Data la miseria dei rifugiati, nel contesto dell'essere superfluo nel processo in cui il lavoro astratto diventa obsoleto - cosa cui corrisponde il terrore dell'esclusione ed un'espansione globale sempre più evidente dello stato di eccezione - si intende combattere anche una (nuova) assenza di idee, che si esprime, nella sua forma più aperta, più brutale e più immediata, nella costruzione di muri e in azioni di violenza razzista, ma che può anche assumere forme assai più sottili e più ipocrite (ad esempio, nella restrizione del diritto di asilo) ed esprimersi per mezzo di una sospetta e troppo "amichevole" cultura del benvenuto. Bisogna mostrare qui come lo stato di eccezione abbia una lunga storia, che è anche decisamente costitutiva del capitalismo sin dal suo inizio, e che è necessaria una critica radicale e categoriale al fine di abolire le relative strutture. In questo senso, sono stati selezionati quei capitoli e passaggi del libro di Kurz, "La guerra di ordinamento mondiale", che hanno come tema "l'imperialismo dell'esclusione" e "lo stato di eccezione".
(Presentazione su Exit! n°13)
Prefazione
(di Roswitha Scholz)
Dopo il crollo del 2008, e i susseguenti pacchetti di salvataggio, così come i fallimenti nazionali e i movimenti dei rifugiati avvenuti negli ultimi tempi, il collasso del capitalismo diventa sempre più evidente, anche nella meravigliosa Repubblica Federale Tedesca, che veniva immaginata come sicura, grazie alla sua posizione economica apparente stabile dovuta al suo statuto geopolitico. Simultaneamente, la periferia ha continuato ad andare sempre peggio, precipitando nella guerra civile, nella criminalità e nel gangsterismo. Il terrore dell'esclusione e della separazione continua a crescere, e non solo in Germania. In questo contesto, torniamo a pubblicare degli estratti importanti tratti dal libro di Robert Kurz, "La guerra di ordinamento mondiale" (2003), sull'insieme delle questioni complesse che riguardano "l'imperialismo di esclusione" e "lo stato di eccezione". Anche se la situazione geopolitica ed empirica si sono modificate - ad esempio, l'era Bush appartiene al passato e la Pax Americana ormai non esiste più nella sua vecchia forma - la logica analizzata da Kurz in questo testo è ancora più chiara di quanto lo fosse prima. Lo "stato di eccezione globale", rispetto al quale le osservazioni di Kurz raggiungono il culmine, sta diventando sempre più evidente.
Imperialismo di esclusione e stato di eccezione
- di Robert Kurz -
L'apartheid imperiale
L'imperialismo della sicurezza e delle materie prime nei confronti dell'esterno, svolto da una cultura globale di minoranza tanto intransigente quanto penetrante, che oramai ha solo un interesse parziale e puntuale nei confronti del resto del mondo, nonostante la sua pretesa di controllo assoluto, per sua natura può costituire solamente un elemento parziale dello "imperialismo globale ideale". Infatti, in maniera esattamente opposta al venir meno della preoccupazione da parte del capitale di sfruttare la forza lavoro, diventata poco redditizia, di queste popolazioni, che ormai non serve più come "manodopera" per l'accumulazione, la massa di migliaia dei miliardi di "superflui", da parte sua, sviluppa il desiderio di compiere il pellegrinaggio della miseria, verso i centri capitalisti che causano tale miseria.
In un certo qual modo, ci troviamo di fronte ad un'umiliazione di massa di secondo grado. Nel lontano passato della storia della modernizzazione, l'umiliazione di primo grado ha consistito nel fatto che le persone venivano convertite in materiale del processo di valorizzazione, in "manodopera" della "economia svincolata" (Karl Polanyi) da ogni legame umano del capitale e del mercato mondiale. Successivamente, i movimenti sociali e politici delle masse già degradate a materiale di lavoro tentarono, su terreno della loro stessa degradazione, di guadagnare qualcosa che assomigliava ad una "dignità" umana secondaria: proprio in quanto soggetti della loro oggettivazione da parte della macchina mondiale capitalista. L'autocoscienza sociale ormai si riferiva in maniera positiva alla sua esistenza nella categorie della società globale storicamente in ascesa, si riferiva in questo modo al "riconoscimento" come soggetti del diritto, e come soggetti nazionali.
Ora, nella crisi della terza rivoluzione industriale, diventa sempre più grande la parte di quest'umanità addomesticata e disciplinata dal capitalismo alla quale non viene nemmeno più concessa la "dignità nella degradazione" secondaria, in quanto soggetto regolare del lavoro dipendente: in un enorme esplosione di degradazione di second'ordine, il sistema globale offre loro l'ultima speranza di un'esistenza minimamente tollerabile senza, tuttavia, venga allentata la presa, e senza che siano nemmeno capaci di immaginare un'esistenza differente. Questo paradosso di una relazione globale, nella quale la maggior parte del mondo diviene economicamente "superflua", e anche così rimane legata alla forma del moderno sistema produttore di merci (e anche alla forma del soggetto), riduce intere vecchie economie nazionali allo stato di mendicanti e vagabondi istituzionali, cui non viene concesso né il diritto di vivere né quello di morire.
Un mondo pieno di rifugiati
È soltanto logico che l'economia secondaria di saccheggio, che sfida l'imperialismo occidentale di sicurezza, si associ ad un'economia altrettanto secondaria di fughe in massa e movimenti migratori, che vengono magicamente attratti dalla presunta normalità capitalista dei centri e dalle sue promesse di consumo. Chi ha ancora la forza di agire e non diventare un attivista dell'economia di saccheggio si mette in cammino verso le terre o le regioni promesse dell'economia globale di mercato, da solo o con tutta la famiglia.
In parte si tratta di migrazioni interne, come ad esempio in Brasile, dal Nord-Est socio-economicamente desertificato verso i centri più a sud della (precaria) industrializzazione del mercato globale; molto più grande ancora è il flusso migratorio di miserabili in Cina, dove sono più di duecento milioni le persone provenienti da una popolazione rurale impoverita che vivono in movimento permanente, in cerca di posti di lavoro di miseria nell'area di influenza delle industrie esportatrici. Questa forma di migrazione interna può essere osservata, ad un grado maggiore o minore, in ogni parte della periferia capitalista, e già perfino in Nord America e in Europa.
In parte, però, si tratta anche di grande flussi umani transnazionali e anche transcontinentali, che cercano salvezza nella fuga verso l'estero, per poi tornare ad affrontare sempre, e con lo stesso terrore, l'economia. Nella sua dimensione globale, la massa di questi movimenti di fuga supera di gran lunga le grandi esplosioni migratorie del 19° secolo (soprattutto dall'Europa verso le due Americhe e dall'Est verso l'Occidente), che erano state causate da una situazione incipiente della medesima storia delle offese capitaliste.
Il termine "rifugiato economico", una creazione declassatrice delle amministrazioni democratiche della miseria, finisce per puntare il dito verso i suoi creatori, nella misura in cui si riferisce all'economicismo globale del capitale come motivo generalizzato di fuga. Sono sempre solamente forme derivate di questo motivo primordiale di ogni potenziale catastrofico e di ogni disperazione moderna, secondo gradi diversi, quelle che formano le categorie dei motivi di fuga e dei rifugiati. I "rifugiati di guerra" sono guidati dalle suddette turbolenze, le guerre di saccheggio e miseria, che non sono altro che la conseguenza del fallimento di intere regioni del mondo a causa dei criteri della concorrenza capitalista. I "rifugiati della povertà" traducono soltanto lo stesso motivo di fuga in una forma più diretta. Le persone vengono espulse in massa dal loro pezzo di terra, in parte anche facendo ricorso ad una violenza brutale (sia formalmente legale che del tutto illegale), per trasformare quella terra in fattorie volte all'esportazione di alimenti selezionati per il mercato globale ed i suoi abitanti più ricchi.
