Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
- Siamo figli del dono e non del baratto -
- di Adriano Favole -
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato , Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono — che pur sorregge e struttura le relazioni sociali — è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss ( Saggio sul dono , Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» ( Il dono è il dramma , Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani , Einaudi, 1995). Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso — ed è un vecchio tema dell’antropologia economica — fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales ) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus , fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state , dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli. Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau . A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita . Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita », per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere. Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss — scrivono — è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale. In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber ( Il debito , Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
- Adriano Favole - Pubblicato sul Corriere la Lettura del 18/6/2017 -
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