sabato 7 ottobre 2017

Differenza, dissenso e dissidenza

Dissidenza

Il testo inedito di Robert Kurz, "Dissidenza pigra. Le caratteristiche della sindrome di opposizione distruttiva nella teoria critica", si basa su molti anni di esperienza passati insieme ad una "opposizione distruttiva" in contesti teorici di sinistra. Si tratta essenzialmente del fatto seguente: «Ogni posizione di teoria sociale critica contiene necessariamente delle contraddizioni interne non risolte e questioni lasciate aperte, essa rimane incompleta, e segnata nella sua formulazione dalle individualità non sempre nobili dei suoi autori. Nessun corpus di pubblicazioni teoriche, pertanto, in questo contesto comune può essere sottoscritto integralmente da tutti e da tutte fino all'ultimo dettaglio, per così dire, con il proprio sangue... Il dissenso può essere abbastanza redditizio, quando si verifica come cambiamento del percorso storico, nella situazione intellettuale della fine di un'epoca.» Come esempio viene citata la costituzione della vecchia critica del valore o la critica della dissociazione-valore. In questo caso, tuttavia, si corre il rischio di una forma di dissenso che è tutto meno che rivolta in avanti: «Si dovrebbe parlare, in questo senso, di un dissenso regressivo, che generalmente può essere definito anche come dissenso pigro; alludendo, ovviamente, al concetto hegeliano di "esistenza pigra". In particolare, qui si tratta non solo di un ruolo regressivo all'interno di una trasformazione teorica, ma anche di un impulso di auto-affermazione astratta distruttiva, o di un'opposizione vuota... a maggior ragione oggi, in tempi postmoderni, i cui abitanti si spaventano di fronte a qualsiasi definizione, quando sembra che essi abbiano aderito ad un gruppo teorico o politico». Vediamo ripetutamente che tematiche ampiamente lavorate - come, ad esempio, un riferimento critico all'illuminismo, il rifiuto di una comprensione della prassi in maniera problematicamente immediata e di un riferimento filosofico esistenziale a "la vita" (vedi sopra), la definizione della relazione di dissociazione sessuale come relazione equiparata al valore per quel che riguarda la determinazione della forma sociale, ecc. - che vengono discusse nel prossimo numero di "Exit!" vedono di nuove, proferite contro di esse, argomento che sono più che vecchi, come se si trattasse di qualcosa di "completamente nuovo". Questo è stancante e non porta lontano, tanto più che esistono alcuni testi nei quali queste posizioni sono già state lungamente ed ampiamente discusse e criticate. In questo contesto, Kurz critica anche una divagazione trasversale (e/o "queer") postmoderna, che propaga un pluralismo di opinioni astratte, senza riferimenti al contenuto. «I mescolatori di teorie ed i mediatori di teorie procedono come se il conflitto non risiedesse nella cosa in sé, ma solamente nell'unilateralità del pensiero dei protagonisti; finché gli amichevoli pensatori queer mostrano la via di mezzo d'oro, che, purtroppo, porta sempre solo alla derealizzazione postmoderna della cosa in sé» (Presentazione del testo su Exit! n° 14).

Dissidenza pigra
Le caratteristiche della sindrome di opposizione distruttiva nella teoria critica *
- di Robert Kurz -

* Differenza, dissenso e dissidenza * Pensare di per sé ingrassa * Libertà di critica * Kannitverstan [non capisco] * Scomodo è bello * Presente e contro * Eroicamente contro i divieti di pensare * Pensare trasversale (e/o queer) libera *

«D'altra parte, abbiamo visto ... la superficialità classificare la mancanza di idee come uno scetticismo prudente, e come una critica ragionevolmente modesta, e la sua arroganza e vanità aumentare nella stessa misura in cui aumentava il vuoto di idee.» (Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche).

Qualsiasi pretesa di spiegazione teorica delle circostanze e della loro storia è controversa. Ci sono sempre altre pretese concorrenti. Pertanto, si formano gruppi, movimenti e scuole che presenteranno i loro punti di vista e si impegneranno in discussioni. Noi non andremo, però, a parlare in primo luogo di condizionamento sociale e delle forme generali dello sviluppo di questi fatti, bensì di un'inversione delle relazioni che qui può essere osservata. E che non ci sono solo quelli che si oppongono e lottano per l'egemonia intellettuale in un determinato campo di riferimento delle posizioni in lotta, ma dentro ciascuno di questi cosiddetti contesti si formano ripetutamente anche dissonanze o contraddizioni e conflitti che da tutto questo ne risultano.
Al fenomeno di cui qui oggi si tratta, si fa comunemente riferimento come "dissidenza". Non è un caso che il termine abbia origine nella storia della chiesa. In un certo senso, la "eresia" può essere intesa come un sinonimo. Sono noti, ad esempio, i "dissidenti" in Inghilterra nel XVII secolo. A partire dal XIX secolo, sono stati considerati dissidenti quelli non appartenevano a nessuna comunità religiosa ufficialmente riconosciuta. Nella fase finale della guerra fredda, il termine si è gradualmente trasferito ai movimenti di opposizione negli Stati del blocco dell'Est ed ha acquisito un'aureola anti-comunista di pensiero liberale. Tuttavia, il termine è stato inflazionato, assumendo il significato sia di "critico del sistema" in senso lato dentro un ordine sociale o istituzionale (ivi inclusa la scienza), sia i "dissidenti" in generale dentro una varietà di contesti. In questo senso, la designazione appare anche in riferimento alle posizioni a sfondo politico o teorico della critica sociale di sinistra, che producono i loro propri "dissidenti".
Già nella storia della Chiesa, il significato peggiorativo di dissidenza era stato trasformato in senso eroico-enfatico ed aveva assunto, nel protestantesimo, l'aura di un semplice astratto "desiderio di libertà". A tal proposito, il termine in realtà appartiene alla storia della costituzione del capitalismo, e si riferisce alla qualitativa "forma vuota" dell'astrazione reale del lavoro e del valore, ossia, al carattere repressivo di questa cosiddetta libertà, come verrà mostrato in seguito. Ciò si può dire in special modo della dissidenza intellettuale e politica nel blocco dell'Est, che non ha sprecato un solo pensiero sulle contraddizioni insolubili di un programma di liberazione sociale proprio nelle forme statalizzate del feticcio del capitale, ma che si è mosso solo agitando bandiere per il concetto di libertà del radicalismo del mercato occidentale (e, in ultima analisi, del darwinismo sociale): il libero passaggio per i cittadini liberi!