Da tempo esistono anche i "rifugiati del disastro", che cercano di salvarsi dalle catastrofi naturali causate socialmente: scarsità di acqua, desertificazione, deserti che avanzano, siccità e inondazioni, come conseguenza di una economizzazione cieca, dell'esternalizzazione dei costi dell'economia di impresa, della depredazione delle materie prime e dell'industrializzazione distruttiva dell'agricoltura al fine di ottenere valuta, sono alla base di tutti questi processi presunti come naturali.
È particolarmente rivelatrice la categoria dei "rifugiati dello sviluppo", i quali sono diventati vittime di questi progetti megalomani, continuamente sostenuti dalla Banca Mondiale sotto forma di "aiuti allo sviluppo". Spesso decisi da regimi populisti e da dittature corrotte, e avidamente approvati da grandi imprese occidentali, come la Siemens, che in questo modo riempiono le loro commesse acquistando macchinari lucrativi per la distruzione del mondo, si tratta di regola di vere e proprie cattedrali nel deserto, oppure di fughe in avanti a fronte dei processi di crisi economiche; per mezzo di una sorta di costruzione di piramidi keynesiane di destra, si pretende di generare numeri astratti di crescita economica da annunciare come "successi".
Il prototipo di questi distrutti progetti di piramidi, non a caso chiamate anche "cattedrali nel deserto", è la costruzione di enormi dighe, che hanno come conseguenza quella di sommergere grandi regioni in cui vivono milioni di persone. Alla maniera di Stalin, la cui industrializzazione svolta con il terrore era tristemente nota a causa della dislocazione forzata di interi gruppi di popolazione, anche le vittime delle "cattedrali nel deserto" vengono espulse dalla base della loro sussistenza, e la loro resistenza viene infranta facendo ricorso alla forza poliziesca e militare.
In Brasile, è la diga di Itaipu, sul rio Paranà, al confine con il Paraguay, definita come un "progetto faraonico", mentre in Argentina è la diga di Jacyreta, anch'essa alla frontiera con il Paraguay, che è considerata un "monumento alla corruzione". Uno dei progetti centrali appoggiati dalla Banca Mondiale è la famigerata diga di Sardar Sarovar, in India, «la più grande di un enorme programma di costruzioni che conta 30 grandi dighe, 135 dighe di dimensioni medie e 3 mila piccole dighe, così come reti di canali con una copertura totale di 80 mila chilometri. Il piano prevede il ricollocamento di 14 milioni (!) di indiani [...]» (von Laak, 1999, p.112). Questo progetto, accompagnato da proteste su scala globale, viene superato dalla costruzione della diga cinese delle Tre Gole sul fiume Yangtze, con imprevedibili conseguenze ideologiche, dove anche qui gli sfollati si contano a milioni. Progetti analoghi hanno avuto inizio anche in Africa.
Avviene che, contrariamente all'Unione Sovietica stalinista, nella maggior parte dei casi non si procede nemmeno ad una risistemazione degna di questo nome, dal momento che gli abitanti delle regioni sommerse sono disposti a camminare verso il niente; gli aiuti finanziari nazionali ed internazionali, presumibilmente destinati alla ricostruzione della vita altrove, che sono già di per sé di una dimensione ridicolmente piccola, spariscono nelle tasche delle amministrazioni corrotte che, come i progetti mastodontici, sono anch'esse un'espressione della miseria economica. Anche nel corso dell'assemblea economica annuale della Banca Asiatica per lo Sviluppo, nel maggio del 2000, sono avvenute proteste di strada contro i progetti di irrigazione realizzati a spese della popolazione: «Secondo l'opinione del professor Kazuro Sumi, dell'università di Niigata in Giappone. la Banca Asiatica dovrebbe smettere di produrre sempre più rifugiati dello sviluppo, a causa di progetti mal concepiti, che implicano la dislocazione di popolazioni locali» (Handelsblatt, 8.5.2000). Lo stalinismo "sviluppista" della Banca Mondiale, di istituzioni affini, di potentati megalomani di crisi e di alcuni capitalismi di Stato che ancora sussistono è altrettanto bravo a produrre le sue categorie di rifugiati quanto lo è il corso assolutamente normale della concorrenza nel mercato globale.
Spesso, i motivi di fuga si mescolano, quando le persone vendo colpite simultaneamente da diverse piaghe apocalittiche del sistema globale capitalista. Ma anche se non consideriamo le fughe in massa nel senso proprio del termine, possiamo osservare una migrazione lavorativa su scala globale, dalla periferia verso i centri. Secondo i dati forniti dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro, a Ginevra, oggi ci sono più di 120 milioni di persone che lavorano fuori dai loro paesi di origini: «In un mondo fatto di vincenti e perdenti, questi ultimi non spariscono semplicemente dal film, ma ci provano in un nuovo paese» (Stalker 2000).
Anche senza catastrofi dirette che obbligano alla fuga, la scandalosa disparità di ricchezza nel mondo degradato dal capitalismo mette in movimento le persone: «Salari più alti hanno l'effetto di una calamita - nonostante tutte le differenze culturali, linguistiche e geografiche. Così, operai messicano guadagnano negli Stati Uniti 276$ la settimana, mentre nei loro paesi di origine ne guadagnano solo 31$. Operai indonesiani devono considerarsi soddisfatti con 0,28$ al giorno nei loro paesi di origine, mentre nella vicina Malesia il loro salario arriva a 2$ al giorno» (Handelsblatt, 2.3.2000). Anche nei settori dei salari di miseria esiste una disparità, sia a livello globale che a livello di ciascuna regione del mondo, che porta inevitabilmente alle migrazioni di massa.
Se inoltre aggiungiamo a quelli che lavorano ufficialmente all'estero gli illegali, i movimenti migratori interni e i rifugiati delle diverse catastrofi, in questo movimento, più del 10% dell'umanità si muove per salvarsi dalle conseguenze del terrore economico e dei processi che da questo derivano.
Imperialismo di esclusione: muri e fasci di luce di morte alla moda liberale
Sono le masse di rifugiati dalle guerre civili, dalla miseria e "dall'economia" che provocano l'imperialismo di esclusione dell'Occidente. In questo modo viene definitivamente alla luce l'implosione globale della relazione di capitale e della sua appropriazione imperiale del mondo. Se, nella sua storia passata di ascesa e di imposizione, il capitalismo era insaziabile nella sua fame di carne umana, che cercava ancora di scoprire negli angoli più reconditi del mondo per incorporarli in sé, attraverso il "lavoro", ora somiglia ad un malato di cancro che ha perso l'appetito, e che è tormentato e sopraffatto dall'oggetto della sua concupiscenza di vecchio, che orna non riesce più né a inghiottire né a digerire, e che ora gli installa timore e ripulsa.
