto, ma, appena uscito, ebbi la buona sorpresa di apprendere che era passato indenne fra le sbarre del carcere femminile. Ero dunque felice: ero libero, potevo ancora nuocere, e vendicarmi dei miei nemici. Un amico di Boccaccio, Paolo da Certaldo, considera queste le prime due “allegrezze” del mondo: “La prima allegrezza si è fare sua vendetta… La seconda allegrezza si è uscire di pregione…” [*8]. Mi nascosi a Bergamo, e mi misi al lavoro tutti i giorni per preparare l’edizione, indisturbato, nella biblioteca in Piazza Vecchia, davanti al Palazzo della Ragione.

Prove dell’inesistenza di Censor.
   La riuscita dello scandalo fu tale, e il segreto dell’operazione così impenetrabile (nessuno era al corrente -tranne Guy Debord, il Professor Ariberto Mignoli, il Professor Sergio Scotti Camuzzi, come neo-editore scelto ad hoc, e un altro complice), tanto che fui poi io stesso a dover rivelare, sei mesi più tardi, l’inesistenza di Censor. Non potevo in ogni caso mantenere il segreto più a lungo, perché, nel novembre del 1975, a Milano, degli ufficiali dei servizi segreti avevano intimato all’editore Scotti Camuzzi di rivelare entro 24 ore il vero nome di Censor.
   Pubblicai quindi un altro pamphlet, sempre in monotype, in 520 esemplari numerati, il 15 gennaio 1976: Prove dell’Inesistenza di Censor /Enunciate dal suo Autore. Fu recapitato per primo a Giorgio Bocca (che per primo si era sbagliato a proposito di Censor, su “Il Giorno”), in coincidenza con la prima o seconda uscita del nuovo quotidiano “La Repubblica”, per avere la massima audience [*9].
   Questo secondo pamphlet sprofondò in un’irrimediabile costernazione e sgomento tutti i miei laudatores, avendomi dato l’occasione di provarne nominatim il servilismo, l’infamia, l’ignoranza e la stupidità: mi prendevo gioco di loro. L’incipit dava il tono: “Coloro che hanno fin qui rimpianto di non sapere chi era l’autore del Rapporto Veridico, rimpiangeranno ora di saperlo. Coloro che si scandalizzavano dell’anonimato di Censor, avranno adesso motivo di scandalizzarsi di ben altro. Quelli che hanno lodato Censor credendo di ingraziarsi un potente, se ne vergogneranno…” etc.
   Non fui mai perdonato, e non feci mai niente per esserlo. Anzi, feci di peggio. Un’occasione mi venne proprio dal movimento del 1977, come si vedrà più avanti.

3 - COPERTINA TERRORISMO

La debolezza maggiore del movimento.
   Una delle maggiori debolezze del movimento del ‘77 fu la mancata coscienza del fenomeno del terrorismo, col quale allora, come oggi, si faceva la politica. Ma l’Italia fu, come già ho scritto più volte, il laboratorio sperimentale a livello mondiale del moderno terrorismo sotto falsa bandiera. Oggi dirlo è una banalità, perché questo tipo di terrorismo ha avuto molto successo ed è praticato quasi ogni settimana da – e in – tutti gli Stati contro la popolazione: non colpisce mai le banche, i politici o chi detiene il potere: colpisce sempre la povera gente. Ma allora non era così evidente. La novità assoluta del fenomeno esigeva un’attenzione che non ci fu, e che cercai di attirare fin dal 1969, poi nel 1975, poi nel 1977 e in seguito. E qui devo fare un’altra digressione sul terrorismo, perché esso sarà determinante in Italia per oltre quindici anni, e in seguito nel resto del mondo.

Digressione sul terrorismo.
   La maggior parte dei partecipanti a quel movimento erano più giovani di me: non avevano potuto conoscere da vicino l’uso criminale che lo Stato faceva, dal 1969, del terrorismo, presentato dai politici, dai magistrati e dai giornalisti come il non plus ultra della sovversione, allorché era, ben al contrario, l’estremo, vile e odioso baluardo del capitalismo e dei servizi segreti dello Stato contro le lotte di classe. I gruppuscoli extraparlamentari, nella loro irrimediabile inopia, caddero generalmente nell’inganno, e perfino stupidamente ammirarono ambiguamente i “compagni che sbagliano”, e talvolta sbagliarono anche loro e finirono come topi in trappola. I comunisti sapevano tutto, ma tacquero, come sempre, per poi trarne vantaggio. Nessun altro partito aveva interesse a dire la verità. Fu allora che incominciò in Italia quel gioco di minacce e ricatti incrociati, di mercanteggiamenti, di collusione e di corruzione che poi non ha fatto altro che estendersi e aggravarsi. Vivendo a Milano negli anni Sessanta avevo visto da vicino quello che stava succedendo, e lo capii più per necessità che per scelta, perché ne andava della vita. E non pochi, vicini a me, o amici, morirono o furono ingiustamente condannati a lunghe pene.

Il Reichstag brucia.
   Dopo esser tutti riparati in Svizzera dopo la bomba di Piazza Fontana, i situazionisti ne delegarono uno che tornò a Milano e pubblicò il 19 dicembre ‘69, insieme a tre amici fidati, il manifesto che avevamo concordato, intitolato Il Reichstag Brucia?, firmato Gli amici dell’Internazionale [*10]. In questo manifesto si affermava che la strage era opera dei servizi segreti, e che il suo scopo era di colpire e diffamare il proletariato per metter fine alle lotte di classe dell’ “autunno caldo” del ’69. Vi si poteva leggere, fra l’altro: “I risultati, diretti e indiretti, degli attentati sono il loro fine… è il Potere stesso che, nel tendere alla propria affermazione totalitaria, esprime spettacolarmente la propria negazione terroristica.
   Piazza Duomo, piazza Fontana e altri luoghi simbolici di Milano - come i piazzali di alcune grandi fabbriche -furono tappezzati nottetempo con questo manifesto stampato con un “ciclostile rubato”, era precisato: ma nessun giornale, nessuna rivista, si azzardò a citare e riprodurre quel testo, e si capisce perché. Suscitò diffidenza perfino presso l’estrema sinistra, che tacque: curioso che dei creduloni come gli extra-parlamentari italiani fossero diffidenti proprio di fronte alla semplice verità, se questa non veniva da qualche fonte ai loro occhi “autorizzata” [*11].

4 - REICH BRUCIA

Il processo di Piazza Fontana.
   Come già ricordato, a fine novembre del 1975, decisi che avrei gettato presto la maschera a proposito del pamphlet di Censor, perché la polizia mi aveva convocato a Firenze per comunicarmi una chiamata a testimoniare al processo di Piazza Fontana, spostato il più lontano possibile da Milano, a Catanzaro. Prendendo le massime precauzioni, scomparvi da tutti i miei indirizzi, poiché diversi testimoni erano già spariti per sempre, e, viaggiando sotto falso nome, mi presentai al giudice Gianfranco Migliaccio, un giovane gentiluomo colto del sud Italia, al quale fornii, su consiglio di Debord, una brevissima testimonianza scritta, nella quale ribadivo di non aver nessuna prova giudiziaria contro lo Stato italiano, che non era compito mio fornire: io, affermavo, ero testimone di un avvenimento storico, e consideravo la storia l’unico tribunale degno di rispetto. Aveva questo giudice già letto con entusiasmo il pamphlet di Censor. Si disse deluso dalla testimonianza che gli era di poco aiuto, e mi chiese perché avevo così poca fiducia nella magistratura; ma soprattutto mi domandò che cosa avrei fatto io se fossi stato al suo posto, domanda che non mi sarei mai aspettato, ma che mi dimostrava la sua sincera buona fede.
   Gli chiesi se potevamo parlare da soli, e lui fece uscire la cancelliera. I casi sono due, gli dissi: o lui voleva fare carriera in Magistratura, e allora sarebbe stato meglio per lui convalidare tutte le menzogne della versione ufficiale. Oppure poteva passare alla storia come un giudice giusto e coraggioso. “E cosa farebbe lei in questo caso?” - mi chiese. Tondo tondo, gli dissi: “Comincerei con l’arrestare il generale Gian Adelio Maletti, capo del servizio D del servizio segreto, e il capitano Antonio Labruna”. Facevano tutti e due parte della Loggia P2, come si seppe poi.
   Ci lasciammo in ottimi termini, e ho sempre mantenuto rispetto per quest’uomo. Detto e fatto: il generale e il capitano furono subito arrestati, nel febbraio 1976, e poi condannati pochi mesi dopo a Catanzaro. Fra l’altro il generale Maletti, messo alle strette, rivelò il coinvolgimento della CIA anche nella fornitura dell’esplosivo usato in Piazza Fontana. Il giudice Gianfranco Migliaccio passerà dunque alla storia per aver scritto, nella sentenza di rinvio a giudizio di Maletti e Labruna: “Le forze eversive responsabili degli attentati [del 12 dicembre] erano rappresentate nel 1969 in seno al SID[*12].