Differenza, dissenso e dissidenza
Nel suo attuale significato, così come viene usato anche in quello dello spettro della critica del capitalismo che fa riferimento alla teoria di Marx nel senso più ampio, il concetti di dissidenza, tuttavia, dev'essere specificato sotto un certo aspetto: qui non si tratta, almeno non si tratta immediatamente, di una diserzione verso un altro campo, né si tratta necessariamente di raggruppamenti distinti all'interno di un contesto più ampio (come lo è il "marxismo" visto dall'esterno), ma si tratta semmai di una "opposizione interna" relativamente alle stesse posizioni strettamente determinate. In questo senso i dissidenti sono deviati che, dentro il contesto più o meno organizzato di un gruppo, corrente o scuola, entrano in conflitto con i loro propri punti di vista, e assai spesso pretendono di essere i "migliori rappresentanti" presumibilmente della stessa cosa, accusando i rappresentanti precedenti ed il consenso precedente di un'argomentazione deficitaria, di inesattezza, di dogmatismo, perfino forse anche di arroganza, di parzialità e così via.
Ora, del concetto di dissidenza fa parte il fatto che esso non può esistere a metà, così come avviene per la gravidanza. Implicitamente, all'inizio forse inconsciamente, essa deve in un certo qual modo puntare al tutto, cosa che si riflette rapidamente in una certa veemenza ed un certo indurimento del conflitto. Pertanto, la dissidenza dev'essere distinta da una semplice differenza e da un parziale dissenso. Le differenze possono, ad esempio, nascere solo dal fatto che la stessa cosa viene vista solo sotto differenti aspetti; certamente, anche per i modi di rappresentazione della cosa accentuata o colorata in maniera differente. Un dissenso, al contrario, esprime punti di vista ormai esplicitamente opposti, che tuttavia possono essere limitati a questioni secondarie e a problemi parziali o a nuovi questioni da risolvere, essendo quindi ancora risolvibili in un quadro comune. La dissidenza, al contrario, porta sempre alla rottura.
Ogni posizione di teoria sociale critica contiene necessariamente delle contraddizioni interne non risolte e questioni lasciate aperte, essa rimane incompleta, e segnata nella sua formulazione dalle individualità non sempre nobili dei suoi autori. Nessun corpus di pubblicazioni teoriche, pertanto, in questo contesto comune può essere sottoscritto integralmente da tutti e da tutte fino all'ultimo dettaglio, per così dire, con il proprio sangue. Ci sono sempre incertezze, momenti di attrito e obiezioni, che tuttavia non devono di per sé far saltare il consenso fondamentale, o portare alla cessazione della relazione.
Ma dipende, naturalmente, che ci sia quanto meno accordo sullo status delle differenze e dei momenti controversi. E nemmeno ogni differenza è un dissenso, perché l'enfasi dei momenti differenti della medesima cosa è qualcosa di diverso dei punti di vista che si escludono l'un l'altro a proposito di un determinato aspetto o di una questione parziale. E neppure ogni dissenso è una dissidenza, purché questo non riguardi il tutto, e possa pertanto muoversi ancora sul terreno di una posizione predominante. Ma qualsiasi dissenso può crescere fino alla dissidenza, quando viene caricato di conseguenza. Anche problemi apparentemente parziali o minori finiscono a volte per innescare in maniera inaspettata una vera e propria dissidenza.
La dissidenza può essere abbastanza pericolosa, quando avviene come cambiamento del percorso storico, nel luogo intellettuale della fine di un'epoca. Si tratta allora dell'elaborazione di nuovi problemi, il cui ambito inizialmente quasi mai è prevedibile. Ma quanto più il conflitto si sviluppa e produce la deviazione, tanto più chiaro diventa anche il fatto che si tratta della nascita di una nuova teoria a partire da quella vecchia, dalla trasformazione della cosa in sé. In questo senso, si dovrebbe parlare del carattere di trasformazione di tale dissidenza. In questo modo avevo assunto la costituzione della vecchia critica del valore, a partire dagli anni 1980, come un'elaborazione teorica dissidente che, con dispute e reiezioni violente, ha portato fuori dall'universo del comune pensiero marxista; ma non, però, come rottura con una teoria di Marx, bensì come continuazione del suo sviluppo immanente "con Marx oltre Marx". Allo stesso modo, la critica della dissociazione-valore è nata a partire da una dissidenza femminista sul terreno di questo nuovo pensiero appena embrionale, con cui anche essa ha fatto esplodere la sua costituzione androcentricamente universalista ancora irriflessa, e proprio nella dimensione della critica categoriale del contesto formale capitalistico solo a questo punto raggiunto. Solo allora si può parlare di una teoria realmente nuova, che dopo le sue doglie di parto può cominciare a sviluppare a tutti i livelli il programma da principio formulato sulla base della "totalità concreta".
Questo significa anche, naturalmente, che la dissidenza trasformativa non si costituisce arbitrariamente, in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo e solo soggettivamente. Non si può cambiare rotta in qualsiasi momento. Né esiste in maniera permanente una nuova fine di un'epoca sociale, né il corrispondente rivoluzionamento nella riflessione, nell'elaborazione di concetti e nell'analisi. Se dietro ogni angolo si nasconde una nuova dissidenza, se in tal caso le rotture diventano inflazionarie, ormai non ci può essere qui più nessuna forza trascendente. Una volta che la nuova teoria viene formulata in termini generali, deve prendersi tempo e fiato per poter affermare la propria validità. Tuttavia, questo è un impegno scomodo e faticoso, che assai spesso hanno l'effetto di rendere stanchi. Si sviluppa quindi possibilmente sul terreno della nuova teoria non ancora generalmente accettata una dissidenza di un altro tipo, che è più rivolta a frenare o a fare marcia indietro, e che si propone di introdurre clandestinamente sul terreno nuovi diversi elementi del vecchio. Si dovrebbe parlare, in questo senso, di un dissenso regressivo, che generalmente può essere definito anche come dissenso pigro; alludendo, ovviamente, al concetto hegeliano di "esistenza pigra". In particolare, qui si tratta non solo di un ruolo regressivo all'interno di una trasformazione teorica, ma anche di un impulso di auto-affermazione astratta distruttiva, o di un'opposizione vuota, che emerge ripetutamente nell'ambito di ciascun gruppo definito in termini di contenuto; a maggior ragione oggi, in tempi postmoderni, i cui abitanti si spaventano di fronte a qualsiasi definizione, quando sembra che essi abbiano aderito ad un gruppo teorico o politico. Ora si devono svelare più in dettaglio le caratteristiche di questa dissidenza pigra.

Pensare di per sé ingrassa
Di fronte alla dissidenza pigra sale inevitabilmente alla ribalta una determinata figura, vale a dire, quella del "pensatore autonomo". Al forma maschile non è stata scelta a caso, poiché il pensiero autonomo periodicamente presente a partire dal XIX secolo fa parte delle potenze dell'equipaggiamento androcentrico del soggetto, come fosse un determinato gesto che assai spesso va di pari passo con la presunzione, la boria infondata e gonfia di pretese falsamente antiautoritarie. Questa descrizione poco lusinghiera potrebbe sorprendere a prima vista, poiché il pensiero di per sé sembra implicare una pretesa emancipatrice: vale a dire l'autonomia dell'individuo che non ripete le cose a pappagallo senza pensare, né ingoia in maniera obbediente un insegnamento che gli viene indicata da un qualche grande pensatore, ma egli stesso dimostra e pensa tutto fino alla fine, fa uso della sua propria ragione ed è pronto a mettere in discussione i dogmi.
Fin qui tutto bene. Tuttavia, il pensiero autonomo ha le sue astuzie specifiche. In quanto la sua propria ragione, della quale pretende di fare un utilizzo fresco, devoto e allegramente libero, è qualcosa di estremamente ricca di presupposti, qualcosa di socio-storicamente costituito: la forma del pensiero costruita dal capitale. Chi pensa di aver a che fare con essa come si ha a che fare con un dono della natura si lascia ingannare dalla forma feticista e repressiva di questa sua propria ragione che canalizza il pensiero a priori. Quando non si riflette sul carattere sociale negativo delle strutture del pensiero ciecamente date, o non lo si fa a sufficienza, il pensiero apparentemente spensierato e formalmente autonomo di questa forma di ragione non ha in sé niente di emancipatore, al contrario, il famoso pensatore autonomo diventa una centrifuga di ideologie che impesta il suo ambiente intellettuale.
L'ambiguità dell'appello a pensare di per sé è esistita già fin dai primordi della sua rispettiva retorica del XVIII secolo. Il famoso postulato di Kant, eternamente recitato con riverenza dai democratici poco illuminati, ma non dice, in un'analisi più dettagliata, quel che ciascuno può pensare riguardo quello che la "ragione" dell'ordine dominante esige da lui. Solo per questo l'enfasi poliziesca dovrebbe essere superflua, in quanto gli individui (in Kant, esclusivamente i cittadini proprietari di sesso maschile) già vedono di per sé, attraverso il pensiero autonomo, semplicemente per la capacità stessa di pensare, che tutto va bene così com'è, perché va anche d'accordo con il suo proprio sforzo razionale soggettivo. Tuttavia, viene ancora qui posto un puro "dovere", perché naturalmente l'autorità deve intervenire se la ragione soggettiva va fuori strada.
Hegel, poi, è già al di là del pathos del pensiero autonomo; per lui lo spirito del mondo fa in ogni modo il suo percorso ed il pensiero soggettivo non è nulla se non è conforma con esso. Si tratta solo di rendere cosciente la ragione universale oggettiva del tutto. Ciò richiede uno sforzo di pensiero che si conformi con l'oggettività, mentre il postulato astratto del pensiero autonomo rimane esterno alla cosa. Hegel si diverte con questo: «Si può sentire molte volte l'espressione pensiero autonomo, come se con essa stesse dicendo qualcosa di importante. In realtà, nessuno può pensare per un altro; questa espressione è, perciò, un pleonasmo» (Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, Vol.I, p.80).
Questa presa in giro colpisce il bersaglio, per quanto molto poco l'idealismo oggettivista di Hegel debba per questo essere accettato. In realtà, il postulato astratto del pensiero autonomo è del tutto vuoto. Dal momento che tutti gli individui possono soltanto pensare sempre per sé, anche se ripetono dei dogmi, se dicono sciocchezze o scioccanti pensieri ideologici assassini, tutto dipende puramente e semplicemente dal fatto che essi "pensano per sé stessi", vale a dire, dal contenuto. Se per Hegel il criterio era la ragione universale oggettiva del "soggetto automatico", per la critica radicale è, esattamente al contrario, la negazione dell'oggettivazione dominante, della sua forma reale di esistenza e di ragione, pertanto anche della forma di pensiero. Già al tempo di Hegel, tuttavia, il pathos del pensiero autonomo si era liberato da tutti i criteri di contenuto ed era diventato un mero atteggiamento di falsa autonomia (la più ridicola e simultaneamente la pià pretenziosa, in Max Stirner). È vero che Marx ha scritto nella prefazione del primo volume del Capitale: «Naturalmente, presumo lettori che vogliono apprendere qualcosa di nuovo ed anche, pertanto, pensare per sé stessi» (MEW 23, p 12). Tuttavia, la prima parte di questa frase viene dimenticata dai pensatori indipendenti forzatamente autonomi; il suo pensare per sé stessi consiste proprio nel non voler imparare niente di nuovo, ma sorseggiare esclusivamente a partire dalle profondità del loro proprio pensiero spontaneo associativo.
A partire da allora, il belato del pensare per sé stessi suppostamente autonomo emerge periodicamente nelle correnti di moda dello spirito del tempo, per poi alla fine stabilirsi nel non-intelletto postmoderno, dissociandosi da qualsiasi criterio di contenuto. Pensare per sé, non importa che cosa, viene considerato come un valore in sé stesso. Ogni scuola di pensiero è così abbastanza infestata dall'attuale inflazione di pseudo-autonomia di pensatori per sé stessi e, nella forma della comunità in rete, corre il rischio di paralizzare qualsiasi pensare dotato di contenuto in generale, per mezzo dello scaracchio digitale del pensiero per sé stesso a livello mondiale. Gli ideologhi di questa inondazione di muco non sanno quanto abbiano ragione, quando pretendono di riconoscere in questo la democratizzazione finale del pensiero.
Quando un pensatore autonomo dichiara erronea la critica della dissociazione-valore, si potrebbe pensare ingenuamente che egli abbia pensato a qualcosa, essendo una simile conclusione il risultato di uno sforzo di comprensione. Ma per il pensatore autonomo è indifferente dove arriva. Ogni posizione è solo una fase della transizione verso il nulla, e comunque verso il niente, in quanto tema e punto di repulsione per il suo mutevole pensare a caso, se è quello che ancora può essere definito questo pensare. Egli viene colto da terrore davanti a qualsiasi elaborazione teorica seria. Lui considera come l'enorme capacità di critica non possa ottenere niente. Il pensatore autonomo non pensa mai che lui possa avere immaginato una cosa ed abbia di conseguenza riflesso su tale cosa in maniera fondamentale; tutto questo sotto la costante possibilità che gli possa accadere eventualmente qualcosa di completamente diverso, di inaudito, che forse avrebbe potuto rubare qualcosa dalla letteratura, nel caso che lui ancora legga. Simultaneamente, è anche fermamente convinto che nessuno possa minimamente dimostrargli qualsiasi cosa, perché egli crede solo realmente nei prodotti della sua propria testa. Perciò non può neanche, naturalmente, difendere con convinzione il suo attuale stato di pensiero, poiché non si sa mai che cosa lui potrebbe pensare in seguito.