È un fatto che, dal punto di vista del vecchio imperialismo di espansione nazionale, il concetto inverso di un imperialismo di esclusione, che si presenta come difensivo, sarebbe sembrato semplicemente assurdo; ma, in termini ideologici, vi si può sempre vedere un ricorso ad un modello di idee proveniente dagli albori del 20° secolo, che all'epoca aveva solo la rilevanza di una corrente sotterranea. Come è accaduto tante volte nella storia dell'ideologia borghese, nel suo ambito, i desideri di espropriazione e sfruttamento dell'imperialismo e del colonialismo occidentale venivano proiettati sulle sue vittime, in una forma che era sia aggressiva che allucinata, di modo da far apparire il proprio comportamento come una specie di "difesa preventiva" contro un avversario che in futuro potrebbe trovarsi in posizione di superiorità. Sia nel mondo anglosassone che, soprattutto, in Germania, veniva inquadrato in quest'ambito il discorso popolare del "pericolo giallo" proveniente dall'Asia, che si diceva minacciasse di invadere l'Europa e il Nord America, come una volta le orde di cavalieri mongoli. Anche ai "giovani africani poveri" veniva continuamente attribuita una pericolosa vitalità e gioco di gambe, che avrebbe potuto far sembrare obsoleto "l'uomo bianco" che stava diventando effeminato nel lusso derivante dalla sua conquista del mondo. Il Declino dell'Occidente di Oswald Spengler è pieno di tali motivi conditi da tratti mitici.
La conversazione fa bar e mediatica rispetto all'attualità che afferma che "la barca è piena", così come la pseudo-teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà, si riallaccia chiaramente al contesto di questi motivi ideologici. E oggi, contrariamente al passato, le masse del Terzo Mondo e della periferia europea si trovano realmente alle porte del centro capitalista. Solo che non si tratta semplicemente di "popoli conquistati", incontaminati e agguerriti, come nelle fantasie idiota dei vecchi ideologhi capitalismi, ma di masse di miserabili, prodotte e sputate dal sistema globale capitalista, dei paria della fame, dell'AIDS e della violenza, così come di mafiosi postmoderni delle regioni in collasso che si convertono in imprenditori del rischio, il cui raggio di azione si estende all'Occidente.
C'è qualcosa di terribilmente miserabile e allo stesso tempo banalmente realista nel fatto per cui masse umane che arrivano in ondate successive vengano viste come una minaccia fondamentale, e respinte amministrativamente. Paure irrazionali degli "stranieri" che sbarcano, provenienti da una crisi mondiale prodotta da noi, si mescolano qui con gli interessi concorrenziali del tutto banali (ad esempio, riguardo al mercato del lavoro) e con motivazioni di "sicurezza interna", per quanto riguarda il formarsi di ghetti, conflitti di strada, criminalità di massa, ecc..
Come avveniva nel passato delle potenze di espansione nazionale-imperiale, in questo contesto si afferma in maniera più o meno diffusa un comune interesse concorrenziale e di dominio sciovinista dei lavoratori salariati e dei beneficiari di assistenza sociale, dei dirigenti delle grandi imprese e della classe politica occidentale, contro le masse dell'Est e del Sud globali, che tuttavia, nelle condizioni attuali, non cerca più l'incorporazione, ma proprio l'esclusione.
Questo carattere difensivo assassino è evidente anche nel discorso ideologico e culturale: persino da parte dei radicali di destra e dei neonazisti più ordinari, non si parla più di "spazio vitale all'Est", di "zone di influenza" nazionali, di annessioni coloniali o para-coloniali, ecc.. Queste fantasie una volta efficaci di un'autoaffermazione nazionale espansionista si sono convertite per così dire nel loro opposto, in una ideologia di chiusura e di esclusione, ad esempio con parole d'ordine come "la Germania ai tedeschi", "l'Austria agli austriaci", "la Francia ai francesi", ecc., oppure "la Germania innanzi tutto" ("l'Austria, la Francia, ecc. innanzi tutto").
Nella chiusura relativa ai flussi di rifugiati e alle migrazioni della miseria, in Occidente queste parole d'ordine diventano la dottrina generale dello Stato e il consenso in seno alla NATO, pur essendo meno in senso strettamente nazionalista di quanto lo sia in senso regionale, riferito al centro capitalista nel suo insieme. Questo sviluppo si riflette nell'espressione divenuta corrente di "fortezza Europa" e di "fortezza Nord America". Infatti, queste due parti del centro hanno cominciato negli ultimi vent'anni a costruire ciascuna una sorta di muraglia cinese, o di frontiera fortificata, ad immagine del Limes romano.
Negli Stati Uniti, questa "cortina di ferro" viene tracciata sulla frontiera con il Messico, come linea di demarcazione dello spazio latinoamericano. Sebbene il Messico e gli Stati Uniti facciano ufficialmente parte insieme al Canada di una zona di libero commercio (NAFTA), questa logica, per quanto riguarda gli Stati Uniti, non si applica in alcun modo ad un "libero commercio della forza lavoro". Contrariamente allo spazio commerciale dell'Unione Europea, che include il libero movimento dei lavoratori e, in tal modo, viene definito congruo con la relazione di inclusione ed esclusione, alla frontiera sud degli Stati Uniti questa relazione taglia a metà la stessa unione economica ufficiale. Esiste solo un interesse per lavoro a richiesta a buon mercato nelle zone alla frontiera con il Messico ("subappalti"), mentre viene impedita con ogni mezzo la migrazione in massa verso la California. È anche per questo motivo che le classi politiche degli Stati Uniti e del Canada reagiscono con freddezza e perfino con irritazione ad ogni iniziativa messicana, l'ultima delle quali è stata lanciata dal presidente Vicente Fox, volta ad ampliare il NAFTA per farlo diventare un'unione economica coesa, ad immagine della UE.
E i mezzi di esclusione sono drastici. Ogni notte, la polizia di frontiera degli Stati Uniti organizza delle vere e proprie caccia all'uomo, usando, per cercare i "malviventi", illuminazione notturna, sensori e cani. Questi muri di confine - letteralmente ad immagine di quelli con cui gli imperi, nell'antichità classica e non solo, cercavano di chiudersi rispetto agli intrusi - vengono sempre più rafforzati anno dopo anno: «Dall'inizio della "Operazione Guardian", alla fine del 1994, le autorità americane hanno trasformato la linea di demarcazione in una larga ed arida striscia di frontiera. Le nuove istallazioni fanno tornare in mente al visitatore europeo la lugubre memoria del tempo, ormai assunto come passato, del muro di Berlino, il tempo dei fasci di luce mortali e dei proiettori che tutto illuminavano come se fosse giorno. I bulldozer stanno ancora spianando la fascia che procede dall'Oceano Pacifico, lungo il letto cementificato del fiume che delimita la frontiera e i nuovi quartieri industriali, verso l'interno montagnoso. Lungo la linea di frontiera, unità dell'esercito (!) degli Stati Uniti collocano una prima barriera di acciaio - per una lunghezza di 44 miglia - contro l'esercito dei disperati provenienti dal sud. Piastre di acciaio, rimanenze della guerra del Golfo, sono state allineate a formare una linea divisoria alta tre metri e di un colore dissuasivo rosso ruggine. Dietro, una fascia larga dai cinquanta ai cento metri, equipaggiata con una serie di potenti proiettori e ripulita da ogni vegetazione. La fortificazione del confine prosegue lungo la zona centrale della città di Tijuana, per almeno due chilometri: pilastri di cemento a sezione rotonda, stretti l'uno contro l'altro, incoronati da una rete di acciaio, un ostacolo difficile da superare, alto circa cinque metri di altezza» (Neue Zürcher Zeitung, 8.7.1998).