Nei luoghi pitagorici.
   Ma siccome, quando si racconta una storia, anche se drammatica, ci sono sempre dei risvolti comici, e talvolta paradossali, che rimettono le cose nella loro prospettiva realistica, farò qui un’altra digressione sul mio viaggio nei luoghi pitagorici. Guy Debord, che ero andato a trovare a Parigi - clandestinamente, perché espulso - verso metà novembre del ’75, per mettere a punto lo scandalo della rivelazione dell’identità di Censor, mi aveva prevenuto dicendomi che la posizione del testimone è più pericolosa che quella dell’imputato, e mi manifestò la sua più motivata inquietudine circa il mio viaggio in Calabria, e anche per tutto il periodo che precedeva la mia testimonianza e la pubblicazione del pamphlet in cui gettavo la maschera di Censor, che considerava giustamente come il più critico. Mi esortò quindi a organizzare in maniera “militare” la mia protezione. Abbandonai le due case che abitavo e mi rifugiai in un’insospettabile villa quattrocentesca a San Domenico di Fiesole, che era stata a suo tempo donata da Cosimo de’ Medici a Marsilio Ficino, luogo in cui regnava una pace invidiabile, dove c’erano uno splendido giardino e un loggiato con due altorilievi che rappresentavano Platone e Marsilio, il suo primo traduttore e interprete moderno.
   Avevo nel frattempo chiesto a un mio vicino in campagna, famoso ginecologo a Roma, se per caso conoscesse qualcuno in Calabria che fosse potente e in grado di rendermi servizio. Lui m’indicò un banchiere alla cui moglie aveva asportato l’utero dall’interno (cosa importante per potersi poi mostrare in bikini in spiaggia, mi disse) senza mai chiedere un pagamento per quest’operazione. Alla fattoria del ginecologo arrivava quindi in dono, ogni anno, un camion di pecore. Quando arrivai con la mia compagna, e sotto falso nome, in Calabria, verso la metà di un pomeriggio telefonai al banchiere, dicendo che ero amico del suo amico e che avevo bisogno di un consiglio. Entro mezz’ora fu al mio albergo, dove si fecero i convenevoli e volle offrirci un whisky. Dopo disse: “Prego la signora di scusarci, ma ora dobbiamo parlare fra uomini”, e ci allontanammo. Era svelto. Mi chiese da chi dovevo esser protetto, e per quanto tempo. Io gli risposi che avevo bisogno della sua protezione fino all’indomani e fino a Catanzaro, e che volevo esser protetto dalla polizia e dai servizi segreti, contro i quali andavo a testimoniare. Non batté ciglio. Il tribunale di Catanzaro si trovava a più di un’ora di auto. Mi disse che non c’era nessun problema, che avrebbe pensato lui a tutto e che, da questo istante in poi, sarei stato suo ospite. Andammo quindi, dopo le sei di sera, a fare la tradizionale passeggiata nella via centrale della città. Fu una passeggiata immediatamente istruttiva: quando passavamo noi, tutti si toglievano il cappello, ma mai il mio ospite. La conversazione fu piacevole e leggera, almeno fino al momento in cui la mia compagna ebbe l’infelice idea di chiedere al nostro ospite com’era la questione della mafia in Calabria: io le diedi un leggero colpetto sullo stinco; lui si fermò, si volse lentamente verso di lei e, con aria sorpresa, le chiese: “Da quale paese viene lei, signora?” “Dall’Inghilterra”, rispose lei. Mi ricorderò sempre il suo commento: “Ah! Vedo che in Inghilterra leggete molti giornali!”. Poi, dopo questo incidente, la passeggiata riprese placidamente.
   La cena, nella sua villa, fu magnifica. Mi chiese in che anno ero nato e, saputo che ero del 1948, per tutta la serata si bevve dell’ottimo Cirò del 1948. Venne verso mezzanotte un’automobile a prenderci, e congedandomi mi disse che all’indomani mattina alle sette sarebbero arrivate all’albergo due auto, delle grosse Fiat scure, e che noi dovevamo salire sulla prima. Infatti, alle sette in punto erano già ad aspettarci. Nella prima c’era l’autista. Nella seconda c’erano quattro uomini. Arrivammo dopo poco più di un’ora a Catanzaro, mi congedai dalla scorta ed entrai in Tribunale per testimoniare al giudice Gianfranco Migliaccio. Dopo la testimonianza, mi sentivo molto più leggero, e andai con la mia compagna in un’antica osteria, dove c’era appeso, dietro il banco, un caratello di Marsala: “Quanto ce n’è dentro?” chiesi all’oste, e disse che ce n’erano ormai pochi litri. Siccome mi serviva un caratello per fare il Vin Santo in Toscana, gli feci notare il mio interesse: “Se fosse vuoto glielo regalerei”, mi rispose. “Allora svuotiamolo”, aggiunsi, e offrii a tutti i clienti il Marsala, finché il caratello non si svuotò. E partii da Catanzaro, allegro e col caratello sotto braccio.

Seconda espulsione dalla Francia.
   Poche settimane dopo, l’undici febbraio del ’76, fui invece riconosciuto alla frontiera francese su un treno notturno, tirato giù, espulso e consegnato alla polizia svizzera, che dopo breve inchiesta mi liberò. Questo incidente, avvenuto quasi contemporaneamente all’uscita dell’edizione francese di Censor, indignò Guy Debord, che mi vendicò, facendo comprare da Gérard Lebovici mezza pagina del quotidiano «Le Monde» sulla quale fu pubblicata una sua Dichiarazione al mio proposito, che resta un capolavoro letterario di ironia e di umorismo nero swiftiano: questa passò senza che se ne accorgessero i censori di quel quotidiano, del quale ci si prendeva allegramente e crudelmente gioco [*13]. Non ci annoiavamo.

5- DICHIRAZIONE DEBORD

Utilità delle digressioni.
   Questa digressione su alcuni prodromi del mio 1977 non era forse necessaria, ma è invece utile per far capire ai più giovani qual era il clima in cui si viveva. Ancor oggi ci sono persone che mi chiedono, dopo aver letto il mio libro Del Terrorismo e dello Stato, per quale aporia io non sia stato allora ammazzato. Dopotutto, ero odiato, oltre che dalla polizia, anche da tutti i marxisti-leninisti, maoisti, comunisti, etc., e niente sarebbe stato più facile che fingere un regolamento di conti nell’area eversiva, anche senza far scomodare le forze di polizia, che in tutti i casi avevano infiltrato ampiamente quell’area. Come in tutte le cose, direbbe Machiavelli, si può concludere che, se il peggio non è successo, in parte è stato per fortuna e in parte per virtù, cioè per prudenza.

Lo spirito del tempo.
   Lo spirito del tempo era allora molto diverso da quello di oggi: la vita era pericolosa, è vero, ma ci si sentiva liberi. Né io né gli altri ci saremmo sognati di poter parlare di questi avvenimenti quarant’anni più tardi: non si sapeva se all’indomani non saremmo stati chiusi in prigione per vent’anni, o forse ammazzati. Si viveva ogni giorno come se fosse l’ultimo, e per molti l’ultimo giorno è venuto presto. Ma almeno prima avevano combattuto. Oggi invece si muore ancor più che allora, senza aver vissuto, quando quelli che governano il terrore, cioè la politica e lo Stato profondo, decidono di far strage a New York, Boston, Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles, Nizza, Berlino, Istanbul, Manchester, Teheran e domani altrove. Perché è col terrore e con la paura che si governa dappertutto: queste stragi costano poco, ma fanno grande effetto, cambiano il clima sociale: e permettono di instaurare uno stato di paura, di diffidenza e d’emergenza perpetuo e generalizzato, contro il quale non c’è rivolta. Il copione è collaudato, ed è sempre lo stesso. Dopo ogni strage, lo Stato ammazza subito quello o quelli che designa istantaneamente come colpevoli, senza altre formalità giudiziarie, e rassicura la popolazione che ora tutto è sotto controllo, fino alla prossima strage.
   A quel tempo non si soccombeva alla paura: ogni strage, ogni guerra, ogni assassinio ci riguardava, ed era occasione di nuove lotte. Oggi, dopo ogni nuova strage, le plebi se ne stanno zitte: chi parla, condanna e finge di indignarsi sono solo i beneficiari ipocriti di queste stragi, i ministri che così possono emanar decreti liberticidi, e i giornalisti la cui funzione è di accreditare tutte le fake news, per avvalorare la menzogna ufficiale [*14].