Libertà di critica
«Sire, concedetemi la libertà di pensiero» (Schiller, Don Carlos).
Prima che il pensatore autonomo mentalmente grasso diventi un dissidente pigro, per prima cosa esige semplicemente la libertà, esige di poter dire sempre a voce alta quello che avviene nel suo pensare per sé stesso. Questo è un grido di guerra che suona sempre bene e che eleva la mente: libertà di critica, libertà di pensiero, "libertà di opinione" semplicemente. Solo che non è davvero su questo che una critica si basa, si formula e si impone, o che sia mai avvenuto si basasse su questo una posizione specifica di pensiero filosofico e politico in generale (parlando in termini convenzionali. La teoria critica di Marx non era frutto dell'esigenza della libertà di critica. La vecchia critica del valore non nasceva dal pretendere libertà di critica al marxismo precedente, né la teoria critica della dissociazione-valore dall'insistere sulla libertà di opinione nel quadro della precedente critica del valore. Al contrario si è sempre trattato, da un lato, di sviluppi storico-sociali concreti e, dall'altro lato, di polemica con posizioni teoriche riconosciute come carenti o obsolete che venivano sfidate per mezzo dello sviluppo dei contenuti. All'inizio di ogni vera critica c'è il suo contenuto specifico, non la sua forma astratta in quanto critica in generale, o la vuota virtualità di una critica irreale ed indeterminata, che non riesce ad arrivare, ma questo vuoto, prima di qualsiasi contenuto ed indipendentemente da esso, pretende di essere elaborato. In sostanza, l'esigenza della libertà di critica, di pensiero, di opinione senza contenuto, astratta, è un po' come un berretto. Qualsiasi cosa può andare bene o non andare bene, per essa.
Ora, si può immaginare facilmente come un simile slogan possa sorgere in relazioni che non ammettono la critica in maniera puramente esteriore, in quanto possono essere perseguitate violentemente, represse amministrativamente o censurate burocraticamente, tutte quelle espressioni o pubblicazioni non gradite. In seguito, nella democrazia sviluppata, con una formale libertà di opinione generalizzata, si ha l'auto-censura più o meno cosciente, con l'obiettivo della carriera, del posto di lavoro, o del reddito, la benevolenza dei superiori degli opinion leader, la dottrina predominante, ecc., che possono mettere fine al pensiero critico ed alla sua pubblicazione, altrettanto o meglio ancora di quanto riescano a fare gli interventi amministrativi.
Tuttavia, rimane una curiosità quello che dice riguardo l'esigenza di libertà astratta della critica e del pensiero in generale. Sembra come se fosse stato dimenticato quello che si pretendeva realmente di criticare o di difendere in termini di contenuto, o che si potrebbe cercare di pensare, nel caso si potesse o se ne avesse il coraggio. Questa demenza della critica manca di una spiegazione. Quello che viene represso o che non è permesso dentro la propria testa non deve esistere, oggetto del problema dev'essere apertamente dichiarato solo il vuoto intellettuale. Questo significa esigere la libertà per poi non dover pensare più niente. E forse perfino con fervore democratico e con pathos arci-liberale.
L'enigma si risolve forse se esaminiamo l'unità degli opposti su questa materia. Storicamente, è stata la censura assolutista del XVIII e XIX secolo che ha spinto il credo liberale alla libertà di pensiero. È proprio nel vuoto di questo slogan che risiede anche la comunione con l'oggetto della sua critica. All'inizio tale relazione è stata oscurata dal fatto che il liberalismo classico fosse rigorosamente antidemocratico. L'appello alla libertà di pensiero costituiva solo un'idealizzazione dell'appello alla libertà di concorrenza sul mercato, nello specifico per i cittadini proprietari, in quanto che, per il materiale umano del nascente sistema del "lavoro astratto" e della valorizzazione del valore, anche da parte dei liberali non era prevista una minore libertà di critica, ma unicamente ed esclusivamente lo sfollagente della polizia. In questo fino ad oggi non è cambiato niente, come si sa, quando si tratta di leggi e di limiti del sistema capitalista. Situazione che, tuttavia, ha fatto sì che il soggetto di questa organizzazione, che vede sé stesso affermativo, cominciasse da parte sua a reclamare in maniera quasi idiota la libertà ideale di pensiero, di opinione, ecc., e anche prontamente dimenticasse che in fondo avrebbe potuto pensare e volere, se gli fosse stato permesso "liberamente" di pensare e volere qualcosa di determinato.
Solo la democrazia ha risolto progressivamente la contraddizione, nella misura in cui ha gentilmente assicurato a tutti la libertà di pensiero, di opinione e perfino di critica, nel presupposto che tutti senza eccezione avevano dimenticato di pensare a qualcosa che non si trova in accordo con la sollecita concordanza con il mondo fondato dal sistema capitalista. La grande coalizione dei premurosi può pensare quello che vuole, finché è conforme alla valorizzazione. In questo si riflette idealmente la libertà di consumo, ossia, si può consumare qualsiasi prodotto si voglia, purché si tratti di una merce e a condizione che la persona possa pagare. Questo naturalmente vale anche per la libertà di produrre, vale a dire, poter produrre qualsiasi merce si voglia, che si tratti di mine anti-uomo o di derivati finanziari tossici, purché si abbiano i mezzi di produzione e a condizione che la produzione sia redditizia.
La libertà di pensare, di produrre e di consumare include quindi, da un lato, un'arbitrarietà assoluta, poiché è assolutamente indifferente quel che si pensa, produce o consuma. Quanto al contenuto, ancora una volta, non ha nessuna importanza. Riguardo a questo, la libertà, il pensiero, l'opinione e la critica sono qualitativamente vuoti; oppure il loro contenuto è casuale, esteriore ed insignificante nel vero senso della parola. Dall'altro lato, la stessa libertà astratta contiene una limitazione ed una esclusione spietata. La sua forma sociale non è in alcun modo arbitraria, ma viene fissata in maniera del tutto unidimensionale; essa definisce tutte le relazioni, perché, come ha detto Marx giustamente, essa è simultaneamente forma di esistenza e forma di pensiero, in questo modo di produzione e di vita. Di fronte ad essa non è permessa nemmeno una scintilla di critica. Chi la viola viene fermato; chi la mette in discussione viene dichiarato matto. È permesso quasi tutto, proprio perché una cosa non è permessa, vale a dire, rompere la "gabbia della schiavitù" (Max Weber), la forma ferrea di quel che è consentito. L'arbitrarietà del contenuto delle relazioni di merci e di denaro costituisce una relazione coercitiva senza uguali. È questo il segreto di tutta la democrazia e di tutta la libertà della modernità.
Già nel XIX secolo, nel suo studio sulla Rivoluzione francese, Tocqueville aveva scoperto una certa identità fra la Rivoluzione francese e l'Ancien Regime, anche se solo in termini istituzionali; la rivoluzione aveva ereditato dall'assolutismo l'apparato dello Stato burocratico dell'amministrazione delle persone e lo aveva assunto senza difficoltà. E questo dispositivo è stato ampliato e nelle democrazie del XX secolo è diventato molto più rigoroso. Non è per caso che nel XXI secolo si rivela come un'amministrazione di crisi brutalmente anti-sociale. Colui che è soggiogato e perseguitato viene ora chiamato "cliente".
È esattamente in questo senso che dev'essere intesa anche l'identità interna fra censura e libertà di pensiero. La censura è stata solamente l'esercizio forzato di dimenticare il pensiero, la libertà di pensiero è il libero esercizio di tale oblio - detto con franchezza, il diritto all'oblio. La cosa principale è che il contenuto non importa; ed una volta raggiunto questo stato, la censura diventa finalmente superflua. Se ormai non si riesce a pensare se non nel vuoto qualitativo della forma feticista, in cui qualsiasi contenuto diventa grigio, per cui alla fine non c'è nemmeno bisogno di una "tonsura sulla testa". L'essere umano della postmodernità. individualizzato, flessibilizzato, responsabile solamente della sua capacità di valorizzazione è lo zombie definitivo della libertà di pensiero.
Da tutto questo si può trarre una duplice conclusione. Da una parte, alla libertà quasi illimitata per quel che riguarda l'arbitrarietà del contenuto deve corrispondere, inversamente, la totale mancanza di libertà per quel che riguarda la forma. Dall'altro lato, tuttavia, il liberarsi di questa forma repressiva significa logicamente, allo stesso tempo, che il contenuto non può più essere arbitrario. Così, la libertà di pensare, produrre e consumare finisce nel senso preciso per cui qualsiasi pensare, produrre e consumare dev'essere giustificato e responsabilizzato in termini di contenuto. Poiché ora quel che è decisivo è il contenuto e non una forma coercitiva generale e astratta. Si tratta di verità concreta e di necessità concreta, e non della capacità della valorizzazione della "ricchezza astratta".
Trasferiamo ora il problema nella circostanza di una relazione di critica radicale della forma capitalistica stessa. È chiaro che non si può escludere che anche qui, condizionata dalla forma capitalista del soggetto non superata (neppure in via sperimentale, in miniatura, come terapia occupazionale), si crei un'atmosfera in cui il pensiero viene gettato nel dimenticatoio, e si solidifica un consenso superficiale in sé che la necessaria incompletezza dell'elaborazione teorica smette di essere vista. La nuova teoria avrebbe dovuto invecchiare e paralizzarsi, invece di svilupparsi. Contro una simile incrostazione, tuttavia, fedele alla critica della forma repressiva del pensiero borghese, si può solamente far valere un determinato contenuto teorico nel senso della continuazione dello sviluppo. Ma se invece di questo nasce semplicemente l'esigenza senza contenuto della libertà astratta di opinione e della libertà astratta della critica, ciò significa solo la ricaduta acritica nella forma democratica vuota e ottusa.
È proprio questa tendenza alla riluttanza e al sentimento di avversione nei confronti della cosa che rimane occultata in termini di contenuto, chiusa nello pseudo-contenuto di un vuoto desiderio di libertà di opinione, che rivela il carattere di un'imminente dissidenza ridotta o pigra. Non si tratta dell'apertura di pensiero verso un avanzamento su un terreno sconosciuto, ma l'apertura di una porta sul retro per tornare di nuovo al vecchio modo di pensare, all'inizio riconosciuto come obsoleto e anacronistico, nella sua "forma di pensiero oggettivo" o nella "gabbia della schiavitù". Si vorrebbe ottenere la libertà di pensiero per fuggire dalla posizione esposta, vulnerabile e costantemente attaccata, del nuovo pensiero ancora incerto, per riuscire ad avere in un certo qual modo nuovamente pace e tranquillità.
Non essendoci di fatto nessuna restrizione al pensare esteriore, formale, amministrativo, sulla base della pura forza e della violenza, ma solamente alla determinazione del contenuto di una posizione teorica in generale, cui si è aderito realmente a partire dalla propria intelligenza, allora il vuoto slogan della libertà di opinione nell'ambito di questa posizione unica punta anche solo all'auto-contraddizione del soggetto che ragiona in modo che gli piacerebbe di nuovo allontanarsi dal suo punto di vista, senza volere però dare a questa sua esistenza il contenuto di una visione contraria.
In principio, è proprio il soggetto postmoderno in disintegrazione ad essere spaventato di fronte a qualsiasi punto di vista in quanto tale. Semplicemente annusa che si è compromesso in qualche modo con un punto di vista maledetto, perché sperimenta qualsiasi determinazione come se fosse un'oppressione del suo diritto innato alla libera scelta. Gli si pone sempre la questione: Perché mi trovo qui, e non in un altro posto? Perché dev'essere la posizione della critica della dissociazione-valore, dal momento che io invece potrei altrettanto bene insieme alla "Nuova Lettura di Marx" o ai monarchici della Baviera? Tuttavia, c'è logicamente da ripetere sempre il medesimo gioco. In tempi postmoderni, la libertà di pensiero ormai è solo una macchina per la fuga, che se è necessario dev'essere chiesta impugnando una pistola, per poter sfuggire alle imposizioni del pensiero in quanto tale.