Solo nel 2000, le truppe di frontiera degli Stati Uniti, il cui equipaggiamento è stato rinforzato con un costo di tre milioni di dollari, hanno arrestato quasi mezzo milione di persone che tentavano di attraversare illegalmente la frontiera. Il numero di morti alla frontiera sud degli Stati Uniti non smette di aumentare; nel primo trimestre del 2000, per esempio, sono state più di duecento le persone che, nel tentativo di immigrare, hanno perso la vita mentre fuggivano dai cacciatori di teste in divisa: le cause della morte non si limitano ad insolazione ed ipotermia, essendoci stati casi di migranti costretti a gettarsi nel fiume Tijuana, o sono stati soggetti a gravi maltrattamenti.
In questo contesto, alla crudeltà ufficiale delle truppe di frontiera si assomma la giustizia fatta con le proprie mani da parte dei proprietari di aziende agricole e fattorie, dal lato degli Stati Uniti, che si sono uniti in una razzista "lega dei cittadini preoccupati" e che, armati fino ai denti, organizzano la propria caccia alla fauna umana venuta dal sud: «[...] "Questo gruppo non sta facendo niente, né sul mio terreno, né negli Stati Uniti", proclama Robert Barnett, di 57 anni. L'allevatore [...] dichiara senza lasciare spazio ad equivoci: "Sono disposto anche ad uccidere". Anche David Stoddard ha rafforzato il suo arsenale. L'agente di polizia in pensione ha due cani da combattimento e possiede una mezza dozzina di fucili da caccia. "La mia casa è il mio castello", dice Stoddard, "chi vuole entrare qui con la forza si candida a passare a miglior vita[...]"» (Der Spiegel 7/2001).
Basta dire questo sulla libertà democratica di movimento dell'Occidente liberale e della sua potenza egemonica. Tuttavia, i "visitatori europei" non hanno bisogno di viaggiare fino alla frontiera del sud degli Stati Uniti per ricordarsi dei "tempi che fanno ormai parte del passato", del muro e dei fasci di luce mortali della vecchia Repubblica Democratica Tedesca. Per fare tale esperienza basta la loro porta di casa. Anche la "fortezza Europa" si chiude lungo due fronti regionali mondiali, facendo ricorso ad una "cortina di ferro" contro i rifugiati di guerra ed i migranti della miseria: da un lato, lungo il Mediterraneo, contro il Maghreb nord africano ed il Medio Oriente; dall'altro lato, alle frontiere dell'est dell'Unione Europea, contro l'Europa orientale e l'Asia centrale.
Nel Mediterraneo occidentale, la Spagna, con la sua guardia costiera e la sua polizia di frontiera pesantemente armata, costituisce lo Stato di frontiera contro le masse di migranti provenienti dal Nord Africa. In particolare, lo stretto di Gibilterra e le enclave spagnole in territorio nordafricano sono considerate zone critiche: «L'estate del 2000 sarà turbolenta all'incrocio fra Africa e Comunità Europea, sogno di quanti cercano una vita migliore. Già alla metà di agosto, le autorità hanno registrato in Andalusia più rifugiati che in tutto il 1999 [...]. Solo a Ceuta, che è come Melilla un'enclave spagnola in Marocco, la polizia ha fermato tremila "senza documenti" - un aumento del 50% rispetto all'anno precedente, tutto questo sebbene sulla linea di confine sia stata installata, al prezzo di un forte investimento, un rete di sorveglianza con vigilanza elettronica» (Süddeutsche Zeitung, 26.8.2000).
Nel Mediterraneo orientale, è soprattutto l'Italia ad essere responsabile del "muro di Berlino" dell'Unione Europea. Non sono state dimenticate le immagini di quei cargo, sovraccarichi di profughi albanesi, che, a metà degli anni 1990, si arenavano sulla costa adriatica, dalle parti di Bari; anche nelle vicinanze delle spiagge turistiche, cumuli umani costituiti di corpi sporchi e mezzo morti di sete, che venivano subito raccolti dalle guardie di frontiera. Nel Mar Adriatico, simili tragedie erano diventate pane quotidiano. La guardia costiera italiana conduce una caccia sistematica nei confronti dei disperati che arrivano sulle loro coste, come "malavitosi" insolvibili dalle regioni in guerra nel Sud Est europeo, dall'Anatolia e dall'Asia Centrale. Occasionalmente possono perfino concedersi il lusso di affondare "per errore" un'imbarcazione piena di rifugiati. Di quelli che annegano miseramente, non importa niente a nessuno.
Sia per l'UE che per la NATO, lo spazio mediterraneo è oggi definito soprattutto da questa strategia di chiusura: «Lo sviluppo demografico in molti degli Stati del Mediterraneo meridionale ed orientale e le cupe prospettive di futuro per la maggioranza delle popolazioni sempre più giovani producono un elevato potenziale migratorio, che si orienta soprattutto verso l'Europa. Se, inoltre, i conflitti e le crisi già esistenti in molti di questi paesi degenereranno in conflitti aperti, c'è da aspettarsi che ai migranti con motivazioni economiche si aggiunga un elevato numero di rifugiati dalla guerra e dalle guerre civili» (Jacobs/Masala 1999, p. 31).
La definizione strategica riferita a queste tendenze non obbedisce più alla logica della disputa fra potenze capitaliste per il dominio del Mediterraneo, come avveniva all'epoca della lotta policentrica e bipolare per l'egemonia mondiale, bensì alla premessa di un imperialismo di sicurezza e di esclusione, che riguarda tutto l'Occidente. In tal senso, «si può constatare che non è intenzione, né della NATO, né dell'UE, tornare a trasformare il Mediterraneo in un Mare Nostrum, ossia, in un'area di influenza egemonicamente strutturata della politica europea e transatlantica. Ma si pretende di trasformarlo in un Mare Securum, vale a dire, in una zona di confine che, in un prossimo futuro, non comporti rischi di sicurezza per lo sviluppo stesso delle società degli Stati europei e degli USA» (Jacobs/Masala 1999, p. 37).
Il blocco navale, come "cortina di ferro" contro i profughi, è diventato nel frattempo una consuetudine democratica anche dall'altra parte del mondo, in Australia; questo tema è emerso in forma drastica nel campo visivo dell'opinione pubblica globale con il dramma dei rifugiati verificatosi alla fine di agosto del 2001, al largo della Christmas Island (Isola di Natale). Dopo che il porta container norvegese "Tampa" aveva salvato 438 profughi - per lo più afghani, che si trovavano in difficoltà in alto mare - e si era ancorato nei pressi dell'Isola di Natale, che appartiene all'Australia, nel Pacifico, sia questa che gli Stati vicini, e perfino la Norvegia, si sono rifiutati di accogliere i naufraghi. Il comandante e l'equipaggio della "Tampa", che, a causa della mancanza di attrezzature adeguate, si sono trovati del tutto impossibilitati ad assistere i rifugiati (fra di loro numerosi bambini e alcune donne incinte) che sono state vergognosamente abbandonati alla loro sorte. Mentre molte persone, concentrate in uno spazio esiguo, soffrivano di diarrea, e si venivano così a creare a bordo situazioni igieniche indescrivibili, aveva inizio un indegno gioco di rimando fra gli Stati sul destino di queste persone.