Operazioni psicologiche e operazioni di guerra a bassa intensità.
   Oggi la gente pensa che le stragi riguardino solo gli altri, quelli che muoiono: e invece sono fatte per i vivi; anzi, nel pensiero sottomesso, perverso e nichilista, i sopravvissuti sono oggi grati agli Stati per esser stati provvisoriamente “difesi” dalle misure di polizia, e risparmiati, almeno per questa volta. Le folle, offerte in olocausto al potere, che si è inventato e ha fabbricato tutti i crudelissimi nemici fittizi di cui ha bisogno, ben documentati nei film prodotti dalle agenzie di propaganda, sono rassegnate come gli agnelli a Pasqua. Si tratta di operazioni di guerra a bassa intensità (Low Intensity Operations), e di operazioni psicologiche (PSYOPS) ben codificate nell’arte militare, che raggiungono perfettamente il loro scopo: impaurire e demoralizzare le popolazioni, contro le quali sempre si governa. I popoli sono considerati, dalla pubblicità, dalla propaganda, dalla politica, come se fossero formati da bambini piccoli. Il terrorismo è la favola infantile che si racconta loro per suscitare la paura, la ricerca della sicurezza e l’obbedienza. Si è visto che funziona.
   A quel tempo, un simile atteggiamento di sottomissione all’arbitrio ci avrebbe rivoltato. Oggi si assiste invece a una leopardiana strage delle illusioni, in cui l’accettazione della menzogna e dell’impostura sull’ultima ecatombe è diventata la normalità, non una viltà, una vergogna e una complicità: i popoli sono diventati i complici delle menzogne che ascoltano senza reagire. Non hanno ancora imparato che non ci si può lasciar governare innocentemente.

Esperimenti pavloviani.
   A quel tempo il terrorismo spettacolare c’era solo in Italia (e, in misura minore, in Germania). Siccome l’esperimento ha funzionato pavlovianamente sulle plebi ingannate, come ci si aspettava, si è poi esteso dappertutto. Tanto maggiore fu la mia meraviglia quando vidi il movimento del 1977 così indifeso contro le provocazioni, così ingenuo e imprudente di fronte alla questione delle armi e al terrorismo. Che, infatti, fu efficacemente usato per sconfiggerlo.

L’importanza di nominare il proprio nemico.
   Fu proprio su quest’argomento che in quell’anno feci interventi a Roma, anche in assemblee che riunivano molti attivisti, e pubblicai due manifesti, che furono distribuiti nelle manifestazioni, uno a Roma e l’altro a Bologna, dai quali appare evidente la mia massima preoccupazione per la poca chiarezza teorico-pratica del movimento sulle questioni cruciali: l’ampiezza possibile della repressione dei comunisti e dello Stato, la manipolazione burocratica, l’uso delle armi, il terrorismo [*15]. Un movimento pre-insurrezionale che aveva combattuto e nominato quasi tutti i propri nemici, ma non il terrorismo, era evidentemente destinato a essere sconfitto da questo.
   Fra quelli che hanno partecipato a questi avvenimenti, tutti sanno che il clima che allora si respirava era di grande entusiasmo, generosità, creatività, simpatia, tolleranza, ottimismo e buon umore. C’era ancora la fiducia negli altri: si vedevano ancora, lungo le strade, tanti giovani che facevano l’autostop, anche ragazze da sole. Oggi è impensabile: lo spirito pubblico è cambiato. La diffidenza regna sovrana. L’indifferenza e la vigliaccheria sono promosse dappertutto.

6 - DEFINIZIONE MINIMA

Rimedio a Tutto.
   Andai spesso a Roma, e altrettanto spesso venivano a trovarmi in campagna degli “Indiani”. Pensai che la cosa più utile che io potessi fare, fosse quella di armare la loro coscienza. Mi misi a scrivere dei pamphlet, da riunire poi eventualmente in un libro, che si sarebbe intitolato Rimedio a Tutto. Era questo la raccolta di una quindicina di pamphlet tematici, ognuno inserito a mo’ di capitolo, con un titolo. Le vicissitudini complesse di quell’anno, la rapida ricaduta del movimento, e i fatti straordinari dell’anno successivo, in cui avvenne il rapimento di Aldo Moro, hanno poi fatto sì che decisi di non pubblicare quel libro, ma solo il pamphlet sul terrorismo, e una prefazione, perché mi pareva la cosa più urgente. Uscì poi, senza editore, perché rifiutato da Mondadori, questa volta col mio nome, sotto il titolo Del Terrorismo e della Stato. / La teoria e la pratica del terrorismo / per la prima volta divulgate [*16]. L’Avvertimento al lettore si chiudeva con questo proposito: “A chi ha paura della verità, voglio offrire qualche verità di cui aver paura; e a chi non ne ha paura, una ragione per provare che quello della verità è l’unico terrorismo di cui il proletariato si giova”.

De Sade libero!
   Un aiuto per ricordare gli avvenimenti del 1977 mi è dato dalla rilettura, nel mio archivio, della mia corrispondenza con Debord in quell’anno, da cui traggo alcune informazioni, date allora in tempo reale, e che qui di seguito riassumo brevemente [*17].
   Fui gratificato il 31 gennaio, il primo e il 2 febbraio da due processi, e da una causa a Milano, all’ultimo rinviata, contro il settimanale «L’Europeo», che non voleva pubblicare una mia smentita a una falsa intervista. A Firenze fui condannato a una pena irrisoria per la vicenda delle armi da guerra, messe e trovate, nell’auto due anni prima: un’ammenda più il pagamento delle spese processuali. Era segno che l’impianto accusatorio era miseramente crollato. Sugli avvenimenti di febbraio a Roma scrivevo che per la prima volta una giovane generazione proletarizzata riconosceva apertamente come suoi nemici i comunisti e la polizia sindacale, oltre al capitalismo. Informavo che nella roccaforte e città vetrina dei comunisti, a Bologna, si era fatto ricorso ai blindati per reprimere le manifestazioni, come a Budapest e a Praga. Sui muri di Roma raccontavo di aver letto, fra tante altre, questa singolare ma ammirevole rivendicazione: “De Sade libero!”. Trattavo del fenomeno delle radio libere, e della loro funzione essenziale di collegamento: infatti Radio Alice era stata chiusa già il 12 marzo. A Roma si gridava: “In Cile i carri armati, in Italia i sindacati!” e i sindacalisti in fuga rispondevano: “Siberia! Siberia!”. Lo scontro era costante e non si lasciava requie ai burocrati stalinisti. Il sindaco comunista di Bologna aveva inviato una corona di fiori per il funerale dello studente Francesco Lorusso, ammazzato dai carabinieri, e la corona fu rifiutata e rispedita al mittente.

I comunisti in ghingheri.
   I comunisti, già in ghingheri per l’annunciato matrimonio con la Democrazia cristiana, tronfi e incattiviti dal loro successo elettorale, cercavano disperatamente di mostrarsi virilmente degni della sposa, e di essere assunti nel governo, gettando la maschera e reprimendo il movimento -che tuttavia si stava pericolosamente estendendo alle fabbriche. Il 6 aprile oltre 350 consigli di fabbrica inviarono da 3.000 a 5.000 delegati al Teatro Lirico di Milano, sconfessati dai comunisti. Gli operai sostenevano la necessità di aprire una fase nuova, non più difensiva ma di contrattacco. Si gettavano così le basi di un doppio potere. Questi delegati avevano convocato, entro la fine del mese, un’assemblea nazionale di delegati: cosa che, dicevo, equivaleva in realtà a un appello a tutti i lavoratori italiani a eleggere i loro delegati revocabili, scavalcando i sindacati. I situazionisti erano sempre stati risolutamente a favore dei consigli, in cui ogni delegato fosse revocabile in qualsiasi momento dalla base. Di fronte al rischio dell’estensione e della radicalizzazione del movimento, bisognava aspettarsi, continuavo, una repressione violenta e anche le provocazioni poliziesche. Il “compromesso storico” era improvvisamente invecchiato prima di nascere, e in ogni caso non si potrà più presentarlo come una “vittoria” della classe operaia. Ora si sa che il doppio gioco del Partito comunista, che si pretendeva indipendente da Mosca, è confermato dal fatto che anche quell’anno, in marzo, ha ricevuto un milione di dollari dal KGB [*18]. Tutte le speculazioni sul fatto che Mosca si opponesse al compromesso storico, sono smentite anche da questo fatto.

I nemici di Censor.
   Oggi si sa anche che l’ambasciatore americano Richard Gardner scrisse poi che Eugenio Scalfari, direttore del giornale «La Repubblica», in aprile gli disse: “Soltanto quando Berlinguer assumerà il controllo della polizia, ci sarà pace civile in Italia”… “Lo stesso – continua Gardner – fece poco dopo Leopoldo Pirelli il quale espresse la stessa opinione, che cominciavo a sentire da un preoccupante numero di leader dell’economia italiana: ossia che, per risolvere i problemi economici dell’Italia, non vi era altra scelta che far entrare i comunisti nel governo[*19]. Gli esponenti del mondo economico si stavano schierando con Censor. Nemici di Censor restavano Licio Gelli, i servizi segreti e le forze di polizia, completamente infiltrati dalla Loggia P2, gli americani e i fascisti, che collaborarono tutti attivamente nella messa in scena dello spettacolo del terrorismo sotto falsa bandiera, rossa e nera, ciò che allora si chiamava “strategia della tensione”.