Kannitverstan [Non capisco]
Se il disagio consiste nel dover pensare qualcosa di particolare, o dover impegnarsi in un punto di vista, non si arriva velocemente ad un contenuto critico. Il problema si complica se una persona, pervenuta ad un altro punto di vista, semplicemente non capisce la cosa, gli argomenti, il contesto di riflessione. Potrebbe allora essere carino vedere che non si comprende il proprio stesso punto di vista, e che questa è una scoperta significativa. La prima libertà di pensiero ormai consiste nel non dovere più capire niente. Può darsi che questo sia anche un dovere civico.
Ora, il problema della mancanza di "comprensione", non è per niente qualcosa di speciale. Potrebbe consistere, per esempio, nel fatto che non si è più abituati al pensiero teorico, cosicché sfuggono certi significati, alcuni presupposti o conclusioni. Oppure il testo teorico è stato formulato in maniera oscura; forse perfino intenzionalmente. Chiunque affermi di aver compreso Hegel alla prima lettura sta mentendo, per quanto esperto sia in filosofia. A volte un testo può essere ambiguo, senza che venga immediatamente riconosciuto come tale. Avviene spesso che in un contesto ci siano delle argomentazioni contraddittorie, errori o conseguenze non rilevate. A volte è proprio l'autore, o l'autrice, che verrà frainteso sotto certi aspetti. In sé, tutto questo non desta preoccupazione. Se non si capisce qualcosa, si può chiedere, consultare, leggere di più, cercare di capire la cosa, risolvere il problema e capire perché non si è capito.
Ma non è esattamente questo, la soluzione, a costituire necessariamente l'obiettivo, quando il non capire niente - per così dire professionalmente e passo dopo passo - diventa abitudine o sport. Qui, tuttavia, quel che si fa nuovamente notare è una differenza di genere. A causa della sua socializzazione, la donna è più incline a credere nella propria incapacità di riflessione concettuale, cosa di cui è stata convinta fin dall'infanzia. Perciò la donna è frequentemente disposta a considerarsi limitata, quando in realtà non capisce qualcosa nel semplice senso della parola. Il risultato può essere la frettolosa rassegnazione o la crescente subordinazione ai presunti grandi conoscitori del mondo. Al contrario, gli uomini si considerano come degli essere che per natura capiscono tutto sempre meglio. Quando non capiscono qualcosa, realmente o apparentemente, questo qualcosa deve per forza essere sbagliato o pessimo. La mancanza di comprensione è accompagnata pertanto da un sorriso condiscendente, ancor prima dell'eventuale chiarificazione. È ovvio che, nei casi individuali, gli uomini possono non capire in maniera remissiva e le donne possono cadere nell'attitudine aggressiva dell'incomprensione. Ma di solito si verifica il luogo comune legato al genere.
Il modo maschile di incomprensione diviene per così dire un'arma nella lotta per l'auto-affermazione e la distinzione teorica. Non c'è solo l'arroganza del sapere, ma anche l'arroganza del non capire. Non capire qualcosa diventa un argomento gonfiato. Lui non ha capito! Non è adorabile? Non dovremmo forse strisciare nella polvere di fronte ad una simile incomprensione penetrante che costituisce il suo stesso indicatore del campo in cui pretende di vincere? Non si dovrebbe allora ripensare nuovamente tutto, tremanti ed esitanti, e scartare tutto quello che lui non ha capito? È dalla sua comprensione che dipende il nostro destini, nel bene e nel male. Perciò, il principale dovere di tutti gli esponenti della posizione teorica è rivoltare la cosa in modo che in qualche maniera egli si degni di comprenderla. Solo allora potremo nuovamente dormire. Naturalmente ci si potrebbe chiedere perché mai qualcuno partecipi ad un gruppo, o ad una scuola di teoria, di cui non ha compreso il contenuto essenziale. Forse aveva anche scoperto che in realtà non vuole rimanere d'accordo con questi contenuti e che si era unito frettolosamente al contesto corrispondente. Quindi potrebbe essere stato tutto un malinteso da parte sua. Ma inoltre, in ogni caso, anche non dev'essere così. Il quanto il signore della magnificenza non può ingannarsi, gli è che semplicemente non gli stato spiegato l'assunto in modo nel modo in cui egli avrebbe voluto. L'equivoco dev'essere dal lato del relatore. Può succedere che, con un gesto magnanimo, viene dato al problema una forma di sviluppo pur non capendo niente, e mettendo così gli altri nella posizione di trovarsi in debito. Il non comprendere del maestro è la scuola della dissidenza pigra.
Colui che non capisce, ed è virtualmente dissidente, può anche segnare del punti facendo l'avvocato difensore di un'incomprensione più generale. Ora, la questione è anche quella che non c'è nessuno al mondo che sia capace di comprendere la critica radicale della dissociazione-valore. Perciò ci deve essere qualcosa di sbagliato con tutta la teoria e con la sua pretesa, se neppure mia nonna, o il mio vicino, o mio fratello chiacchierando riesce a capire una parola di tutto questo. I sostenitori della comprensione lenta, per non parlare del sano sentimento popolare, possono entrare a far parte della corte della dissidenza, senza dover rivendicare altro se non la grande questione della comprensione che riguarda l'esigenza dell'immediatezza di quel che appare ovvio. Se si deve solo usare la testa per penetrare i segreti della sua propria esistenza, questo viene sentito come una grave lacuna della posizione teorica. Preferire usare i nervi degli altri invece del cervello, è un diritto fondamentale nel quadro del diritto democratico di non capire.