Il primo ministro australiano, Howard, anziché rendere disponibili degli aiuti di qualche sorta, inviava delle truppe di élite in tenuta da guerra ad arrembare la "Tampa", per tenerla fuori dalle acque territoriali del paese. Mentre fra i profughi, gli uomini iniziavano uno sciopero della fame e, nella loro disperazione, minacciavano un suicidio di massa, Howard utilizzava i fuggiaschi dal regno degli incubi dei Talebani come esempio, per assumere, nel solito stile democratico, un atteggiamento di minaccia contro i "flussi umani". «Canberra aveva promesso di inviare alla "Tampa" viveri e medicine, ma non aveva fretta di passare all'azione. Howard aveva affermato che si trattava di una delle situazioni più complicate della storia recente dell'Australia. Secondo lui, il paese sembrava perdere il controllo sul flusso umano diretto in Australia. È tempo, ha detto, che venga assunto un atteggiamento inflessibile nei confronti di "presunti rifugiati" che tentano di premere sull'Australia» (Neue Zürcher Zeitung, 30.8.2001).
L'unica conseguenza di questo dramma è stato un rafforzamento militare della burocrazia di frontiera australiana e dei suoi cacciatori di teste: «Howard ha annunciato [...] un rafforzamento massiccio dei controlli alla frontiera australiana. È stata decisa con effetto immediato l'assegnazione di altre cinque motovedette e quattro aerei di sorveglianza per bloccare la frontiera a nord dell'Australia» (Neue Zürcher Zeitung, 3.9.2001). Così, per analogia con gli USA e la UE, ora si parla di una "fortezza Australia" che, come avviene qui, guadagna maggioranza democratica su una base chiaramente sciovinista. «La popolazione», dice un rapporto di un corrispondente nella parte meridionale del continente, «considera chiamata in causa la posizione del paese, in quanto isola dotata di una situazione considerevolmente di benessere in un "mare di povertà"» (Astbury 2001).
Così, la linea dura di Howard diventa oggetto di un'approvazione di massa: «Finalmente gli australiani tornano ad appoggiare il loro governo quasi senza eccezioni [...] Dargli il fatto loro e affondarli, è questa la parola d'ordine che si sente ad alto volume dagli altoparlanti delle radio» (Wälterlin 2001).
Nel cavalcare l'onda di questa simpatia infernale, il governo può perfino vantare "l'orgoglio" di aver dato un esempio. Se, però, sulla stampa europea questo cinismo viene appoggiato dalla "politica di implacabilità" (Wälterlin 2001), non è altro che pura ipocrisia. Alla fine, l'Unione Europea, nel Mediterraneo, difficilmente può essere superata in "politica di implacabilità". Passati solo pochi giorni dal dramma di "Tampa" (i rifugiati sono stati portati in Nuova Zelanda e, in parte, in un'isola inospitale del Pacifico), la Spagna ha accusato il governo marocchino di "lassismo" relativamente ai migranti illegali che si imbarcano dalle spiagge del Marocco diretti in Spagna.
Ma c'è ancora un altro aspetto per cui la tragedia del "Tampa" rimanda all'ipocrisia dell'insieme dei democratici. In quanto anche negli oceani l'umanità è divisa in un modo mai visto , fra povertà estrema e ricchezza oscena. Ai boat people della miseria si contrappongono gli altri boat people della ricchezza di crisi, entrambi sono in fuga - gli uni dalle catastrofi del capitalismo, gli altri dalle tasse sulle loro fortune, acquisite con i mezzi del capitalismo, e dalle conseguenze sociali della forma di fare soldi: «Intanto si sta già formando una società composta da due classi, anche negli oceani, dove esiste la differenza fra poveri e ricchi. Oggi si costruiscono enormi navi di lusso, sulle quali una persona può comprare un appartamento, ed avere un domicilio fiscale in alto mare - villaggi galleggianti di alto lusso, che non hanno bisogno di muri per essere separati dal resto del mondo, senza essere condomini chiusi, come avviene negli USA. Oasi fiscali mobili di privilegiati, che vanno navigando di porto in porto, sempre con la certezza assoluta di essere dovunque serviti con tutta la simpatia possibile. Per i rifugiati, il cargo "Tampa" è un enorme prigione. Per i futuri abitanti dell'altro tipo, però, l'oceano diventa la garanzia della loro totale libertà da qualsiasi responsabilità sociale, un paradiso in mezzo alla terra di nessuno. Ma cosa accadrebbe se dovesse essere proprio una simile nave di lusso a salvare i rifugiati da un naufragio - e questo è per loro un obbligo - e non il "Tampa"? I nuovi nomadi ricchi metterebbero a disposizione i loro bellissimi appartamenti? O non chiederebbero forse, contro gli intrusi, l'aiuto della Marina da guerra di quegli Stati cui prima hanno concesso poche o nessuna entrata fiscale» (Steinberger 2001).
La stessa caccia all'uomo che avviene alla frontiera sud degli USA, nelle acque australiane e in quelle del Mediterraneo ha luogo anche alla frontiera est dell'Unione Europea, lungo l'Oder e alla frontiera ceca. Qui è la Bundesgrenzschutz [guardia federale di frontiera] tedesca che dà la caccia a migranti e rifugiati, facendo ricorso a cani, autopattuglie e fari, che nel suo comportamento non è certo più contenuta dei suoi colleghi della polizia di fortezza alle altre "cortine di ferro" del capitalismo democratico, come comprovato da numerosi esempi: «Il tragico incidente è avvenuto alla fine di luglio del 1998, nei pressi della città sassone di Freiberg, vicino alla frontiera ceca. Due dozzine di rifugiati albanesi del Kosovo hanno tentato di attraversare con un furgone la frontiera esterna fortemente sorvegliata dello spazio Schengen. Il veicolo ha avuto un incidente in una curva mentre era inseguito ad alta velocità dalla guardia federale di frontiera tedesca (BGS). Nell'incidente sono morte sette persone. Più di venti sono i ricoverati in ospedale [...] In quei giorni, alle porte di Freiberg era in corso l'accampamento di frontiera relativo alla campagna "Nessuno è illegale". C'è stata una manifestazione insieme a diversi tentativi di organizzare un appoggio ai feriti [...] Ma la BGS era di guardia all'ospedale, come se fosse una prigione. Elementi della guardia di frontiera avevano preso accordi con il primario, con la polizia cittadina e con altre autorità locali che avevano assicurato l'isolamento dei feriti - senza che ci fosse alcuna base legale per tutto questo [...] Tutto questo è un esempio del modo in cui il diritto ad avere diritti è indebolito territorialmente, o addirittura sospeso. Nella zona di frontiera, che per legge ha una larghezza di trenta chilometri, i rifugiati, che sono stati catturati, difficilmente potranno fare un richiesta di asilo e si trovano sotto la minaccia di un'espulsione immediata verso il paese confinante [...]» (Dietrich 2000).
È anche significativo che, in queste regioni di frontiere dell'est della Repubblica Federale tedesca, con particolare attenzione alla città di Zittau, i tassisti sono oggetto di procedimenti penali se, nelle corse effettuate all'interno del paese, hanno trasportato persone che "probabilmente" hanno attraversato la frontiera illegalmente - ossia, devono prendere una decisione sulla base della faccia del cliente, cosa che in realtà è competenza delle autorità. Qui, viene reclutato a forza un intero gruppo socio-professionale come cacciatori di teste e denunciatori per obbligo. Naturalmente, la situazione alla frontiera dell'Austria con l'Ungheria e con la Slovenia non è migliore. La polizia austriaca, in qualche modo nota per il suo potenziale razzismo e per la sua propensione a commettere abusi, non è da meno dei suoi colleghi in Germania, in Spagna ed in Italia, relativamente alla brutalità nel trattamento delle persone private di diritti e messa a tacere.