Sberleffi.
   Scrivevo a Debord che a Roma avevo visto davanti all’università un banco di libri occupato per oltre metà da edizioni pirata situazioniste. Sui muri diversi slogan situazionisti, come “La rivoluzione sarà una festa o non sarà”, e, in francese, “Ne travaillez jamais!”. Dicevo che gli Indiani metropolitani erano la punta di diamante di gruppetti spontanei che meglio esprimevano lo spirito e la modernità del movimento. Davanti a un blindato bruciato a Roma, e alla polizia che difendeva i sindacalisti, li avevo sentiti intonare questo crudele sberleffo: “I blindati non li vogliamo più, mandateci i carri armati, o non giochiamo più”. A Bologna era scritto: “La benzina è cara: fatene buon uso!”. Dicevo anche che fra gli Autonomi, che passavano, ben a torto, per esser più radicali degli Indiani, erano comparse armi, e che questo gruppo, più strutturato degli Indiani, era a grande rischio d’infiltrazione e manipolazione. Avevo parlato, alle otto di sera del 5 aprile, due giorni dopo l’inizio della repressione, a un’assemblea nell’Aula Magna dell’Università. L’assemblea era libera, ma piuttosto debole. Fra il pubblico si dissimulavano burocrati e poliziotti, che non si esprimevano, ma ascoltavano attentamente. Il mio discorso toccava tre punti: 1) come evitare e scoraggiare la repressione; 2) necessità di mandare nella notte stessa del 5 aprile una delegazione a Milano all’assemblea del Lirico del 6, con un mandato preciso, per prendere contatti diretti con tutti i consigli di fabbrica, e per restare costantemente in rapporto con tutti; 3) dopo aver nominato e insultato ogni gruppuscolo burocratico, ho lanciato un appello per una manifestazione all’indomani in pieno centro, a Campo dei Fiori.

Rimedi inconfutabili contro la repressione.
   Per quanto riguarda la repressione, il mio discorso fu un pedissequo détournement, se non un vero e proprio plagio, di quello che Machiavelli mette in bocca a un insorto nella rivolta dei Ciompi a Firenze, nelle Istorie Fiorentine (III libro, capitolo XIII). Non ricordandomi le mie parole esatte, citerò qui l’essenza del discorso machiavelliano, da cui derivava direttamente il mio.
   Noi dobbiamo a questo punto cercare due cose, e avere nelle nostre deliberazioni due fini: uno di non poter essere castigati delle cose fatte nei giorni passati; l’altro di poter vivere con più libertà e più soddisfazione che nel passato. Ci conviene pertanto, volendo che ci siano perdonati gli errori vecchi, farne dei nuovi, raddoppiando i mali, moltiplicando gli incendi e le ruberie, e ingegnarci di avere in questo molti compagni, perché dove molti sbagliano, nessuno è castigato, e le infrazioni piccole si puniscono, mentre quelle grandi e gravi si premiano; e quando molti patiscono, pochi cercano di vendicarsi, perché le ingiurie universali si sopportano con più pazienza che le particolari. Moltiplicare dunque i mali ci farà più facilmente trovare impunità e ci aprirà la via per ottenere ciò che desideriamo per la nostra libertà. Si deve dunque usare la forza quando ce ne è data l’occasione, e nessuna è migliore di questa, poiché i nostri nemici sono disuniti, il governo incerto, i magistrati sbigottiti. Questo partito è audace e pericoloso; ma, dove la necessità stringe, l’audacia è giudicata prudenza, e mai si esce senza pericolo da un pericolo: e quando ci si vede preparare il carcere e la morte, star quieti è più pericoloso che agire: perché nel primo caso i mali sono certi e nel secondo incerti...
   Questo per quanto riguarda la repressione. Per la delegazione a Milano, e il mandato da darle, ho chiesto di andare subito al voto. Così come per la manifestazione all’indomani in Campo dei Fiori.
   Malgrado le atrocità che avevo detto, non fui mai interrotto, e alla fine ci furono gli applausi. La debolezza dell’assemblea si dimostrò invece nel non mettere subito ai voti ciò che chiedevo, rimandando la votazione a molto tardi, allorché i delegati dovevano già prendere il treno per Milano, e nello spostare la manifestazione da Campo dei Fiori all’estrema periferia, il 7 aprile. C’era una burocrazia ancora in formazione, che non osava manifestarsi, ma che incominciava a pesare sulle decisioni. Era ormai tardi, e molti se ne andavano.

Provocazione e rapimento di De Martino.
   Poco dopo, verso la fine di quella stessa serata del 5 aprile, si diffuse la notizia della provocazione che temevo, con la messa in scena dello stranissimo sequestro a Napoli del figlio di Francesco De Martino, ex-segretario del Partito socialista. De Martino rischiava di essere eletto presidente della Repubblica – poiché l’allora presidente, Giovanni Leone, era implicato in diversi scandali, e le sue dimissioni imminenti. Il vero problema era che Francesco De Martino era amico dei comunisti, e andava discreditato ed eliminato dalla corsa presidenziale. Si trattava di un’operazione politica di diversione, e d’intossicazione, e anche per distrarre l’opinione pubblica dall’attualità vera, dall’Assemblea dei Consigli di Milano, per parlar d’altro, per far passare le leggi repressive. Questo conato di sequestro resta ancora oggi molto enigmatico e inesplicato. Rivendicato dai NAP, poi  da altri e da altri ancora, fu chiesto un riscatto di un miliardo di lire, cifra enorme, che fu poi pagata. Si trattò però di un’operazione molto pasticciata. Era una pessima prova generale per il sequestro di Aldo Moro, l’anno successivo. Anni dopo, nel 1980, mi scrisse dal carcere di Spoleto un certo Vincenzo Tene (che aveva letto il mio libro sul terrorismo), condannato per questo sequestro: “per la Giustizia – scriveva – sono stato condannato come mandante ed esecutore, mentre la realtà è molto diversa.”  [*20].  Ma non entrò nel dettaglio. I mandanti non furono, in effetti, mai scoperti, e tre dei condannati furono assassinati durante una licenza premio dal carcere. Gli italiani sono il popolo più raffinato d’Europa: diceva Stendhal che ci sono cose che non si possono capire in paesi dove c’è meno bisogno di precauzioni.

Avviso al proletariato.
   Saputa la notizia al mattino dalla radio, scrissi subito un Avviso al proletariato sugli avvenimenti delle ultime ore, firmato “Penna Veloce”. Andai col mio gruppetto di Indiani da un tipografo, che accettò di stamparlo clandestinamente. Ma non voleva, per prudenza, che si usassero i suoi caratteri tipografici: così lo trascrissi con la mia calligrafia, e due ore dopo era stampato e pronto per essere distribuito alla manifestazione in periferia deliberata la sera del 5. In questo manifesto scrivevo, fra l’altro: “L’unico modo in cui possiamo impedire questa repressione, è quello di estendere l’attuale movimento dappertutto, e innanzitutto nelle fabbriche di tutte le città d’Italia…  Compagni! Attenzione alle provocazioni terroristiche dei servizi segreti! Ricordiamoci di Piazza Fontana, e denunciamo immediatamente i terroristi prezzolati. Il rapimento di De Martino fa parte di questa strategia del S.I.D…. Gli atti terroristi, sotto le più varie etichette, servono solo al potere: sono un avvenimento spettacolare che serve solo per nascondere e mascherare la reale lotta di classe che noi combattiamo, e che il partito detto comunista vorrebbe passare sotto silenzio… Quando i sindacati non riescono più a dominare le lotte, è normale che subentrino poliziotti e servizi segreti...[*21].
Per la prima volta mi resi conto della praticità del nuovo sistema di stampa IBM-Heidelberg. Quel manifesto fu anche spedito per posta a ministri e personaggi potenti ai quali avevo già inviato il pamphlet firmato Censor, dei quali avevo un indirizzario. Un dirigente della sede della Banca Commerciale in Piazza della Scala, a Milano, l’aveva attaccato nella bacheca in banca, come poi seppi, suscitando la rabbia dei sindacalisti della Commissione interna.

7 -AVVISO AL PROLETARIATO
Perfidia indiana.
   Al gran pasticcio e al sabotaggio dell’operazione De Martino contribuì perfidamente anche un’iniziativa fantasiosa presa da alcuni Indiani, ben consigliati. Arrivò alla Radio e ai giornali una telefonata di qualcuno che si dichiarava cattolico e socialista, e facente parte dei servizi segreti. In questa telefonata l’uomo lanciò un messaggio accorato ma verosimile e risoluto, col quale dissociava le proprie responsabilità da quelle dei suoi colleghi dei servizi, per fedeltà al leader socialista sotto attacco. La maniera immediata e disinvolta in cui la cosa fu concepita, diffusa e percepita fece che la denuncia di quest’agente “virtuoso” fosse creduta in alto loco e scompaginasse ulteriormente i piani dei veri autori. Credo che anche questo abbia contribuito al disastro di quel pasticciato sequestro, ormai da burletta, e, chissà?, forse anche a salvare la vita al malcapitato Guido De Martino. In ogni caso, questa volta, gli specialisti dell’intossicazione furono a loro volta intossicati.