Scomodo è bello
Non si vuole essere coinvolti in niente, quindi, ma si pretende di essere "scomodi" per principio; una non-parola tipica dell'operazione postmoderna. Chi pensa per sé balbettando da solo, ama assumere la posa di chi è scomodo, nel suo aggressivo non capire. Il cosiddetto "scomodo" è una figura particolarmente strana in questa farsa del discorso. È parte del cerimoniale evidenziare sempre quanto sia piacevole andare incontro al pensiero scomodo, perché così vengono liberati i punti di vista prigionieri. Ancora una volta, tutto questo non ha niente a che vedere con i contenuti specifici della critica, bensì con una semplice attitudine cui non a caso viene assegnata una concezione imprecisa. "Comodo" (perciò in qualche modo cattivo o deficiente, in quanto sospetto di "seguire ciecamente") sarebbe, secondo questa dizione, difendere realmente il contenuto della posizione assunta basandosi sugli argomenti. Per cui, non ci stiamo. Al contrario, è proprio dell'essere scomodo il distruggere palesemente il contenuto sviluppato, attaccandolo con problematiche infantili, far credere quello che è completamente differente ed unire intorno a sé tutti quanti, persino coloro che non sanno esattamente di cosa si tratti, né ciò che vogliono.
È a partire dalle regole del gioco di "essere scomodo" che la cosa in cui piace essere in qualche modo scomodo deve restare in sospeso, ma deve irradiare un'aura di grande importanza. Ecco qui una testa critica! Ed è talmente critico che neppure lui riesce a dire quanto sia critico. È preoccupato solo di una cosa, solo che non sa quale sia. Non è un difetto, ma piuttosto un prerequisito per poter aver successo in quanto scomodo. Egli domina l'arte di dare l'impressione di poter sperimentare in qualsiasi momento un concetto completamente nuovo, basta che lo voglia. Ma lo vuole meno di prima, poiché i colleghi purtroppo potrebbero avere difficoltà a seguirlo nel caso gli capitasse qualcosa. Ma lui continua ad essere scomodo, di questo possiamo stare sicuri.
Essere scomodo è altrettanto vuoto di quanto lo sono tutti gli altri momenti e tutte le manifestazioni della dissidenza pigra. Il presunto contro-pensatore che incuba in uno stato di sospensione diventa scomodo proprio per il fatto che egli stesso ancora non sa esattamente in che modo entrerà nel percorso dell'opposizione interna, ma lo farà sempre dandosi letteralmente il tono di chi risponde alla grande domanda, che in lui funziona come il suo apparato digestivo. Egli pensa oltre, prima ancora di immaginare l'oltre, e, quindi, non può più pensare,ma può solo migliorare il possibile discorso funebre per il seppellimento dei fondamenti teorici, anche se non se la cava troppo bene con questo. Ma è orgoglioso dell'intenzione.

Presente e contro
Arriviamo, così, ad una relazione di base peculiare del raggruppamento o della posizione teorica o politica nel cui quadro si è costruita la dissidenza pigra. Non si tratta qui di un chiaro conflitto di contenuti - a cui si arriva solo tardi, o mai (l'inevitabile separazione viene allora dichiarata di buon grado, essendo stata causata in maniera "puramente personale")- ma di una divergenza latente, o di risentimento bruciante. L'avvelenamento dell'atmosfera è assai spesso costruito solo su dei presupposti a partire dai quali alcuni si uniscono formalmente o informalmente alla posizione del contenuto. Questo passo dovrebbe essere il risultato di un chiarimento teorico e, come tale, senza riserve. Con questo non è escluso , in linea di principio, che nel discorso del successivo sviluppo teorico sorgano nuove controversie riguardo nuovi argomenti; ma questo non può essere anticipato già in maniera conforme alla ricezione positiva e all'adesione. Questo sarebbe come farsi rilasciare un certificato di divorzio insieme alla licenza di matrimonio. È proprio quest'assurdità che si può verificare quando le persone si pongono rispetto ad una posizione, avendo già delle riserve non definite, non dichiarate, in termini di contenuto. Il che, naturalmente, significa solo che non c'è stato nessun vero chiarimento teorico precedente (anche semplicemente volubile). Rimane sempre una sorta di riserva mentale di fronte ai contenuti teorici ai quali si è aderito in maniera superficiale che ancora non si sa come si esprimeranno, e che fa di loro dei portatori, per così dire "dormienti", di dissidenza pigra.
Questo atteggiamento particolare è in rapporto, o si legittima, con una vecchissima sindrome intellettuale, nota fin dall'antichità, lo scetticismo. La riserva qui non è una riserva che si lega a momenti ancora poco chiari, a carenze, possibili o anche solo presunte, della teoria, ma si tratta di una riserva tanto fondamentale quanto astratta e vuota: un riflesso ideologico della "forma vuota" qualitativa, nelle condizioni moderne. Ora, naturalmente, non è certo meglio ingoiare semplicemente dei contenuti teorici non verificati e senza un proprio processo di trattamento e di chiarimento mentale, per esempio, solo perché si ha fiducia nell'autorità, o perché si cerca una "patria" ideale con cui una persona si possa identificare. Ma lo scetticismo è solo il rovescio di un'unica medaglia, quella per così dire della servitù spirituale al rovescio. Di cosa sarebbe l'esatto contrario? Di un approccio teoricamente produttivo?

Com'è noto, è stato proprio Marx ad avere assunto come motto quello che afferma che si deve dubitare di tutto (de omnibus dubitandum). Appunto, poiché questo motto che lui prendeva molto sul serio in nessun modo gli ha impedito di enunciare le opinioni più determinate, né di mettere in piedi una controversia in cui pretendeva di dire la verità. Come funziona tutto questo? Marx aveva chiaramente assunto il dubbio come mezzo di conoscenza. In tal senso, il dubbio non significa assumere e celebrare un atteggiamento passivo che si oppone esternamente alla conoscenza, bensì dubitare significa invece cercare attivamente, indagare, elaborare letteratura controversa, esaminare e riesaminare, per poi arrivare alla fine ad un risultato inconfutabile, non facilmente scardinabile, che possa spiegare le cose in forma superiore. Il dubbio, pertanto, non è assoluto, ma anche del dubbio bisogna dubitare, quando esso pretende di spalancare un abisso metodologico senza fondo che non consente alcuna relazione con la cosa determinata, con l'oggetto della conoscenza.
È proprio questa assolutizzazione del dubbio che ne costituisce la sua involontaria auto-smentita, perché in questo modo esso diventa semplicemente la verità, e di fatto una verità senza oggetto. Così come la forma valore del capitale tenta di scacciare da sé qualsiasi contenuto materiale-sensibile e sociale, in quanto in ultima analisi falso, e perché non corrisponde al vuoto qualitativo dell'astrazione lavoro, così anche lo scetticismo tenta di scacciare qualsiasi oggetto della conoscenza come irrilevante, poiché è sempre esposto al vuoto formale del dubbio. Su basi socio-storiche completamente differenti, lo scetticismo pirroniano dell'antichità non veniva inteso come un mezzo di produzione di conoscenza, ma come una negazione della possibilità della conoscenza in generale. Il suo carattere sofistico era evidente. Lo scetticismo è fondamentalmente ostile alla conoscenza e, pertanto, ostile alla teoria, contrapponendosi al fatto che una posizione di contenuto possa essere difesa. Sulla strada dei sofisti, la teoria deve funzionare solamente in maniera pragmatica, libera dalla conoscenza, per poter continuare la lotta per la vita, dove si possono cambiare le determinazioni di contenuto allo stesso modo in cui si cambia camicia, dal momento che sono sempre fatte salve dalla loro, in ultima analisi, inconoscibilità, e quindi falsità.
Non stupisce che i filosofemi dell'antichità tardiva, dello stoicismo e dello scetticismo assoluto, godano di una calorosa accoglienza da parte dell'ideologia postmoderna che li ha trapiantati a forza nel terreno del capitalismo di crisi economicamente virtualizzato. Si tratta di una strategia di immunizzazione per mezzo della quale il soggetto della disintegrazione postmoderna vorrebbe eludere l'esame delle sue condizioni di esistenza che diventano sempre più fragili e si disintegrano. Il dubbio formalmente assolutizzato diventa un mezzo di rimozione della realtà. Anche guardarsi allo specchio può cadere nello scetticismo se anche l'indicibilità osservata può avere solo il minimo valore epistemico. Porre il dubbio assoluto diventa così lo standard della legittimazione di chi non deve coinvolgersi in niente; nemmeno con sé stesso.
La teoria della critica della dissociazione-valore è sotto tutti gli aspetti un'opposizione ostile a quest'ideologizzazione del dubbio. Dal momento che questo, tuttavia, generalmente costituisce meno posizione di ostilità filosoficamente riflessa, cosciente dei suoi presupposti, nei confronti della conoscenza, essendo, al contrario, più un'attitudine della vita quotidiana socializzata in funzione postmoderna, e dal momento che la nostra critica categoriale non può che agire altro che sulla socializzazione della dissociazione-valore, sorge inevitabilmente lo scetticismo come riserva "personale" indeterminata, anche in questo contesto teorico realmente incompatibile, come potenziale di dissidenza pigra. L'affinità con i contenuto si smentisce per mezzo della sua stessa negazione a priori, nel senso dell'impossibilità di una conoscenza reale. Il fatto che qui venga rappresentato qualcosa con così tanta certezza appare, indipendentemente dall'oggetto, come una presunzione che dev'essere in qualche modo affrontata sul suo stesso terreno. Quindi avviene che si fanno notare delle persone, in varie costellazioni, che non sono riuscite a partecipare alla cosa e a promuoverla, ma hanno trovato qualcosa che possono promuovere contro di essa; non fosse altro che come riduzione della pretesa di una conoscenza in generale. Più precisamente: loro sono qui solo virtualmente (ed in qualche modo chiaramente) nel modo contro cui si pongono; oppure, esprimono la loro opposizione a quella presunta arroganza della conoscenza teorica nel modo in cui essi, solo per questo, stanno.