Non ci può essere alcun dubbio sul fatto che le guerre balcaniche della NATO non sono state condotte solamente nell'interesse dell'imperialismo occidentale di sicurezza, ma anche (e forse soprattutto) nel contesto dell'imperialismo occidentale di esclusione. Già all'inizio degli anni 1990, l'«Handelsblatt» ha lanciato il grido di allarme relativamente alla «frontiera del benessere»: «L'Europa è minacciata, nel suo fianco orientale e meridionale, di essere presa d'assalto da una nuova migrazione di popoli» (Habicht 1992). Poco meno di un decennio dopo, è stato identificato il fulcro della migrazione illegale degli anni novanta: «I Balcani stanno per diventare la breccia della "fortezza Europa"» (Handelsblatt, 15.2.2001).
Secondo l'accordo di Schengen, che è entrato pienamente in vigore nel 1995, è stata stabilita la libertà di circolazione all'interno dell'Unione Europea; i mezzi di comunicazione socialdemocratico-capitalisti, ipocriti come sempre, hanno celebrato la rimozione delle barriere e dei controlli di frontiera come una presunta svolta epocale, come un superamento del pensiero strettamente nazionalista. Ma, nell'accordo di Schengen, la libertà di movimento all'interno viene espressamente vincolata al controllo rafforzato e per meglio dire brutale della frontiera esterna comune, a opporsi alla libertà di movimento relativamente alle masse di mezzi-umani e di non-umani "là fuori", all'esterno della capacità di riproduzione capitalista, la quale dev'essere mantenuta anch'essa "là fuori".
Tuttavia, la UE ha fatto sempre più sforzi per spingere più lontano la brutta frontiera del suo capitalismo di esclusione e dislocare così il lavoro sporco verso i paesi limitrofi, al fine di infangare il meno possibile l'immagine di idillio democratico. Soprattutto la politica di asilo si sforza di lasciare i problemi con gli Stati alle frontiere, fuori dalla UE. Tutti i paesi degli Stati dell'est candidati all'adesione alla UE, hanno dovuto compromettersi con trattati che li obbligavano a "riprendersi" i richiedenti asilo e i migranti illegali che erano entrati attraverso i loro territori e che erano entrati nella RFA o nell'Europa Occidentale, ossia ad assumersi il problema del trattamento di queste persone.
In tale ambito, la Commissione Europea e soprattutto il governo della Repubblica Federale Tedesca, come avvocato principale dell'allargamento ad est dell'Unione Europea, esercitano pressioni evidenti volte a far entrare i candidati più speranzosi, che sono la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria, già oggi avamposti del suo capitalismo di esclusione: «Nella Commissione Europea circolano, perciò, riflessioni a proposito di una "guardia di frontiera europea", che potrebbe includere funzionari dei nuovi e dei vecchi Stati membri[...] La Commissione sta ancora aspettando una risposta convincente da parte del governo polacco sulla questione di come pensa di proteggere meglio la frontiera permeabile con la Bielorussia e con l'Ucraina [...] In futuro ci saranno, alle frontiere esterne polacche ed in altre frontiere della Comunità, pattuglie miste di agenti di polizia di frontiera degli Stati attuali della UE con colleghi lituani, polacchi o ungheresi? L'idea secondo cui funzionari della guardia di frontiera tedesca potrebbero pattugliare la frontiera risveglia in Polonia, anche più di mezzo secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, terribili ricordi [...] (Bünder/Friedrich 2000).
Per soddisfare a tali pressioni spudorate, i governi dei paesi candidati all'adesione fanno sforzi sempre maggiori, nel senso che oggi hanno già messo in atto la durezza desiderata per la "difesa avanzata" della "fortezza Europa" alle sue frontiere orientali. Tutto ciò ha delle conseguenze ripugnanti per quanto riguarda la "libertà di movimento" all'interno dell'Europa dell'Est, che ora si trova suddivisa in una nuova maniera: «Quando la gente di Lemberg [Leopoli], la vecchia metropoli dell'Ucraina occidentale, vuole andare a far visita ai suoi amici e parenti che si trovano nella città polacca di Przemyśl, a un centinaio di chilometri di distanza, il viaggio diventa lungo[...] la frontiera fra le due città negli ultimi quattro anni si è trasformata in un baluardo impenetrabile. Filo spinato e pattuglie con cani allo scopo di tenete lontano qualsiasi immigrante illegale, elicotteri della polizia che sorvolano costantemente la fascia verde della frontiera, ai posti di confine camion ed autobus vengono passati al pettine. Fra coloro che risiedono nella zona di frontiera, questo schifo ha un nome significativo: cortina di Bruxelles (!) [...] Anche lungo i confini ad est della Slovacchia e dell'Ungheria la situazione è simile a quella del sud-est della Polonia. I cechi hanno bloccato anche la loro frontiera con il co-candidato all'adesione alla UE, la Slovacchia, nonostante il fatto che ai tempi della Cecoslovacchia, ossia, fino ad otto anni fa, questa frontiera era altrettanto invisibile delle frontiere fra gli Stati federali che formano la Germania[...]» (Oztowics 2000).
Gli Stati dell'Est che si trovano nella posizione migliore per entrare a far parte della UE, umiliati e degradati in questo modo, si sforzano di dimostrare alla UE la loro buona condotta, per mezzo della durezza contro i territori situati ancora più ad est. Così, il primo ministro rumeno ha scritto. nel luglio del 2001, in un zelante articolo pubblicato sul Frankfurter Allgemeine Zeitung: «La Romania comprende le preoccupazioni degli Stati membri della UE riguardo il crescente problema della criminalità organizzata transfrontaliera e dell'immigrazione illegale. Comprendiamo anche che, a causa della situazione geografica della vicinanza immediata con gli Stati successivi alla vecchia Unione Sovietica, la Romania sia stata finora considerata più una causa di tali problemi che un partner della UE. Negli ultimi mesi, però, il governo rumeno ha dimostrato che il paese sa mantenere la sicurezza alle sue frontiere [...] Il diritto di asilo della Romania è stato adattato alle norme della UE. È in questo modo che la Romania si prepara a che la sua frontiera orientale diventi la frontiera esterna della UE. La reintroduzione dell'obbligatorietà del passaporto per i cittadini della Repubblica di Moldavia in viaggio verso la Romania non è stata una decisione facile, dal momento che la madrelingua di due terzi degli abitanti del nostro vicino è il rumeno e, per di più, esistono legami storici e culturali molto stretti fra i due Stati [...]. Negli ultimi mesi, con un appoggio significativo da parte degli esperti tedeschi e ad immagine degli Stati membri della UE, la polizia di frontiera della Romania è stata dotata di una nuova struttura organizzativa. Duemila ulteriori funzionari sono stati distaccati al fine di garantire la sicurezza della frontiera. Facendo ricorso ai mezzi provenienti dal programma Phare dell'Unione Europea, e con l'appoggio di alcuni Stati della UE, l'equipaggiamento tecnico della polizia di frontiera è stato sostanzialmente migliorato. Il livello di sicurezza delle frontiere si avvicina alla norma della UE [...] Nel prepararsi all'adesione alla UE, la Romania si converte, dall'essere un paese di origine e di transito di immigranti illegali, in uno scudo contro gli stessi» (Nastase 2001).
