sabato 21 ottobre 2017

Il silenzio di Cassandra

cassandra

Quando Cassandra parla, dice la verità: ma è giudicata un intralcio, una ''sacerdotessa del no''. Quando Cassandra tace è perché sta sul carro del potere: e poco cambia che ci sia salita volontariamente, o che ci sia stata tradotta in catene. Il risultato è lo stesso: il tradimento degli intellettuali, e cioè il silenzio della critica. Lo vediamo ogni giorno: nel conformismo dei giornali e dell'università, nella trasformazione della cultura in intrattenimento, nello svuotamento della scuola. Ma costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia.

(dal risvolto di copertina di: Tomaso Montanari: Cassandra muta. Intellettuali e potere nell'Italia senza verità, edizioni gruppo Abele, pp.128, euro12)

La maledizione della verità perduta
- di Andrea Ranieri -

Tomaso Montanari nel suo bel piccolo libro, Cassandra muta (edizioni gruppo Abele, pp.128, euro12) per descrivere la condizione dell’intellettuale contemporaneo e i suoi rapporti con il potere, parte da Cassandra. Che ha il dono di dire la verità, e una maledizione: quella di non essere creduta. A meno di non accettare di far parte di un sistema del sapere che relega l’intellettuale nella sua specializzazione, e a non prendere posizione sul modo in cui chi ha il potere governa il mondo, di distogliere lo sguardo dagli orrori e dalle tragedie della vita di tutti. Ma se lo fa, se sale sul carro del potere, se ne accetta i limiti e le regole, non dirà più la verità. Cassandra diventa, per l’appunto, muta.
Il disciplinarismo, la specializzazione esasperata, sono il modo in cui il potere controlla il sapere. Chi ne esce, chi pretende di dire la sua oltre i limiti della propria specializzazione, dà scandalo. La sua verità è immediatamente svalorizzata. Gli esempi, racconta Montanari, non mancano. «Che gli archeologi facciano gli archeologi. La Costituzione non è mica il codice di Hammurabi» fu il modo in cui Renzi commentò le prese di posizione di Settis sulla riforma costituzionale, o quello in cui Dario Franceschini tirò le orecchie a Saviano, colpevole di avere denunciato il conflitto di interessi di Boschi nel caso di Banca Etruria: «l’autorevolezza acquisita in altri campi non autorizza a emettere sentenze senza fondamento».
La professionalizzazione spinta del lavoro intellettuale ha come corrispettivo il professionalizzarsi della politica, la costruzione di una sua sfera autonoma rispetto alla cultura e agli stessi conflitti sociali. E della politica come sfera autonoma si occupano prevalentemente i grandi mezzi di informazione.
Rispetto ai grandi drammi sociali e ambientali del nostro tempo, si preferisce il racconto, sempre più noioso e ripetitivo, dell’allontanarsi e dell’avvicinarsi dei protagonisti della politica politicante, quella che comunque si adopera a difendere il sistema dai barbari. Con l’effetto di allontanare dalla politica un numero crescente di cittadini. Il mondo dell’informazione dovrebbe riflettere sul fatto che il numero dei lettori di giornali e di spettatori dei talk show diminuisce proporzionalmente al crescere dell’astensionismo elettorale.
Denunciò con forza il fatto Edward Said in un altro bel piccolo libro citato da Montanari, Dire la verità, in cui descrive come un fatto tragico la scomparsa dei «dilettanti del sapere», quelli che non si chiudono nei recinti della disciplina e hanno il coraggio di contaminare saperi diversi per provare a dire la verità sul mondo. E analizza come l’università iperspecializzata finisca per fornire alla società non un pensiero critico, non il gusto del dissenso, ma professionisti pronti a occupare posti in qualche consiglio di Amministrazione, a farsi consulenti del potere politico ed economico. Fino a mettere, se necessario, in secondo ordine rispetto al potere, le proprie stesse competenze.
È il caso, e qui Montanari diventa caustico e tragicamente divertente, degli storici dell’arte che incoraggiarono Renzi sindaco a perforare il Vasari alla ricerca della Battaglia di Anghiari, o eminenti ordinari di archeologia entusiasti dell’idea franceschiniana di pavimentare il Colosseo, per renderlo in grado di ospitare gli eventi che piacciono al pubblico. Niente è utile se non serve al presente, e alla missione principale del presente, che è quella di fare di ogni cosa occasione di business. Il tutto magari accompagnato da una apologia estetizzante della bellezza a scapito della conoscenza, in cui le opere vengono sganciate dal contesto storico che le ha prodotte, e diventano tutte indistintamente brand di eccellenza per il «made in Italy». Quando Benjamin scrisse: «Se vincono loro nemmeno i nostri morti sono al sicuro», probabilmente si riferiva alla storia del movimento operaio e ai suoi eroi e ai suoi martiri. Leggendo Montanari si scopre che, se continua a vincere il mercatismo, i morti che non sono al sicuro sono anche i grandi artisti del nostro passato, e le pietre e i paesi della nostra storia.
Alla didesa disperata delle nostre pietre e paesi dedicò gran parte del suo impegno Pier Paolo Pasolini, Cassandra parlante e inascoltata. Quando denunciò lo strazio che alla nostra cultura e alla nostra vita stava infliggendo il crescere del consumismo massificato e standardizzato. Fu inascoltato e persino deriso, anche da sinistra. «Nostalgico dell’Italietta», «apologeta della povertà». Oggi misuriamo come quel tipo di crescita stia mettendo in pericolo non solo le nostre pietre e il nostro paesaggio, ma la stessa vita umana sul pianeta. E ci sarebbe un disperato bisogno che tante Cassandre riprendessero la parola. Magari insieme. Magari provando a cambiare la politica.

- Andrea Ranieri - Pubblicato sul Manifesto del 4/7/2017 -

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