Eroicamente contro i divieti di pensare
È ovvio che il contenuto finisce per non poter smettere di assumere in maniera più o meno inconfessata la volontà di una dissidenza pigra. La tappa successiva di questo processo la si raggiunge quando sorge il termine "divieto di pensare". Certe cose - si dice allora con tono di rimprovero -, dette al fine di criticare certe cose in questo contesto, in questo gruppo o scuola, non andrebbero dette. Ci sarebbe, pertanto, il divieto di pensare, e contro questo bisognerebbe difendersi. Ma non si tratta di questioni aperte che possono essere identificate sul terreno della posizione teorica, ma piuttosto nella realtà di questa stessa posizione, o della sua essenzialità. La conversazione sul divieto di pensare si riferisce quindi al consenso realmente presupposto, che non è caduto dal cielo, ma è il risultato di una lunga storia di elaborazione teorica e di polemiche.
Non occorre fare riferimento ad una posizione di critica radicale per accusare il costrutto del divieto di pensare in questo senso di mancanza di logica, ma questo può essere dimostrato in qualsiasi unione di contenuto. Nella socialdemocrazia non va detto niente contro la democrazia, fra i cristiani, niente contro Gesù e fra gli allevatori di conigli, niente contro il coniglio stesso. Perché dovrebbe esistere la proibizione di pensare? Chiunque critica la relazione democratica coercitiva può lasciar perdere la socialdemocrazia; chiunque abbia qualcosa contro Gesù non dev'essere cristiano; e chi considera l'allevamento dei conigli il secondo maggior errore dell'umanità non è costretto a far parte di un'associazione di allevatori di conigli. Chiunque si lamenta nel contesto della critica della dissociazione-valore del fatto che non si può dire niente contro la critica della dissociazione-valore in tale contesto, è semplicemente salito sulla barca sbagliata. Lamentarsi in tal senso del divieto di pensare, non è altro che suggerire indirettamente a questa posizione l'auto-sacrificio ed il suicidio; naturalmente, con il gentile tutoraggio di questi eroici resistenti al divieto di pensare.
D'altra parte, in generale, di per sé, la denuncia della proibizione di pensare non costituisce ancora un argomento che attiene al contenuto. In contrasto con l'esigenza astratta e formale della libertà di critica, o del non capire meramente tattico, qui si tratta chiaramente dell'isterismo contro il contenuto della propria posizione, della cura amorevole della sconforto di fronte ad essa; ma questa scontentezza non ha copertura argomentativa e dev'essere mantenuta deliberatamente in sospeso fin dall'inizio. Invece, la lamentela a proposito del divieto di pensare passa nuovamente per il piano democratico formale: la posizione del contenuto dev'essere essenzialmente scaricata, cercando di attribuirle un indurimento ed un'ossificazione autoritaria, dogmatica, intollerante, ecc., perché nel suo proprio contesto non si potrebbe "dire" niente contro (soprattutto, ancora una volta, non importa cosa), ed al vomito irriflesso dello scontento si risponde probabilmente con un getto gelato di ordine polemico.