Stato di eccezione a Roma.
   Tornato da Roma al mio podere in Toscana, dovetti allontanarmene subito, perché intorno a questa casa in aperta campagna, si notava un viavai di personaggi inequivocabilmente sospetti, come anche il pastore sardo, che viveva sullo stesso colle, mi confermò. Senza neppure finire di scrivere una lettera a Debord, me ne andai all’istante, e la finii di scrivere e spedii da Milano – dove, però, mancava quell’atmosfera di festa che si respirava a Roma. Era questa un’epoca in cui non si sapeva mai se le precauzioni che si prendevano erano sufficienti o inadeguate: perché in molti casi non erano bastate. La repressione, iniziatasi in aprile, si aggravò quando, in maggio, ero di nuovo a Roma, dove il ministro degli Interni Cossiga aveva dichiarato il divieto di manifestare, de facto uno stato di eccezione illegale. Il movimento che si era iniziato in febbraio aveva scatenato il più efficace e violento attacco alla reputazione del partito comunista, e di tutte le istituzioni dello Stato, che si fosse visto in un paese occidentale. Riconoscendo tutti i propri nemici, questo movimento pre-insurrezionale era destinato a crescere, ma a condizione di riconoscere fra essi anche il terrorismo. L’etere non era più monopolio dello Stato: le radio libere e la libera stampa avevano svolto un ruolo cruciale, cambiando la concezione stessa dell’informazione.

Verità teoriche.
   Le verità teoriche, che si erano trasformate in forza pratica in questo movimento, erano certamente meno numerose dei danni che avevano causato imponendosi. Fra queste ne elencavo alcune: 1) rifiuto generalizzato della società dello spettacolo; 2) i comunisti erano additati apertamente come la principale polizia della società di classe; 3) rifiuto del lavoro, anche da parte dei disoccupati; 4) rifiuto della logica del militantismo, della dirigenza e della gerarchia dei gruppuscoli burocratici, e rifiuto della politica; 5) scoperta della democrazia reale, e revocabilità dei delegati; 6) applicazione coerente del détournement, nelle strade, nelle radio libere, nei manifesti, etc.; 7) nascita di uno spirito nuovo, molto moderno, pieno di autoironia, invenzione, humor nero, sarcasmo; 8) si proclamava che la rivoluzione dovesse essere una festa. Queste idee erano, di fatto, situazioniste. Niente fu mediocre, fino a un certo momento. E tutto divenne disastroso da quel momento in poi, da quando incominciarono ad apparire le armi.

Controffensiva e provocazioni poliziesche.
   I comunisti erano riusciti a impedire, quasi dappertutto, anche se non sempre, che le numerose lotte operaie si congiungessero col movimento. L’assemblea operaia del Teatro Lirico a Milano non aveva poi avuto il seguito annunciato. La controffensiva poliziesca, incominciata poco prima della provocazione del rapimento De Martino, è continuata con le armi e con i poliziotti travestiti che si mescolavano alle manifestazioni e sparavano, come documentato da fotografie di Tano D’Amico e di altri. Ci furono molti morti dei quali s’incolpava evidentemente il movimento. Anche i fascisti, sempre utili al potere in questi momenti, sparavano. Era ricominciato il terrorismo, che si sa a chi serve, e si sa anche chi se ne serve. Le Brigate Rosse, cioè i servizi segreti che le dirigevano, non erano state smascherate. Gli scioperi selvaggi si estendevano, così come le occupazioni di scuole, case sfitte, fabbriche, municipi, stazioni ferroviarie. Ci furono numerosi sabotaggi, ribellioni in carcere, occupazioni di terre incolte. Ma la repressione delle lotte progrediva. Ci furono molti licenziamenti, la sterilizzazione della scala mobile dei salari, con un’inflazione del 20%, denunce e condanne, perquisizioni senza autorizzazione della Magistratura e intimidazioni. Fu approvato l’“arresto provvisorio”, senza diritto ad un avvocato, e il crimine di “detenzione di documenti eversivi”, grazie al quale chiunque avesse in casa un volantino poteva essere arrestato. Le radio libere furono oscurate e chiuse. Il movimento fu tagliato fuori da ogni informazione credibile. Il 18 e 19 maggio Roma fu occupata militarmente dalle forze dell’ordine. Quel movimento volgeva irrimediabilmente alla fine.

Un serpente boa da guardia.
   Siccome si generalizzavano le perquisizioni illegali, anche in mancanza di un mandato e in assenza di testimoni, e ne ero stato più volte vittima, io mi comprai a Milano un serpente boa che lasciai libero nella casa in campagna, facendolo sapere ai carabinieri. La cosa fece molta impressione, e suscitò grande timore anche nel circondario, malgrado si trattasse di un animale mite che si limitava a mangiare i topi. Vennero i Carabinieri, senza entrare in casa, per domandarmi ragione di questa mia iniziativa; risposi loro che la malavita non aveva più paura dei miei tre cani, e che i banditi ormai s’introducevano nelle case anche travestiti da Carabinieri.

“Quel pidocchio di Sartre”. 
   In luglio avvisavo Debord che “quel pidocchio di Sartre”, insieme con altri intellettuali francesi, in un appello contro la repressione in Italia, faceva finta di accorgersi del fatto che in Italia i comunisti giocassero un ruolo nella repressione, come se non avessero fatto sempre e dappertutto la stessa cosa. Gli intellettuali italiani, gregari e parassiti del PCI, appoggiavano e giustificavano invece pienamente la virulenza della repressione. Sartre si lamentava che il Partito comunista non fosse più quello di Togliatti. Questo bastava.

L’infamia degli intellettuali italiani.
   Oggi o sono morti o tacciono, ma a quel tempo starnazzavano come oche del Campidoglio, e inveivano come prefiche contro il movimento. Vale la pena ricordare ciò che allora avevo scritto al loro proposito: “Il servilismo attivo con cui tutta l’intellighenzia di sinistra ha dapprima tollerato, e poi fatto proprie, le tesi accusatorie ufficiali sul terrorismo e contro gli Autonomi, potrebbe sembrare addirittura sbalorditivo a chiunque non sapesse che essa si è sempre comportata nello stesso modo, ogni volta che ha avuto l’occasione di comportarsi in maniera differente… È del resto notorio che, da mezzo secolo in qua, il ruolo degli intellettuali italiani, filo stalinisti per lo più, è stato insostituibile nella diffusione di ogni menzogna a proposito del socialismo e della rivoluzione. Oggi, che non possono più mentire sul “socialismo” sovietico, o cinese, o cubano, si son ridotti a spender senza ritegno le loro menzogne sulla democrazia borghese, per salvar la quale essi accettano ogni sacrificio, anche di farne a meno… Essere incriminato coincide d’ora in poi con l’esser condannato… So bene che l’intellighenzia italiana ha una quantità di motivi per essere pavida e disonesta, conosco anche a memoria gli argomenti con cui si giustifica, e non mi sognerei mai di confutarle la libertà d’essere spregevole. Ciò che trovo fastidioso è che questi intellettuali continuamente intervengano a proposito del terrorismo (…) come se una forza oscura li costringesse a pubblicare le prove della propria ottusa viltà, e come se qualcuno avesse ancora bisogno di esserne convinto; mentre invece molto si gioverebbero mantenendola confinata nelle loro opere, cosicché essa non sarebbe conosciuta né dai posteri né dai contemporanei… L’Italia attuale e la Russia di Stalin sono forse i soli Stati al mondo che si sono retti esclusivamente sulla polizia segreta: in Russia si scoprivano “controrivoluzionari” dappertutto, e si decretava “controrivoluzionario” ogni oppositore; in Italia si scoprono oggi “rivoluzionari” dappertutto, e ogni extraparlamentare, per timido che sia, è decretato “rivoluzionario”. Negri, Piperno, Scalzone, etc., sarebbero secondo i giudici e i giornalisti i capi della rivoluzione italiana, i suoi “cervelli” ed i suoi strateghi. Io li ho qui difesi in quanto sono innocenti, e mai mi sognerei di difenderli in quanto rivoluzionari, perché non sono né colpevoli né rivoluzionari: in realtà questi leader Autonomi non sono altro che dei politicanti ingenui, imprudenti e sfortunati anche come politicanti…[*22].

