Nel corso del lavoro per la sua monumentale biografia di Kafka, Reiner Stach ha isolato novantanove «reperti» che corrispondono ad altrettanti momenti ed episodi, testimoniati dallo scrittore stesso o da suoi amici e contemporanei. Tale mosaico ci mostra un Kafka poco conosciuto: frequentatore di casinò e bordelli, o di un collezionista di foto osé, o in ufficio in preda al fou rire di fronte al sussiegoso superiore, o fra gli appassionati di nuoto e d'aeroplani, o seduto in giostra in mezzo a ragazzine vocianti, ma anche abile falsificatore della firma altrui – si tratti di Thomas Mann o di una sedicenne vagheggiata a Weimar... Fra le sorprese che ci riserva il libro vi è la prima Lettera al padre, rivolta ancora ai «Cari genitori», e la piantina dell'appartamento in cui Gregor Samsa si risveglia trasformato in un insetto. Se esilarante è la pubblica lettura della Colonia penale in una galleria di Monaco, dove gli astanti cadono in deliquio o fuggono, incapaci di reggere quell'«odore di sangue», mentre Kafka prosegue imperterrito, commovente è la storia delle lettere che lo scrittore attribuisce a una bambola persa in un parco di Berlino, per consolare una bambina in lacrime. Lettere perdute per sempre. Conservato è invece l'appello a Kafka di un infelice messo alle strette dalla cugina che non comprende il senso della Metamorfosi.
(dal risvolto di copertina di: Reiner Stach, "Questo è Kafka?". Adelphi, 2016, € 28,00 -
Il sogno di Kafka? Le guide di viaggio low cost
Voleva diventare milionario scrivendo manuali turistici era alto, di bell’aspetto, gentile e divertentissimo
- di Giorgio Fontana -
A pochi scrittori è stato riservato un destino di stereotipo simile a quello di Kafka. Il suo nome evoca sconforto, autodistruzione e cupezza: di lui si pensa che fu unicamente un individuo infelice, oscuro in vita, e schiavo del potere paterno; e l’aggettivo che ne deriva, kafkiano, è usato altrettanto a sproposito.
Per correggere questa rappresentazione, Reiner Stach — il maggior biografo dello scrittore ceco — ha raccolto «99 reperti» che illuminano gli aspetti curiosi, ma non per questo meno caratterizzanti, della vita di Kafka: regalandoci così un testo molto ben documentato, specie per quanto riguarda l’apparato iconografico, e a tratti veramente spassoso.
Albert Camus scrisse che l’opera di Kafka obbliga il lettore a rileggere. E «l’ardente desiderio di umane spiegazioni che i suoi testi vanno di continuo suscitando si riversò, per così dire, anche sulla sua esistenza privata e sull’ambiente culturale, politico e sociale che lo circondava», annota Stach. Fino a produrre appunto «un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno: […] un uomo inquietante che suscita cose inquietanti»: mortificando così non solo la sua prosa, ma anche lo scrittore stesso. Che invece fu un uomo alto, di bell’aspetto e — per quanto certamente tormentato — gentilissimo e dotato di grande vis comica.
Attraverso le numerose prove documentarie, Stach si propone dunque di «scuotere il monopolio» di un’immagine parziale con delle immagini di segno opposto: i suoi reperti “ci mostrano lo scrittore in contesti insoliti, sotto una luce insolita, e permettono di percepire tonalità registrate di rado”. Così il saggista aggiunge un salutare punto interrogativo al preconcetto. Aderendo ad esso, molti lettori pensano di sapere benissimo che «questo è Kafka»; e invece qui tocca lasciare spazio allo stupore e domandarsi — è davvero questo Kafka?
Lo è, decisamente. Certo, alcuni reperti sono abbastanza noti: il suo grande interesse per la lingua ebraica, o i testamenti che disponevano quali suoi scritti salvare e quali invece distruggere (testamenti che furono traditi da Max Brod, peraltro dopo averli pubblicati postumi). Ma altri fatti sono davvero sorprendenti: uno su tutti, il rapporto di Kafka con la medicina. Diffidente nei confronti delle terapie tradizionali, lo scrittore si affidava a vaghi principi naturalistici — vivere «secondo natura» e senza stress — anche per malattie come la sua tubercolosi. (Arrivò persino a rifiutare i vaccini prescritti per legge). Poco nota è anche l’idea commerciale elaborata da Kafka e Brod nel 1911, quando studiarono un nuovo modello di guida turistica chiamato «A buon mercato»: una sorta di manuale low-cost ante litteram. Il progetto non fu portato avanti, con grande disappunto di Kafka: secondo lui, avrebbe potuto farli diventare milionari.
Altri reperti ancora sono piccole, deliziose curiosità: l’unica lettera in nostro possesso che gli inviò un lettore; i ricordi della nipote Gerti; l’elenco degli errori geografici del romanzo America; i suoi flirt e le sue puntate nei bordelli; la canzone preferita dello scrittore (Addio piccola stradina di von Schlippenbach e Silcehr); i soldi persi con Brod giocando d’azzardo a Lucerna. È interessante anche apprendere che Kafka barò all’esame di maturità, collaborando con dei ragazzi per sottrarre al professore di greco i brani da tradurre alla prova. (Fra l’altro, il suo diploma fu assolutamente nella media).
Stach dissolve un ulteriore equivoco: certo Kafka non fu un autore di successo in vita, ma il suo nome «rispondeva a una delle talentuose promesse su cui, di tanto in tanto, si puntavano i riflettori della critica». Peraltro, l’unico riconoscimento letterario che vinse in vita accadde per procura: il premio Fontane 2015 fu assegnato a Carl Sternheim, ma solo a patto che egli ne devolvesse pubblicamente l’importo a Kafka. (Lui, com’è comprensibile, ne rimase molto ferito). Veniamo a sapere anche che Kafka — guardato con affetto e simpatia da chiunque — era profondamente odiato dal medico e scrittore Ernst Weiss a causa di una mancata recensione; e che a sua volta, caso più unico che raro, detestava la poetessa Else Lasker-Schüler.
Insomma, è davvero difficile scegliere l’aneddoto più affascinante in una collezione così varia. La descrizione della sua scrivania come se fosse un teatro, tratta dai diari? Il necrologio scritto da Milena Jesenská, che rende giustizia alla sua «coscienza tanto scrupolosa da rimanere vigile anche là dove gli altri, i sordi, già si sentivano al sicuro»? Il suo attacco incontrollabile di riso davanti al presidente dell’Istituto che gli aveva appena confermato una promozione? Ci provo: per me è la difficoltà di stabilire il colore dei suoi occhi. Per quattro conoscenti erano scuri, per altri quattro erano grigi, per tre erano azzurri e per altri tre invece castani. Il passaporto dello scrittore risolve la questione nel modo più graziosamente kafkiano possibile: indicando il loro colore come «grigio-azzurro scuro».
- Giorgio Fontana - Pubblicato su La Stampa/Libri del 15/10/2016 -
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