Ora, generalmente il reclamo contro il divieto di pensare non si volge direttamente contro il nome o il marchio della posizione, nel nostro caso contro la critica della dissociazione-valore in quanto tale e in generale. Prima, si afferma l'esigenza di poter riunire e incorporare, sotto questa etichetta di identificazione, o dietro questa facciata, tutti i tipi di contenuto e, in stile Facebook, mettere "mi piace" o manifestare di essere d'accordo, indipendentemente dal fatto che si sia favorevoli al contenuto interno della posizione o che si costituisca soprattutto un indigesto corpo estraneo. Al contrario, potrebbe essere carino porsi negativamente o contrastare un po' certi contenuti, momenti o aspetti concreti della critica della dissociazione-valore, con i quali essa si è andata arricchendo o concretizzando nel corso del tempo, mettendo pochi "mi piace" o istintivamente non manifestando così tanto accordo, sempre in stile Facebook. Si pretende di trasformare l'etichetta della posizione in una una copertura puramente formale in cui si possono mettere e togliere i contenuti, impunemente e a piacere.
Ma in realtà una posizione teorica è molto più che il suo mero nome, e non può essere concentrata in una breve "definizione" o in una sorta di grande tesi, per poi amalgamare in qualche modo con essa qualsiasi contenuto o affermazione sul qualsiasi tema possibile, o anche cancellandone altri. Che la critica del valore neghi il valore, vale a dire, la forma della merce e del denaro, e che la critica della dissociazione-valore neghi anche, in quanto altro lato di questa relazione sociale, i momenti di riproduzione dissociati dal valore: queste definizioni astratte e secche non costituiscono da sé sole l'affermazione essenziale né qualsiasi essenza isolabile di posizione teorica. Una teoria deve sempre rivolgersi alla totalità concreta dello sviluppo storico-sociale, anche se questo non può essere completamente riprodotto intellettualmente. Ma essa deve attraversare per quanto possibile questa totalità ed il suo mondo fenomenico, e cercare di assumere su di sé la sua chiarificazione critica. Quello che Hegel ha formulato in maniera positiva e affermativamente si applica solo nella forma della critica, pertanto negativamente: soltanto il tutto negativo, nel suo essere diventato e diventare, costituisce la cosa in sé, e non un mero risultato. Anche la riflessione teorica di questo tutto, del suo contenuto, non può essere portata in un mero titolo o in una definizione generale e astratta. Ciò significa che la teoria critica della dissociazione-valore "consiste" nella sua storia e nelle sue concretizzazioni in oggetti sociali, i quali pertanto non le vengono aggiunte solo in maniera accidentale, magari come definizioni astrattamente definitorie (isolati risultati generali), ma sono parte integrante dell'essenza stessa della posizione.
Per poco che questa nuova teoria possa già rivendicare di essere avanti nella sua marcia attraverso la totalità concreta, altrettanto poco essa può essere separata dalle sue concretizzazioni che ha finora avuto. Come qualsiasi storia, anche la sua è irreversibile. A cosa si riferisce l'accusa circa il divieto di pensare, mentre vorrebbe crogiolarsi nell'etichetta in quanto tale? Sulla base delle precedenti esperienze in congiunture diverse, principalmente le questioni come la cosiddetta questione della prassi (presunto "distanziamento della posizione, senza valore nutritivo per l'attivismo), occasionalmente la critica categoriale del lavoro e la teoria della crisi, la teoria della dissociazione sessuale, la critica della ragione illuminista e, non ultima, la solidarietà con Israele e la polemica contro l'antisemitismo di sinistra. Nessuno di questi contenuti, tuttavia, è stato incollato solo esternamente all'etichetta a partire da un ragionamento puramente soggettivo, essendo pertanto di nuovo facilmente separabile. Al contrario, si tratta dello sviluppo dello stesso approccio teorico fondamentale, che frequentemente è maturato nel corso di molti anni di conflitti interni ed esterni. Niente di tutto questo è per caso, o meramente determinato da idee e criteri superficiali mossi dal sentimento. È la teoria in quanto tale, nella forma della concretizzazione delle sue conseguenze interne, sulla base di fenomeni e nei domini dell'esperienza.
La critica della praticità della sinistra e del suo lavorismo irriflesso, del pensiero positivista e della falsa immediatezza che gli viene associato, e contro questo l'enfasi sull'importanza e sull'autonomia della teoria, che non dev'essere legata, in maniera leggittimatrice alle necessità politiche, è stato ed è il presupposto del pensiero della critica della dissociazione-valore in generale. Senza questa distanza radicale dall'attivismo del contenuto debole, non sarebbero stati possibili né qualsivoglia approccio alla teoria ottenuto finora e nessuna delle conoscenze ottenute.
È stato anche a partire da questo distanziamento, inoltre, che si è arrivati alla solidarietà con Israele, vista ripetutamente con ostilità, dalla quale in nessun modo ne consegue un modello di identificazione (come avviene nel caso degli anti-tedeschi), ma è il risultato di un triplo riferimento alla rivalutazione della storia della modernizzazione svolta dalla critica della dissociazione-valore: in primo luogo, il fatto che l'antimperialismo nemico di Israele è più o meno la rimanenza obsoleta della critica riduttiva del capitalismo svolta sotto il segno della "modernizzazione ritardata" ed oggi è solamente reazionario; in secondo luogo, che la fissazione negativa di grandi settori della sinistra su Israele corrisponde all'odio per sé stessa, avendo coscienza della propria capitolazione nei confronti della relazione di capitale, e rappresenta una proiezione antisemita nel senso di un oggetto di sostituzione; e, in terzo luogo, il fatto che i fascisti religiosi di Hamas, di Hezbollah e della teocrazia iraniana produttrice di merci, immaginati con una capacità politica borghese, sistematicamente sottostimati o perfino positivamente connotati, sono puri prodotti del processo di dissoluzione della soggettività moderna ed una variante del culturalismo postmoderno, che rivelano il proprio pericolo pubblico generale. Nel contesto della critica della dissociazione-valore viene completamente escluso il coccolare in maniera politico-ideologica i cosiddetti palestinesi ed i loro alleati.
La posizione che ha avuto maggior visibilità di per sé ed ha riempito ogni momento, e proprio per questo ha costituito più volte la più grande pietra dello scandalo, è stata naturalmente la teoria della dissociazione sessuale, che ha dato il suo nuovo nome ampliato all'intero approccio . Qui non si tratta di una sfera del pensiero femminile, pertanto riservata alle donne, che riprodurrebbero la dissociazione, ma piuttosto di un concetto differente della totalità, che ha reso impossibile qualsiasi marxismo di derivazione lineare (che sia hegeliano o meno) ed arriva alle categorie del capitale stesso. Solamente in questo contesto si è resa possibile la critica della ragione illuminista capitalista androcentricamente universalista e la sua storicizzazione.
Nel campo più allargato della posizione teorica, ci sono ripetutamente state, e ci sono ancora, le esigenze di rendere innocua la questione della dissociazione (sia attraverso riabbracci monopolizzatori, che allo stesso tempo deformanti e riduttivi) per tornare fondamentalmente ad una "critica del valore" semplice e rigorosamente maschile, che vede il valore come contesto formale che rimane interrotto di per sé, e che vorrebbe relegare nuovamente la relazione di genere in una sfera secondaria. In questo modo il mondo della scienza tornerebbe nuovamente ordinato. Questa è anche una regressione epistemologica, su cui si riversa il desiderio di continuare l'elaborazione teorica che cerca e trova, con mezzi psicoanalitici, la sua persistente radice nell'inconscio sociale androcentrico.
Ora c'è un collegamento interno fra la difesa centrale contro la "contaminazione" della critica del valore di per sé ancora androcentrica, fatta, dalla teoria della dissociazione, e la difesa secondaria contro altri movimenti nello sviluppo della posizione teorica. Una critica del valore ridotta attraverso la rimozione della critica della dissociazione avviene insieme ad una ricaduta nello "orientamento alla prassi" immediata, attraverso la reazionaria "solidarietà con la Palestina", attraverso l'esigenza marxologica dell'ideologia illuminista borghese e, possibilmente, con il diluire la critica del lavoro e la teoria della crisi.
In termini di contenuto, questi sono i diversi punti che naturalmente si combinano con il malessere nei confronti della teoria della dissociazione, ma non solo. Ciò che qui costituisce oggetto di esigenza è realmente un ambiente patriarcale dell'intellettualità, anche nella riflessione più avanzata; ossia, la teoria come assunto dell'associazione maschile, fra il fumo del camino ed il sigaro, forse con il fascino della scientificità positivista della fine del XIX secolo, da qualche parte fra il Marx essoterico e Sherlock Holmes. Un'intellettualità che può continuare nel famoso "codice elaborato" della letteratura e della filosofia della modernità classica a partire dall'inizio del XX secolo, sepolto al più tardi a partire dal 1945. Erano tempi maschili di pensiero, in cui le donne servivano come muse o segretarie dei migliori lavoratori intellettuali borghesi, e dovevano cambiarsi d'abito per la cena.
Il fatto che in quell'epoca e nei suoi ambienti culturali ed intellettuali si possono incontrare anche i pochi precursori della critica categoriale, come il giovane Lukàcs e Adorno, viene ora considerato come un motivo per voler mantenere lo status di elaborazione teorica dentro i limiti della corrispondente intellettualità, anche se questo non è più possibile. La mascolinità postmoderna di tutte le età virtualizza il suo paradiso perduto e lo riempie di fantasie che non hanno alcun fondamento, mentre il degrado delle relazioni borghesi di genere si manifesta realmente, e dietro la facciata del bravo ragazzo sta in agguato l'abbrutimento dell'obsoleta supremazia maschile. In quanto socialmente generale, tutta questa sindrome risuona nell'esigenza ancora indeterminata della proibizione di pensare secondo la critica dell'associazione-valore e relativamente alle sue concretizzazioni. Il desiderio, conscio o meno, è il restauro nella teoria critica di tutto quello contro cui abbiamo duramente lottato per decenni. L'opposizione regressiva non pretende di discutere polemicamente quel che non è apertamente spiegabile, ma attorcigliarsi senza quei nuovi pensieri che da tempo sono stati chiariti, per rimuoverli in parte o del tutto; e per ragioni che possono essere definite solo pre-teoriche o extra-teoriche.

Pensare trasversale (e/o queer) libera
L'inflazione di un'opinione povera di argomenti non può, per mancanza di sostanza propria, emanciparsi completamente dalle teorie elaborate e dalle posizioni di contenuto a queste relazionate. Ma si tratta di tutto tranne che di cercare un orientamento. Al suo posto, si vorrebbe sfruttare qualche contenuto scollegato per usarlo nel mormorio dell'opinione. Questo vale anche alle stesse teorie postmoderne, che vengono mutilate in questo modo dai loro stessi destinatari, fino a diventare irriconoscibili, rimanendo così tuttavia prigioniera della Nemesis dei suoi fondamenti ideologici. Qui, un tipo di metodo è il pensiero trasversale. Il cosiddetto pensatore trasversale è soprattutto una figura distorta nel circo del discorso postmoderno, per così dire come uno scomodo anticipato.
La persona diventa scomoda professionalmente solo per mezzo del pensiero trasversale. Proprio in questa maniera, si pretende che sia suppostamente superato il pensare secondo stereotipi, per aprire nuovi orizzonti al di là delle posizioni dogmaticamente arroccate. In realtà, i pensatori trasversali lasciano una scia di distruzione attraverso il paesaggio intellettuale, scontrandosi in maniera incontrollata e sfrenata contro posizioni di contenuto completamente differente, che considerano altrettanto praticabili. In questo senso, il pensatore trasversale non ha nessuna "paura del contatto". Egli passa dal conservatorismo agrario al Partito dei Pirati e ritorno, arando di passaggio la teoria critica di Adorno, percorre in maniera aleatoria perfino il marxismo tradizionale ed approfitta anche della postmodernità tardiva teologizzante. Il triturare, frammentare e pestare, in questo pazzesco viaggio "trasversale" attraverso la politica sociale e la teoria sociale, è musica per le loro orecchie. Quello che nella realtà materiale risulterebbe immediatamente in un disastro, e nella sfera ideale anche recentemente sarebbe finito con la disattivazione completa, nel mondo virtuale delle comunità in rete non solo resta senza conseguenze, ma è di buon gusto. Il "surf" sulle inondazioni dell'offerta illimitata costituisce la base tecnica ed il paradigma per un pensiero che si "leghi" attraverso i contenuti e le posizioni, senza preoccuparsi minimamente del riferimento alla realtà, con i contesti di base e con il rigore teorico.

