martedì 11 ottobre 2016

Combinando

lullo

L’eremita che immaginò il computer
- di Carlo Rovelli -

Nel 1274, alla fine di un lungo eremitaggio sul Picco di Rana, nell’isola di Maiorca, Ramon Llull concepisce — per rivelazione divina, dice — l’idea di una grande opera che diventa cuore e obiettivo della sua vita: la creazione di un complesso sistema che chiama la sua «Arte», ovvero la Ars Magna. L’«Arte Grande» di Llull è uno strano e complesso sistema in bilico fra metafisica e logica, espresso in forma di tavole, grafici e cerchi mobili di carta che si possono ruotare e sovrapporre per generare combinazioni arbitrarie di concetti elementari fondamentali. Con questo sistema, Ramon Llull intendeva mettere ordine nel mondo e convertire ebrei e musulmani al cristianesimo.

Questi obiettivi, direi, non li ha raggiunti. Ma l’influenza del suo strano sistema è stata vastissima. Giordano Bruno e Montaigne, due fra i pensatori alle radici della modernità, hanno preso ispirazione da lui. Ma è stato sopratutto Leibniz a cogliere il nocciolo dell’Arte Grande di Llull, ripulirla da aspetti medievali e
cercare di trarne una lingua razionale universale, ribattezzandola «arte combinatoria», con l’obiettivo di tradurre l’intera razionalità in calcolo. Un’applicazione
diretta di questa idea è la prima macchina per calcolare ideata da Gottfried Wilhelm Leibniz, progenitrice riconosciuta di tutti i computer odierni. Ma la stessa idea è alla base degli sviluppi moderni della logica, da Friedrich Ludwig Gottlob Frege al positivismo logico, pensata come grammatica universale della razionalità.
L’Arte di Llull è radice profonda di non piccola parte del pensiero e della tecnologia moderna, e fa del grande intellettuale catalano una delle voci più originali e influenti del Medioevo europeo. Uno strumento tecnico centrale nella fisica di cui mi occupo, solo per fare un esempio marginale, è dato dai grafi: immagini che codificano il modo in cui un certo numero di elementi sono connessi fra loro; i grafi sono stati inventati da Ramon Llull.
Alla radice della strana potenza dell’arte combinatoria c’è un fatto semplice. Lo racconta bene una famosa leggenda nell’epica Il libro dei Re di Ferdowsi, il massimo poeta persiano. Il sapiente che inventò il gioco degli scacchi, un uomo chiamato Sissa ibn Dahir, ne fece dono a un grande re indiano. Il re, ammirato e grato, chiede al sapiente come può ricompensarlo, e il sapiente risponde: «Dammi un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza, e così via raddoppiando fino all’ultima casella della scacchiera».
Il re è stupito da tanta modestia e ordina subito di esaudire la richiesta. Ma qual è il suo stupore quando i suoi attendenti vengono a riferirgli che tutti i granai del regno non bastano a soddisfare quello che chiede il sapiente! Il conto è presto fatto: solo per l’ultima casella, che è la sessantaquattresima, serve un numero di chicchi pari a due moltiplicato 64 volte per se stesso, e questo fa 18 miliardi di miliardi di chicchi. Se un chicco pesa un grammo, sono diecimila miliardi di tonnellate di grano. E solo per l’ultima casella! Dante, nel XXVIII canto del Paradiso usa proprio questa leggenda per dire «molti molti»: «Ed eran tante, che ’l numero loro/ più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla».

Che cosa significa il fatto che da cose tanto piccole possa nascere un numero tanto grande? Significa una cosa semplice: il numero di combinazioni è generalmente molto più grande di quanto immaginiamo istintivamente. Combinando poche cose semplici, si può ottenere un’inaspettata vastità di cose, e queste possono essere arbitrariamente varie e complicate. Non è solo il numero delle combinazioni a stupirci: è anche la loro varietà.
Pensate alla natura intorno a noi. La fisica ci ha fatto comprendere che tutto ciò che vediamo non è generato che da una ventina scarsa di particelle che interagiscono attraverso poche forze elementari. I pochi tasselli di questo semplice Lego producono foreste e montagne, cieli stellati e gli occhi delle ragazze.
Ma lo spazio di ciò che può esistere è ancora più grande del già sterminato spazio di ciò che esiste. Pensate alle proteine che formano la struttura di tutti gli
esseri viventi terrestri. Una proteina è più o meno una sequenza di alcune decine di aminoacidi. Gli aminoacidi sono una ventina. Ci viene subito in mente di produrre tutte le possibili proteine e studiarle: questo ci permetterebbe di capire tutte le possibili strutture della materia vivente, perfino di anticipare l’evoluzione della vita terrestre... Ma c’è un problema: il conto è presto fatto e le combinazioni possibili di una ventina di aminoacidi in catene di qualche decina di elementi sono talmente numerose che anche se riuscissimo a produrre una proteina diversa ogni secondo, l’intera vita dell’universo non sarebbe sufficiente per produrre che una piccolissima parte di tutte le proteine possibili... In altre parole, lo spazio delle possibili strutture della vita è ancora quasi del tutto inesplorato: non solo da noi ma anche dalla natura.
La prima intuizione sull’immensità dello spazio aperto dalla complessità l’aveva già avuta Democrito, 24 secoli fa. Democrito aveva compreso che l’intera natura poteva essere costituita solo da atomi e, scriveva, sono le combinazioni degli atomi a generare la complessità della natura «così come le combinazioni delle poche lettere dell’alfabeto possono generare commedie o tragedie, poemi epici o storie buffe».

La nostra intuizione arretra di fronte agli immensi numeri e alla sterminata varietà generati dalle combinazioni. Come il re della storia persiana, ci sembra
impossibile che combinando cose semplici possano nascere tante cose e tanto complesse. Per questo, io credo, ci sembra così inconcepibile che cose complesse come la vita o il nostro stesso pensiero possano emergere da cose semplici: perché istintivamente sottovalutiamo le cose semplici. Non le crediamo capaci di tanto. Numeri generati da chicchi di grano e una scacchiera non possono certo svuotare i granai del regno! E invece sì.
Il nostro cervello contiene circa cento miliardi di neuroni, ciascuno di questi è legato ad altri neuroni da congiunzioni, le sinapsi. Ogni neurone ha alcune migliaia di sinapsi. Quindi ciascuno di noi ha in testa centinaia di migliaia di miliardi di sinapsi. Ma non è questo il numero che determina lo spazio possibile dei nostri pensieri. Lo spazio dei nostri pensieri è (almeno) lo spazio delle combinazioni possibili in cui ciascuna sinapsi è attiva o no. E questo numero è due moltiplicato per se stesso non 64 volte come nella fiaba del sapiente persiano, bensì centinaia di migliaia di miliardi di volte. Il numero risultante è un numero stratosferico, per scriverlo servirebbero migliaia di miliardi di cifre «tante, che ’l numero loro,/ molto più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla»! Neanche la cosmologia più scatenata tratta con numeri così grandi.
Questo numero quantifica l’immenso spazio del pensabile, di cui noi non abbiamo esplorato che un angolino infinitesimo. È lo spazio sterminato aperto dalle combinazioni, dall’arte del combinare, l’Ars Magna, l’Arte Grande, di Ramon Llull.

- Carlo Rovelli - Pubblicato su La Lettura/Corriere del 9 Ottobre 2016 -

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