L’annuncio della fine di quel movimento.
   La fine di quel movimento divenne lampante e irreversibile al Convegno internazionale di Bologna il 23-25 settembre di quell’anno, che doveva porre le basi per la sua estensione, e che invece i capi degli Autonomi affossarono simpatizzando per la lotta armata. Non esiste atteggiamento più stupido che quello di “simpatizzare” con la lotta armata: o la si fa, assumendosene le conseguenze, o non la si fa, in ogni caso motivandone le ragioni: “simpatizzare” significava offrire al nemico il bastone con cui farsi battere: ecco di che cosa i capi Autonomi sono stati stupidamente colpevoli. Nel manifesto che pubblicai a Bologna in quest’occasione - intitolato Benvenuti nella città più libera del mondo! - fui invece molto chiaro sulla questione, ma purtroppo inascoltato. Merita qui di esser citato.
Finora tutte le misure repressive, dalla minima alla massima, dalla calunnia ai carri armati, non hanno giovato al potere, perché non sono riuscite ad impedire niente di ciò che è successo. Ma non dobbiamo dimenticare mai che il più piccolo errore compiuto dal movimento ci può nuocere in maniera irrimediabile. La poca chiarezza teorico-pratica su una questione strategica, com’è quella delle armi, rischia di produrre effetti molto gravi… Le armi vanno usate quando tutti sono pronti ad usarle. E tutti saranno pronti ad usarle quando il loro uso sarà divenuto indispensabile. La questione non è tattica ma strategica. Chi oggi gioca con le armi, gioca col potere, che è molto più armato di noi; e col potere non bisogna giocare, bisogna distruggerlo… Da un punto di vista pratico, usare le armi in una manifestazione di ventimila persone, dove solo cento sono armate, non è solo inutile ma dannoso: si espongono al fuoco della polizia migliaia di compagni che non possono difendersi… Da un punto di vista teorico, quei pochi che vengono armati alle manifestazioni, vogliono costituire, e costituiscono di fatto, un nuovo potere separato all’interno di un movimento rivoluzionario che per l’appunto lotta contro ogni potere separato… E non dobbiamo nemmeno trascurare le possibilità di provocazione che l’uso improvvisato e incosciente delle armi offre ai poliziotti, opportunamente travestiti. Se vogliamo combattere realmente la repressione, combattiamo anche ciò che può fornire un pretesto e una giustificazione alla repressione. Così come noi non abbiamo nessuna indulgenza verso i nostri nemici, non dobbiamo averne verso noi stessi; e dobbiamo criticare senza pietà gli errori che possono essere fatali alla crescita di tutto il movimento. La critica delle armi non può mai prescindere dalle armi della critica. Coloro che si auto-compiacciono nell’uso stupido delle armi, non sono la parte più avanzata e più dura dell’attuale movimento rivoluzionario, ma la retroguardia della sua coscienza teorica e strategica. Quanto al terrorismo, in Italia oggi è assolutamente privo non solo di utilità, ma anche di giustificazioni… a partire da Piazza Fontana, ha sempre giovato allo Stato, anche quando non erano i servizi segreti a promuoverlo.

Sottosviluppo teorico e pratico.
   I lugubri capi Autonomi, per i quali la cosa principale era conquistare l’egemonia sul Movimento del 1977, anche a costo di distruggerlo, non avranno oggi particolari motivi di fierezza: si credevano in Russia nel 1917, e mimavano maldestramente i bolscevichi russi, insieme ai loro errori e nefandezze ideologiche. La loro visione strategica era inesistente. Essi rappresentavano la somma delle debolezze, degli equivoci, delle imperdonabili arretratezze culturali, dell’ignoranza della storia, del sottosviluppo teorico e pratico della parte ormai egemonica di quel movimento che, grazie a loro, ai comunisti, alle provocazioni terroriste e alla repressione, finì disastrosamente, proprio come paventavo nel mio manifesto di Bologna. Una generazione intera pagò pesantemente, con centinaia di anni di carcere preventivo, il connubio perverso di cattolicesimo e leninismo di cui era impregnato il DNA ideologico dei capi degli Autonomi.

Distacco di Debord.
   A quel tempo gli interessi di Debord, al quale scrivevo le vicissitudini di questo movimento pre-insurrezionale, e le mie particolari peripezie, un po’ casanoviane, si erano già distolti dall’Italia, e anche dal lavoro di gruppo, che era finito da tempo: aveva trovato in Gérard Lebovici il suo produttore cinematografico e stava girando il suo più bel film, In girum imus nocte et consumimur igni, che uscirà l’anno dopo. I nostri rapporti si erano raffreddati, anche se m’invitò ad andare in ottobre di quell’anno a trovarlo nella sua campagna, cosa che poi non avvenne. La mia impressione è che abbia guardato, certo, con interesse gli insorti del 1977, ma che non abbia colto la novità e l’importanza che questo movimento rappresentava, non solo per l’Italia, ma anche in campo internazionale. È per me sorprendente che all’inizio del 1979, nella sua Prefazione alla quarta edizione italiana de “La Società dello Spettacolo”, Debord non faccia parola del 1977. Non mi pare che ne abbia mai parlato neppure nei suoi scritti successivi. E forse considerava da qualche tempo l’Italia “persa” alla causa, e in ogni caso era solo, e non aveva certo “truppe” da inviare.

Le giovani generazioni cancellate dalla storia.
   Dei due 1977 di cui parlavo all’inizio di questo testo, il peggiore aveva sopraffatto il migliore, per poi finire sconfitto dalle proprie insufficienze ed errori, e dalla santa alleanza di tutti i poteri forti. Le ferite lasciate da questa repressione, allargata a tutti i reduci di precedenti movimenti, e che proseguì per dieci anni, non si rimargineranno, e da allora la gioventù italiana uscì, per così dire, dalla storia: non fece più storia, la subì, invece, e continua a subirla, senza più mostrare tracce di virtù virile. Le è stata insegnata l’ignoranza, grazie alle successive riforme della scuola, e grazie alla dimissione delle famiglie dalla paideia, che era, fin dal tempo dei Greci, la formazione del carattere dei giovani. Ha così perso la sua identità, ogni curiosità, ogni passione vera e ogni illusione forte, grazie anche alla distrazione spettacolare e telematica, e ha fatto sua un’infinita rassegnazione sulla propria condizione, timorata e fragilissima di fronte ad ogni rischio, rifugiandosi disperata nel più confortevole nichilismo passivo – cioè nell’ignavia dantesca. La preoccupazione per la sopravvivenza precaria ha scacciato quella per la vita. Il suo essere si è contratto e ridotto sulla difensiva. Indifferente verso le sorti del mondo, e vivendo un senso di pericolo indeterminato ma costante, la gioventù si rifugia in un edonismo narcisista e disperato. Ha quindi perso ogni riferimento concettuale, linguistico e culturale comune con le precedenti generazioni, indispensabile a ogni dialogo vero e storico, e forse crede anche che il mondo sia stato sempre così com’è ridotto oggi. Il passato e il futuro non le interessano più. Il presente poco. Vive quindi in una eterna assenza schizoide e paralitica. Per alleviare la disperazione dei giovani, alcuni politici propongono oggi in Italia di elargire loro il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, ciò che significa preparare questa gioventù a farsi corrompere per rinunciare a esistere e a lottare, per scomparire definitivamente da una società di vecchi, con i quali non ha più nessun dialogo. La gioventù in Italia vive quindi ripiegata come in stato d’assedio, rinunciando ad armarsi contro le avversità promesse e annunciate da un futuro che minaccia e incombe, al quale cerca di scampare, spesso rifugiandosi nel luogo più comodo e protetto, nella famiglia d’origine. Incapace di stringere legami passionali e di costruire progetti di lungo termine, insofferente agli inconvenienti di seguir virtute e conoscenza, non vede oltre la propria precarietà e si rintana in uno sterile vittimismo. Senza aver combattuto, vive apaticamente un senso di disfatta, al quale mancano però tutti gli strumenti critici, e perfino la curiosità di indagarne le ragioni. Spero, naturalmente, di sbagliarmi, anzi sono sicuro di sbagliarmi per il seguente fatto, semplice ma determinante: le giovani generazioni, in Europa, in America, in Russia e in Cina, non avranno scelta. Esse saranno costrette per necessità, e non per scelta, a combattere per non soccombere allo sviluppo del capitalismo, ormai trasformatosi in un nuovo dispotismo. Oppure queste generazioni saranno decimate, più radicalmente che un secolo fa, nella nuova grande guerra che si prepara. Per riprendere qui il modo di ragionare del Machiavelli, se queste nuove generazioni non si rivolteranno, il male è certo, se invece combatteranno il male è incerto.