L'oggettività negativa del principio di realtà capitalista non viene criticata radicalmente, essendo, al contrario, da un lato, affermata ideologicamente, o semplicemente, in quanto esistenza del venditore di sé stesso, dall'altro lato, tuttavia, simultaneamente occultata e relegata sullo sfondo delle auto-evidenze. Quel con cui si crede di avere a che fare, sono solo le arbitrarietà del consumo delle merci precariamente finanziato a credito, e la lotta per l'attenzione sul mercato delle opinioni. Nella forma dell'opinione, anche l'idea diventa merce, le posizioni teoriche valgono solo come opinioni arbitrarie e personali, offerte e pubblicizzate con speranza sul loro rispettivo mercato. Perché il principio della realtà repressa non può costituire alcun criterio (negativo) per la realtà di tali opinioni, cui equivalgono pari pari, come le merci nel supermercato. Pertanto, si può anche accedere a tutte allo stesso modo, senza doversi preoccupare delle opposizioni del contenuto. Nel mondo virtuale delle comunità in rete, tutti i contenuti sono indifferenti, ossia, veramente uguali nel senso dell'indifferenza, e questo modello viene trasferito su tutta la sfera della riflessione teorica. Il pensatore trasversale può sperimentare il suo viaggio-amok attraverso le posizioni non sviluppate di per sé nemmeno dai suoi colleghi come una sorta di ideale shopping tour, in un mercato che non costa niente. Nello stupido procedimento del "remix" allora si possono mischiare contenuti del tutto incompatibili, in una costruzione pseudo-originale (o rappresentarli come si fosse un arbitro che sta al di sopra), senza dover avere un solo pensiero che sia proprio.
Pensare trasversale, surfare, mescolare, esagerare tutte le contraddizioni ed aumentare al massimo la perdita della realtà: in questo si soddisfa la mentalità postmoderna, poiché semplicemente evita qualsiasi certezza con cui conseguire un criterio di differenza fra idea e realtà, aumentando pertanto la pretesa di chiarire le relazioni. Questo diventa non necessario quando non ci sono più relazioni autonomizzate, coercitive, ossessive, ma ci sono solo soli opinioni, atteggiamenti e selfie pubblicati, di cui si suppone sia fatto il mondo. In questo senso, il decostruzionismo, come teoria di base della negazione postmoderna della realtà, ha prodotto nella sua comunità studentesca di recezione un concetto di percezione che è adeguato per estendere all'infinito le differenze e per appiattire simultaneamente tutte le contraddizioni senza risolverle.
Teoria Queer e politica Queer pretendono di agitare la questione di genere, de-realizzandola. Si pretende che la supremazia maschile associata alla dissociazione sessuale, incastonata nella forma del valore solo nell'apparenza sessualmente neutra, e nel modo di essere da questo conseguente, venga considerata senza ragion d'essere come far parte del pensiero. Se la forma sociale capitalista in qualche modo non è più l'oggetto, ancor meno della critica, allora è inutile la lotta contro le strutture del patriarcato reificato, in quanto si suppone che non esistano uomini e donne. Più precisamente: gli uomini sono in realtà anche donne, soltanto differenti (e naturalmente migliori). Oppure si può scegliere il sesso come se fosse un vestito stravagante, e perfino inventare un sesso del tutto nuovo. Da qui ne risulta una superficiale politica di partito con elementi di farsa, mentre la profonda relazione sociale reale dell'eterosessualità compulsiva e le identità sessuali compulsive smettono di essere percepite. Allo stesso modo, anche l'asimmetria sociale ed economica nelle relazioni capitaliste di genere indotte dalla forma della dissociazione-valore rimane completamente intatta. Perfino lo stesso piano istituzionale è ormai raggiunto quando i falsi bravi ragazzi si mascherano de esseri transgender.
Essendo il queer futile, superficiale e bugiardo, anche la persona dev'essere teoricamente tollerante e deve voler rendere compatibile tutto con tutto. Viene disapprovata solo la determinazione dei contenuti e l'acutizzazione degli antagonismi. Il Queer pensa il trasversale nel modo più modernamente possibile. Potrebbe essere carino incorporare persino la teoria della dissociazione-valore nell'orribile mistura delle posizioni inconciliabili. Si deve ignorare "sovranamente" che si tratta di alternative che non sono completamente incompatibili con una spiegazione teorica del capitalismo di crisi e delle relazioni di genere ad esso associate. L'imperialismo dell'ideologia postmoderna consiste proprio nel fatto che esso non combatte le teorie avversarie, ma le monopolizza per "post-modernizzarle", vale a dire, ruba loro l'anima. Qualunque sia la posizione concettuale e analitica rappresentata, essa dev'essere, indipendentemente dal suo contenuto determinato, sempre oggetto esterno alla produzione dell'opinione "Queer", senza fare riferimento alla realtà e senza coerenza teorica, quindi soggetta a qualsiasi capacità di miscela, per venire enfatizzata nella forma della superficie unidimensionale dell'opinione.
Questo modo di pensare si è infiltrato da molto tempo nel dibattito sulla teoria di Marx e appare curiosamente nel campo della ricezione della critica della dissociazione-valore come un altro elemento della dissidenza pigra. L'impulso a pensa non conseguentemente in termini di contenuto, ma formalmente intrecciato )anche qui il termine "pensare" è probabilmente un eufemismo), qui si fa valere in modo che il concetto di "mediazione" viene strumentalizzato. Sebbene questo concetto generalmente implichi un dibattito su come avvicinare la propria posizione a quella del pubblico, qui significa esattamente il contrario, ossia, la propaganda della coesistenza pacifica, o perfino sposare la sua stessa posizione (che poi, ancora una volta, è una non posizione) con posizioni fondamentalmente opposte. Continuamente vengono fuori persone piene di buona volontà, che trovano i nostri libri e i nostri testi come "altamente interessanti", che si sentono in dovere di "mediare" la teoria critica della dissociazione-valore proprio con la teoria Queer, o con il post-operaismo, con la Nuova Lettura di Marx o con altre correnti concorrenti. Si cercano somiglianze che non esistono (o esistono solo ad un livello astratto, senza senso) per poter in cambio diluire e ammorbidire le contraddizioni fondamentali del contenuto, ed erroneamente ridurle a niente. La risposta a questa domanda può essere soltanto conclusiva: Nyet. Non è possibile nessuna mediazione.
A questo punto diventa particolarmente evidente l'interazione fra la perdita di realtà, o negazione della realtà, e la diarrea di opinioni (da tempo esistono anche varianti accademiche). Se sparisce dalla percezione in generale il piano categoriale del capitalismo e lo sviluppo oggettivato incluso nella sua dinamica, è naturale che le differenze teoriche a ciò relazionate possono essere ignorate. I miscelatori di teorie e i mediatori della teoria vanno avanti come se il conflitto non risiedesse nella cosa in sé, ma solo nella unilateralità del pensiero dei protagonisti; fino a quando gli amichevoli pensatori Queer mostrano la dorata via di mezzo, che, purtroppo, porta sempre alla de-realizzazione postmoderna della cosà in sé.
Non è per caso che, assieme alla fine di un'epoca, non solo ci sia stata la marcia trionfale del postmodernismo decostruzionista, ma anche le posizioni teoriche della Nuova Lettura di Marx, dell'ortodossia recente, del post-operaismo, degli anti-tedeschi e della critica della dissociazione-valore abbiano cominciato a formare un campo di dibattito con la pretesa di spiegare le condizioni modificate. A maggior ragione, non è per caso che queste posizioni si relazionino polemicamente fra di esse. E meno di tutto, non è per caso che si può osservare una posizione frontale comune da parte delle altre teorie che secondariamente lottano fra di loro contro i punti essenziali della teoria critica della dissociazione-valore. Se un pensiero trasversale (decostruzionista in maniera confessa o inconfessata) vuole rendere irrilevanti queste contraddizioni, in questo modo dimostra solo la sua abissale ignoranza. Sono le condizioni negativamente oggettivate del capitalismo di crisi stesso che provocano queste interpretazioni e modelli di spiegazione contraddittori; e tali divergenze non risiedono solo nella differente ampiezza della critica, ma vengono anche filtrate da interessi socialmente immanenti (della classe media), da coercizioni istituzionali e da modelli del pensiero "scientifico". La critica radicale, ossia, la critica categoriale non solo devono confutare l'avversario in termini di contenuto, ma deve anche metterlo a nudo in questa dimensione del suo interesse e dei suoi legami istituzionali ed epistemici.
Una teoria critica all'altezza del tempo non nasce secondo il modello delle accademie evangeliche, dove i partecipanti di susseguono gli uni agli altri proferendo i saggi moti degli avi che non dicono niente, ma solo attraverso il tagliente conflitto teorico. Per amore della cosa stessa, le divergenze devono essere prese in carico confrontandosi. In condizioni di crisi antagonistiche solo l'antagonismo teorico porta conoscenza. Chi non vuole essere parte di questa lotta ha già tradito la conoscenza. La politica del matrimonio teorico è avversa al conflitto ed è nemica della conoscenza, vale a dire, affermativa.

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista EXIT! il 4 maggio 2017, p. 70-94 -

* Il presente testo proviene dall'archivio di Robert Kurz ed è stato ridotto dalla redazione ai fini della pubblicazione.

fonte: EXIT!

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