In modo altrettanto ripugnante e sottomesso si comporta l'Ucraina, la qaule vuole anch'essa mostrare "serietà" capitalista rispetto alle norme di esclusione relative ai rifugiati e alle mafie transnazionali, sebbene ci sia chi accusa il proprio capo di Stato di attentati alla vita di cittadini malvisti: «In maniera più o meno aperta, gli sforzi dell'Ucraina vanno nella direzione secondo cui la futura frontiera esterna della UE diverrà non la sua frontiera occidentale con la Polonia ma frontiera orientale con la Russia» (Wehner 2000). Il comportamento delle truppe ucraine di confine è diventato brutale, con l'appoggio democratico tedesco, com'è ovvio: «Nella frontiera occidentale, nell'anno passato, nella provincia di Lemberg, sono state intercettati più di 700 immigranti illegali, e sui Carpazi, dove la frontiera è più facile da passare, circa cinquemila. La maggioranza proviene dallo Sri Lanka, dal Bangladesh, dall'Afghanistan, alcuni dalla Cecenia [...]. La qualità degli alloggi dei rifugiati in Ucraina è catastrofica. Secondo i rapporti dei collaboratori della Croce Rossa, a Lemberg si trovano rinchiusi fino a venti rifugiati per ogni stanza di 12 metri quadri, in una caserma delle truppe di frontiera. In inverno, quando non ci sono stanze sufficienti, decine di rifugiati sono stati chiusi in tende senza riscaldamento [...]» (Wehner 2000).
È inconcepibile fino a che punto il discorso occidentale si possa eccitare, anche più di dieci anni dopo la caduta del "muro di Berlino", fino a versare litri di lacrime di coccodrillo su questa "frontiera disumana", allo stesso tempo in cui non ha vergogna a reclamare "muro e filo spinato" contro gli "indesiderati". Qui, all'improvviso, non si tratta più di un "muro di vergogna", ma di un "baluardo democratico" contro gli umiliati e offesi del sistema mondiale capitalista.
Così, il PDS, in quanto partito successore del vecchio partito di Stato della Repubblica Democratica Tedesca responsabile della costruzione del muro, il SED, si esercita in scuse imbarazzate. Dice che nessuno Stato ha il diritto di limitare la libertà di movimento delle persone e di rinchiuderle nel loro territorio nazionale. Questa riverenza democratica apparentemente non è nient'altro che un gesto per ottenere il biglietto di entrata nello "arco di governo", e poter "assumere parte della responsabilità" per la nuova costruzione di un muro assai più grande nell'Est (sul quale, nel contesto di tutto il "dibattito delle scuse", non si spende evidentemente una sola parola).
Per quanto riguarda la meravigliosa libertà di movimento, finisce per non fare alcuna differenza fondamentale se le persone sono rinchiuse o escluse facendo ricorso alla violenza e a fortificazioni, se la caccia all'uomo ha come oggetto i migranti illegali verso l'estero o verso l'interno. Se vogliamo impegnarci in un'argomentazione circa la costruzione di un muro, allora la legittimazione che veniva fatta dalla Repubblica Democratica Tedesca era migliore: la burocrazia del capitalismo di Stato voleva impedire che la RDT spendesse il suo tempo a perdere costi enormi per la formazione di medici, ingegneri, scienziati, ecc., a causa del fatto che gli specialisti, una volta finita la formazione, se ne scappavano in Occidente, insieme al bagaglio della loro conoscenza. Si trattava di un enorme trasferimento economico a favore della RFT, a costo zero. E evidentemente gli specialisti volevano, indipendentemente da tutte le giustificazioni ideologiche, vendere meglio in Occidente il proprio capitale umano che avevano acquisito gratuitamente. Se la definizione dispregiativa di "rifugiato economico" ha una qualche pertinenza con gli esemplari di questo tipo. Il "muro di Bruxelles", al contrario, è rivolto contro le migrazioni dei miserabili causate dal terrore economico globale del capitalismo di concorrenza; la sua legittimazione è ancora più meschina di quella del "muro di Berlino".
Quanto maggiore diventa l'afflusso e quanto più dure diventano le misure di separazione nel corso degli anni 1980 e 90, tanto più "l'aiuto alla fuga" diventa un business mondiale, esercitato a livello professionale - un'ulteriore analogia con la storia del "muro e filo spinato" fra RDT e RFT. Ma se i membri delle organizzazioni di aiuto alla fuga relativo al muro di Berlino, che spesso non mancavano di essere avidi di denaro, sono stati celebrati in Occidente come eroi, i cosiddetti "sindacati dei trafficanti" vengono ora considerate associazioni criminali della peggior specie, anche se all'inizio non facevano niente di diverso rispetto a quanto facevano i loro predecessori con il muro che separava le due Germanie - sebbene su una scala molto più grande ed in maniera puramente commerciale, completamente priva di qualsiasi maschera ideologica di libertà.
Il business dei trafficanti tuttavia vale miliardi su scala globale, letteralmente una sorta di traffico di esseri umani, dettato dalle necessità della merce umana, il cui unico obiettivo, alla fine, è quello di poter vendere la propria pelle sui mercati occidentali del lavoro del capitale. In cambio di speranze spesso illusorie, i profughi, senza alcuna prospettiva nel loro paese di origine rovinato dalla legge di concorrenza del mercato mondiale, si vedono spogliati dei risparmi di tutta una vita. In Albania e in altri posti di partenza come la Bosnia-Erzegovina, radunano, armi alla mano, la loro "clientela" come fosse bestiame; e se durante la traversata dell'Adriatico compare la guardia costiera italiana, che per quanto li riguarda non sono stinchi di santo, i profughi vengono semplicemente obbligati a saltare fuori bordo, puntando loro una pistola alla testa.
L'altra odissea, via terra, consiste nel fatto che i trafficanti nascondono il carico umano ammucchiato dentro container montati su dei camion uguali a tutti quegli altri camion che intasano le principali autostrade europee, grazie alla politica capitalistica dei trasporti. Quando, nell'estate del 2000, funzionari della dogana britannica hanno scoperto in uno di questi container i cadaveri di 58 cinesi, che erano morti asfissiati, le lacrime di coccodrillo della stampa democratica sono tornate a scorrere copiosamente; lo stesso è avvenuto con i racconti sui bambini delle famiglie dei profughi che sono morti di freddo, o di stenti, durante la marcia illegale attraverso le Alpi. Morire annegati, asfissiati, di freddo, colpiti a morte o, nel migliore dei casi, andare a finire in un campo puzzolente o in una prigione aspettando l'espulsione è la prospettiva principale per coloro che danno tutto quello che è loro rimasto. Questo ci permette di valutare e misurare la loro disperazione. Ed è ancora peggio se pensiamo che sono soprattutto persone giovani e attive, con un residuo di solvibilità, quello che affrontano questo cammino lastricato di sofferenza. Come sarà per tutti quegli altri, i vecchi, i malati, quelli senza risorse?