Normalizzazione e caccia all’uomo.
   Il 1978 fu l’anno in cui si approfondì e si estese la repressione generalizzata, insieme con un’altra più mirata, come una caccia all’uomo, contro tutti coloro che si trovavano in aperto conflitto col sistema, di cui il rapimento di Moro fu il pretesto. Nel 1979, parallelamente al processo del 7 aprile, tutti gli altri magistrati facenti parte del racket del PCI, così come i giornalisti e gli intellettuali, s’illustrarono per zelo, efficienza e accanimento, se non certo mai per intelligenza. Colsero l’occasione per un generale regolamento di conti: una vera e propria normalizzazione in stile staliniano, peggio che a Praga dopo il 1968. Per anni continuarono a piovermi sul capo variopinte accuse e imputazioni, dall’associazione sovversiva, alla detenzione di armi, all’accusa di partecipazione a banda armata, a quella di terrorismo, di contrabbando, etc., e questa pioggia divenne uragano dopo la pubblicazione del mio libro Del Terrorismo e dello Stato, all’inizio del 1979. Non pago della gaffe compiuta col mio arbitrario arresto del 1975, il Procuratore Pier Luigi Vigna m’indagò nuovamente dopo il rapimento di Aldo Moro, estendendo le indagini a Milano con il Procuratore Armando Spataro, con la pretesa, di inaudita stravaganza filologica, di aver rilevato che “dal contenuto dei documenti delle Brigate Rosse emergono connessioni fra l’ideologia di tale gruppo e quella dell’Internazionale situazionista della quale è esponente il Sanguinetti[*23]. Alla qual cosa replicai che l’Internazionale situazionista si era sciolta nel 1972, e che quindi non potevo esserne “l’esponente”, che essa non aveva mai avuto “un’ideologia, perché le ha combattute tutte, compresa l’ideologia lottarmatista”, e, dopo aver notato che le pubblicazioni situazioniste erano conosciute in Italia da molti e accessibili a tutti, mi permettevo di consigliare all’impertinente procuratore di istruirsi, prima di accusare.

8 - PAMPHLET VIGNA

Provocazioni asimmetriche sotto copertura.
   Parallelamente, ma nello stesso tempo della pubblica persecuzione messa in atto dalle autorità, agivano sotto copertura oscuri e vili personaggi, per esempio appiccando il fuoco più volte, e per più anni, al mio podere: per lo più, non si trattava di incendi partiti da altrove che arrivavano a lambire il mio podere, ma partivano proprio di lì.
   Poco dopo la pubblicazione di Del Terrorismo, nel 1979, si presentò a casa mia uno strano personaggio, commerciante d’auto, dichiarando la sua intenzione di comprare una mia vecchia Bentley coupé del 1950. Con questa, nel 1971, avevo fatto passare, senza destar sospetti, la traduzione manoscritta de La Società dello Spettacolo attraverso le frontiere del Portogallo – che era a quel tempo un’occhiuta dittatura attenta a censurare i libri. Feci presente a questo personaggio che l’auto aveva ancora la targa francese e che andava prima sdoganata. Disse che ci avrebbe pensato lui. Siccome offriva una cifra considerevole, la vendetti. Poco dopo fu fermato dalla Finanza, l’auto confiscata, ed io ebbi una denuncia penale e amministrativa per contrabbando. Appresi poi che il compratore era figlio di un carabiniere e intimo di una figlia di Licio Gelli.
   A causa di tutte queste vicissitudini, e di molte altre simili, scrissi allora: “Se mai ce ne furono, da questo momento non sussistono più dubbi: ho detto la verità [sul terrorismo]. E dal male che me ne si vuole, capisco che la mia opera è buona, e certamente non avrei sollevato un tale odio se non fossi stato ascoltato da molti[*24].

Fine dello stato di diritto.
   Fu da quell’epoca in poi che tutti i partiti cosiddetti “dell’arco costituzionale” si accordarono per metter fine in Italia a ogni sembianza di stato di diritto, senza suscitare alcuna protesta fra le anime virtuose che pretendevano ancora esistere in questo virtuosissimo “arco costituzionale”. Da allora in poi, l’Italia è diventata la patria della più sfacciata illegalità, preda della corruzione smisurata, del crimine istituzionale, della sopraffazione, della prepotenza, della crapula pecuniaria insaziabile che continua a pascersi delle carni degli italiani, già straziate dal terrorismo, nell’impunità garantita dalle leggi [*25]. Il nuovo nichilismo giuridico si è alleato col nuovo nichilismo finanziario, e insieme collaborano armoniosamente al disastro generale. Furono anche queste le conseguenze, e non le minori, della sconfitta del movimento di rivolta sociale del 1977: in questo l’Italia fu ancora il laboratorio internazionale in cui si sperimentarono gli strumenti che, anche grazie al terrorismo sotto falsa bandiera, si sono oggi diffusi dappertutto in un mondo neoliberale, avviato ad un nuovo, e mai prima visto, dispotismo, che ha già sottomesso tutta l’Europa e l’America. Per distinguerlo da quello orientale, io lo chiamo dispotismo occidentale.

Un colpo di Stato di nuovo tipo.
   Mentre il Partito comunista era completamente impegnato nello schiacciare il movimento dei giovani proletari del 1977, non si accorse che qualcun altro si era già preso lo Stato al quale anche i comunisti ambivano, con una tecnica completamente nuova e assolutamente silenziosa, mai in precedenza collaudata. Nel 1969 era uscito da Longanesi un ingegnoso libretto, scritto da Edward Luttwak, Tecnica del Colpo di Stato. Sosteneva l’autore che “Il colpo di Stato consiste nell’infiltrazione di un settore limitato, ma critico, dell’apparato statale e nel suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei rimanenti settori”. La Loggia P2 di Licio Gelli ha semplicemente messo in pratica quanto avanzato da Luttwak. Aveva infiltrato molti segmenti cruciali: contava a quel tempo un segretario di partito, 3 ministri, 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica, 8 Ammiragli, e poi magistrati, giornali e giornalisti, banchieri come Roberto Calvi e Michele Sindona, imprenditori come Silvio Berlusconi, tutti i vertici dei servizi segreti e molti altri personaggi dell’apparato statale. Una volta infiltrata negli apparati statali, la P2 ha dato origine alla “strategia della tensione”, e ha potuto, insieme all’organizzazione Gladio, mettere impunemente in opera con successo le stragi che insanguinarono l’Italia.
   Alla figlia di Licio Gelli fu sequestrato, nel doppiofondo di una valigia, un manuale segreto di guerra non-ortodossa dell’Esercito americano, firmato dal generale W.C. Westmoreland nel 1970, dove si leggono, fra molte altre, le seguenti edificanti istruzioni per destabilizzare e stabilizzare i diversi paesi: “Le attività terroristiche sono particolarmente utili per ottenere il controllo della popolazione. Il terrore può essere utilizzato selettivamente o indiscriminatamente (…). Vi possono essere dei momenti nei quali i governi delle nazioni ospitanti mostrano passività o indecisione di fronte alla sovversione comunista e secondo l’interpretazione dei servizi segreti USA non reagiscono con efficacia sufficiente… L’intelligence militare USA deve avere i mezzi per varare operazioni speciali che convinceranno i governi delle nazioni ospitanti e l’opinione pubblica della realtà del pericolo degli insorti. Per raggiungere questo scopo l’intelligence militare USA dovrebbe cercare di infiltrare l’insurrezione per mezzo di agenti con incarico speciale, con il compito di formare gruppi speciali d’azione tra gli elementi più radicali dell’insurrezione… Nel caso non sia stato possibile infiltrare con successo tali agenti nel comando dei ribelli può essere utile strumentalizzare le organizzazioni di estrema sinistra per i propri scopi al fine di raggiungere i sopra descritti obiettivi… Queste operazioni speciali devono restare rigorosamente segrete [*26]».
   Oggi questo nuovo tipo di colpo di Stato silenzioso, per via di cooptazione e infiltrazione, destabilizzazione e stabilizzazione, sperimentato allora per la prima volta in Italia, ha una grande fortuna nel mondo, e si è esteso in quasi tutti i paesi occidentali, non solo nel settore della contro-insorgenza, ma nella finanza, nella banca, nei mass media, nella politica, negli apparti militari, nella Magistratura, etc. Oggi questo nuovo tipo di colpo di Stato non si dissimula più, e si è dotato delle sue istituzioni: l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea (BCE).

Godi, Italia…
   La nostra penisola, dopo aver inventato la Chiesa, il papato, il capitalismo, la banca, il debito pubblico, la cambiale, la Controriforma, la mafia, il fascismo, il terrorismo sotto falsa bandiera, il “compromesso storico”, Gladio e la Loggia P2, dopo aver eretto ad arte l’assassinio politico, quest’Italia continua a far storia escogitando ed esportando tutto il peggio che si può infliggere all’umanità:

Godi, Italia, poiché se’ si grande,
Che per mare e per terra batti l’ali,
E per lo Inferno il tuo nome si spande.

   Già durante la Restaurazione, Giacomo Leopardi notava che “Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci  [*27]”. È a causa di questo cinismo che gli italiani sono rassegnati a lasciarsi violentare senza reagire.
   Si capisce bene per quanti e quali motivi il ’77, quest’anno determinante e decisivo, sia taciuto e rimosso dalla pubblica coscienza, esattamente come sono da anni vergognosamente censurate le indomite rivolte del popolo greco all’imposizione del dispotismo dell’Unione Europea: oggi è la Grecia ad essere diventato un laboratorio sperimentale del dispotismo occidentale, nell’indifferenza universale.
   Il 1977 dovrebbe invece essere ricordato per la sua importanza cruciale: esso fu una rivolta generalizzata, anche se in un solo paese, al nuovo disordine universale imposto poi dappertutto con la forza, con la violenza del terrorismo spettacolare, nelle lacrime e nel sangue. Dopo la sconfitta di quella rivolta fu calpestata ogni legge, progressivamente abolito ogni diritto acquisito e invalidate tutte le conquiste che in un secolo e mezzo di lotte di classe aveva raggiunto la classe sfruttata in Occidente: ora il modello è la schiavitù che regna nelle fabbriche cinesi, dove gli operai, spesso bambini, si suicidano ogni giorno per disperazione, fabbriche delle quali tutto il mondo si serve, senza porsi ulteriori domande. Viviamo in società pronte a far guerra per i “diritti umani”, guerre “umanitarie”, naturalmente, e anche la tratta degli schiavi avviene per motivi “umanitari”: il suicidio dei lavoratori, ridotti alla disperazione, fa pur parte di questi “diritti umani”. L’Istituto di statistica italiano ha risolto il problema in modo radicale e definitivo: dal 2010 non tiene semplicemente più conto dei suicidi per cause economiche.

La realizzazione mostruosa del “compromesso storico”.
   La Cina è oggi la realizzazione mostruosa ma paradigmatica del “compromesso storico” fra comunismo e capitalismo, inventato dagli ingegnosi e disonestissimi capi comunisti italiani. Questo progetto, che riunisce in sé il peggio dei due sistemi totalitari, e segna già la via e il divenire del mondo, definisce anche quali siano le fondamenta del nuovo dispotismo, che sta impunemente affermandosi dappertutto. Libertà totale di espropriazione per i ricchi, e schiavitù totale per i poveri.

La gloria del 1977.
   Il 1977 italiano, che si opponeva fieramente a questa prospettiva scellerata, fu quindi effettivamente un orgasmo della storia: la sua intensità, così come la sua breve durata, lo provano. È proprio questa fiera opposizione al perverso “compromesso storico” il lascito fondamentale, e indimenticabile, che il 1977 ha legato alla storia delle lotte di classe, perché l’umanità “non precipitasse nell’obbedienza”. Che questo non sia stato sufficiente, non si può certo imputare al 1977 italiano; il semplice fatto di essere esistito, e di aver combattuto quel progetto di asservimento, fu invece la sua gloria: perché non ci furono nel mondo molti altri tentativi altrettanto moderni ed espliciti.

- Gianfranco Sanguinetti - 15 giugno 2017  -

 

9 - GIANFRANCO 1970

NOTE:

[*1] - Cfr. la rivista «Internazionale Situazionista», n. 1, luglio 1969, Quando solo il meglio sarà sufficiente.

[*2] - Karl Wittfogel, Il Dispotismo Orientale, trad. italiana 1968, 1980.

[*3] - Cfr. il manifesto Benvenuti nella Città più libera del Mondo! Bologna, 23 settembre 1977, qui riprodotto.

[*4] - Maria Rita Prette (a cura di), Gli organismi legali -7 aprile (inchiesta giudiziaria contro l’Autonomia), in La mappa perduta, 1 (Progetto Memoria), 2ª ed., Dogliani, Sensibili alle foglie, novembre 2007, p. 265.

[*5] - http://www.corriere.it/cronache/11_settembre_11/franco-piperno-11-settembre-bellezza-sublime_1a76895e-dc82-11e0-a4d3-b67952ef5c68.shtml

[*6] - Per l’introduzione e diffusione dell’eroina in Italia negli anni ‘70, con lo scopo di distruggere la contestazione, cfr. Operazione Blue Moon  messa in opera dalla CIA.

[*7] - Censor, Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il Capitalismo in Italia, Scotti Camuzzi Editore, Milano, luglio 1975. Poi più volte riedito, sotto lo stesso titolo, dall’Editore Mursia. (Vedi riproduzione sopra).

[*8] - Paolo da Certaldo, Libro di Buoni Costumi, § 276, in Vittore Branca, Mercanti Scrittori, Milano, Rusconi 1986.
 
[*9]
- Gianfranco Sanguinetti, Prove dell’Inesistenza di Censor enunciate dal suo autore, Milano, gennaio 1976. (riprodotto sopra).

[*10] - Oltre al situazionista venezuelano Eduardo Rothe, parteciparono sul campo a questa meritoria operazione Cristina Sensenhauser, Puni Cesoni e Filippo Orsini. (Vedi immagini sopra).

[*11] - Unica eccezione al silenzio, fu il manifestino pubblicato a Milano nel gennaio 1970 dal gruppo libertario Ludd – Consigli proletari, intitolato Bombe Sangue Capitale.

[*12] - Cfr., fra altri, Gianni Barbacetto, Il Grande Vecchio.

[*13] - Cfr. «Le Monde», 24 febbraio 1976. (vedi immagine sopra).

[*14] - Cfr. al proposito i due seguenti testi: Gianfranco Sanguinetti, Paris 13.11: Morale Operation in Mediapart, 2.12.2015; e: Gianfranco Sanguinetti, De l’Utilité du Terrorisme/considérée par rapport à l’usage qu’on en fait, in Mediapart, 8.12.2015. Questi interventi sono stati poi tradotti e pubblicati diverse volte in inglese, italiano, portoghese, greco, ceco, etc.

[*15] - I due manifesti sono riprodotti sul sito http://www.nelvento.net/critica/avviso77.php e : http://www.nelvento.net/archivio/68/settesette/benvenuti.htm (vedi immagini sopra)

[*16] - Milano, marzo 1979, seconda edizione aumentata nell’aprile 1980.
 
[*17] - Questo archivio si trova ora presso l’Università di Yale, alla Beinecke Library, grazie al lavoro indefesso di Kevin Repp, che raccoglie e cura per questa biblioteca gli archivi delle avanguardie europee del dopoguerra: http://beinecke.library.yale.edu/about/news/beinecke-acquires-papers-key-figure-european-counterculture

[*18] - http://www.fondazionecipriani.it/Kronologia/Archivio.php?DAANNO=1977&AANNO=1978&id=&start=270 

[*19] - Ibidem.

[*20] - Cfr. Mio archivio presso la Beinecke Library, Yale: volume 33.

[*21] - Avviso al Protelariato sugli avvenimenti delle ultime ore. (Vedi immagine sopra).

[*22] - Cfr. Gianfranco Sanguinetti, Prefazione all’edizione francese nella seconda edizione di Del Terrorismo e dello Stato, Milano, Grenoble, Parigi, 1980.

[*23] - Cfr. Gianfranco Sanguinetti, Prefazione all’edizione francese nella seconda edizione di Del Terrorismo e dello Stato, Milano, e Du Terrorisme et de l’État, Grenoble, Parigi, 1980. Gli atti d’accusa originali sono nel mio archivio a Yale. (Vedi sopra il frontespizio di un pamphlet manoscritto inedito contro il magistrato Pier Luigi Vigna, da pubblicare in caso di un mio arresto, oggi nell’archivio a Yale).

[*24] - Prefazione all’edizione francese di Del Terrorismo… cit.

[*25] - Lo Stato italiano aveva promesso di risarcire le vittime delle stragi degli anni ’70 e ’80 con apposita legge, mai applicata, con la scusa che un simile risarcimento “costa troppo”. Questo rifiuto è stato rinnovato nel maggio di quest’anno 2017. I parenti delle vittime della strage di Piazza Fontana sono stati invece anche condannati a pagare le spese processuali.

[*26] - Field Manual 30-31, con le Appendici FM 30-31A e FM 30-31B, ora pubblicato in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, allegati alla relazione, volume VII, p. 319 e segg.

[*27] - Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, 1823.

10 - marchio tipografico


da “Il Piombo e le Rose. Utopia e Creatività nel Movimento 1977”,  Volume pubblicato da "Postcart", www.postcart.com , in occasione della mostra al Museo di Roma in Trastevere: "'77 una storia di quaranta anni fa nei lavori di Tano D'Amico e Pablo Exhaurren", Roma 23 settembre 2017 - 14 gennaio 2018 -



 


3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ah, grazie, davvero grazie. Quando leggo Sanguinetti mi sento come una pianta dopo che l'hanno innaffiata [cit.] Una delle grandi gioie della mia vita, almeno quella da bibliofilo, è stata trovare il rapporto veridico di Censor, purtroppo nell'edizione Mursia, nascosto fra gli scaffali della libreriaccia/rigatteria che frequento quasi quotidianamente, trovarlo quando morivo dalla voglia di leggerlo, e comprarlo pure per du' spicci.
Una domanda: le foto che possiamo vedere nel post fanno parte del catalogo (e quindi della mostra) o sono state aggiunte per l'occasione?
Michele

BlackBlog francosenia ha detto...


Le foto sono le stesse che corredano il testo come appare nel catalogo.
Qui sono solo state un po' "lavorate" di modo da poter risultare meglio leggibili.

Franco

Anonimo ha detto...

Grazie, gentilissimo.
M.