Quello che in mezzo a tutto questo si percepisce dagli ipocriti mezzi di comunicazione socialdemocratici, non è mail il rapporto politico-economico globale di questo stato di cose, ma sempre soltanto la "mancanza di scrupoli delle gang dei trafficanti". Ancora una volta, l'effetto si converte in causa, l'apparenza viene dichiarata essenza. È raro che si faccia sentire una voce critica, come quella dell'inglese Jeremy Harding: «Non è difficile capire perché i trafficanti siano odiati, tanto dai governi quanto dalla polizia e dalla stampa. Rompono le linee di difesa degli Stati Uniti e della fortezza Europa e trasportano un virus criminale verso la terra promessa dei ricchi - una malattia che (almeno così pensiamo) ha una lontana origine. Ma quando, alla fine degli anni novanta, abbiamo assistito allo sbarco di centinaia di clandestini sulle spiagge della Puglia, abbiamo cominciato a chiederci se i trafficanti siano realmente l'incarnazione moderna del male. Non c'è dubbio, neanche per un attimo, sul loro fortissimo senso degli affari, né sulla loro mancanza di scrupoli nel trattare con delle vite umane, ma - grazie ad Adem, che ho conosciuto in un centro di accoglienza per migranti clandestini, vicino ad Otranto - ho imparato anche a guardarli da un altro punto di vista. Adem viene da Pristina [...]. È arrivato in Albania via terra e ha pagato 1750 marchi per un passaggio su un gommone[...] Adem mi ha raccontato, nel suo inglese stentato, dal timbro americano, che i piloti - chiamati scafisti - erano stati dei "very good guys", dei ragazzi a posto [...]. Quando [...] è comparsa una veloce motovedetta della guardia costiera italiana, ci aspettavamo il peggio. Invece lo scafista e il suo aiutante hanno virato, portando il gommone in acque poco profonde. L'imbarcazione della polizia si avvicinava pericolosamente... Adem era convinto che gli scafisti avessero corso un grande rischio procedendo in questo modo. Anche così, la tipologia filantropica dello Schlinder continuava ad essere una grande eccezione fra i trafficanti[...] Ma quando questi specialisti in affari dubbi ricattano i propri clienti, o li mandano verso una morte certa, quel che i profughi sperimentano è solo una variante alla moda di quella che è l'economia di mercato del fondamentale disprezzo per la vita umana, e che proviene da nemici ancora più potenti - sia da parte di quelli che li opprimono e li perseguitano che da quelli che vorrebbero tenerli lontani dalle frontiere del loro paese. I trafficanti sono dei semplici vettori fra i due poli di disprezzo, che si trovano al punto di partenza e al punto di arrivo del percorso di fuga [...]» (Harding 2000).
Ma non è tutto. In quanto, se qualcosa è ancora rimasto, gli ultimi risparmi non finiscono solo nelle mani dei trafficanti. Quel che è accaduto all'iraniano Nuzaki e alla sua famiglia è lo stesso che accade a molti profughi che cadono nelle mani della guardia di frontiera federale tedesca (BGS): «I trafficanti gli hanno fatto attraversale la frontiera, insieme alla famiglia, in una notte di dicembre. Ma mentre si trovavano ancora sul bordo del confine sono stati catturati dalla BGS. Il signor Nazaki si scalda visibilmente quando parla delle 48 ore che ha trascorso, insieme alla sua famiglia, nelle mani della BGS. Afferma che a nessuno importava niente della sua dichiarazione secondo la quale non poteva tornare in Iran [...] Il signor Nazaki prima di essere rimandato indietro ha chiesto al funzionario della BGS le ricevute. Le conserva ben avvolte in una busta di plastica. Parlano di "servizi di sicurezza" e di "costi di polizia". Per averli tenuti due giorni ed avere accompagnato i cinque membri della famiglia alla frontiera, la BGS riceve un totale di 2.600 marchi» (John 2000). Qual è allora la rapina maggiormente "senza scrupoli" nei confronti dei profughi privati di qualsiasi diritto: quella illegale e poco democratica, senza ricevuta - o quella legale e democratica, con diritto alla ricevuta?
Lo stato di eccezione globale
Quando si dissolve la sovranità, si deve dissolvere anche la relazione giuridica e contrattuale fra gli Stati. È in questo modo che generalmente viene posta la questione nella moderna forma giuridica borghese, ivi incluse le relazioni fra Stati. Ma questo significa soltanto che il vero nocciolo di violenza (e in un certo senso anche di arbitrarietà, sebbene non sia mai stato del tutto codificato) del moderno sistema produttore di merci e della sua forma giuridica viene allo scoperto. È decisivo per questa nuova qualità della crisi sistemica il fatto per cui il potere dominante, nella sua pretesa di tenere in piedi con ogni mezzo la validità universale del suo principio di realtà, non difende più la sua forma giuridica, ma viola sistematicamente il suo stesso diritto, spingendo così fino all'assurdo la forma giuridica in generale, che ormai non rappresenta altro che la relazione formale fra i soggetti del feticcio.
[...]
La logica dello stato di eccezione
A questo punto è necessario sottomettere questo meccanismo a orologeria, la sua logica e la sua origine, a un nuovo esame, stavolta più approfondito. Il concetto chiave per fare questo, è quello dello stato di eccezione. Com'è noto, il terribile giurista Carl Schmitt, uno dei pensatori più lucidi e allo stesso tempo più maligni della "Ideologia tedesca" del XX secolo, ha cominciato da tempo a tormentare i predicatori democratici della libertà, con l'aver collocato questo concetto al centro del dibattito fra gli specialisti del diritto costituzionale, insistendo spietatamente su questo. Nella sua opera dal titolo significativo di Politische Theologie [Teologia Política] si trova la celebre e famigerata definizione di ogni sovranità moderna, ivi inclusa, pertanto, anche la democrazia: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensí un concetto relativo alla sfera piú esterna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma a un caso limite." (Schmitt).
Nell'affermare questo, Schmitt si riferisce a due punti decisivi, che possono essere usati contro l'auto-comprensione dello Stato di diritto liberale da parte del positivismo giuridico, come sostenuto dal teorico del diritto di orientamento socialdemocratico Hans Kelsen, cui continuano a riferirsi in maniera significativa posizione come quelle di Hardt/Negri, e che, in generale, sono entrate nel senso comune di tutta l'illusione giuridica. Da un lato, Schmitt richiama un vecchio problema di tutta la teoria giuridica e costituzionale, vale a dire, il problema della costituzione: il quadro costitutivo del diritto non po' essere venuto al mondo attraverso il positivismo giuridico, ma unicamente per mezzo di una "decisione", che non si basa sulla verità e sull'oggettività, ma sulla volontà, sull'autorità e, in ultima analisi, sulla violenza: «Auctoritas, non veritas facit legem» (Schmitt).
Dall'altra parte, questo problema costitutivo rimane continuamente latente nella costituzione e in qualsiasi base giuridica, e può tornare ad evidenziarsi in forma manifesta, cioè, proprio sotto forma di stato di eccezione. Secondo Schmitt, lo stato di eccezione costituisce la verità originale di ogni costituzione e di tutto il diritto. Secondo tale concetto, è la soppressione della costituzione sul terreno della costituzione stessa, ossia, la manifestazione di base veramente autoritaria e che consiste nel potere decisionale puro, che viene ignorata dalla dottrina liberale dello Stato di diritto. In questo senso, Schmitt è riuscito a portare la sua teoria ad un'efficacia storica pratica, nella misura in cui, nel suo libro "Die Diktatur" [La Dittatura] (prima edizione 1921) ha dato l'interpretazione decisiva del corrispondente articolo 48 della Costituzione di Weimar, stabilendo così il quadro di interpretazione giuridico per la presa del potere da parte di Hitler.
Alla fine, e com'è noto, i nazisti arrivarono al potere attraverso elezioni democratiche, legalmente e passando per una catena di decisioni in termini di diritto positivo. È un fatto che, nel momento della crisi economica globale, hanno esercitato, similmente ad altri partiti, la violenza terroristica di strada, facendo ricorso ad una organizzazione paramilitare, nel caso le SA. Ma, di fatto, non sono arrivati al potere con un colpo di Stato; non hanno sciolto alcun parlamento facendo ricorso alla violenza armata, ma se ne sono "impossessati" in termini di diritto positivo (con il voto dei deputati cristiani e liberali!). Tutte le ulteriori misure si sono quindi potute svolgere nell'involucro del diritto positivo.
Questa circostanza è da sempre sgradita agli apologeti della democrazia e per i positivisti giuridici che hanno cercato di negarlo. L'opera classica in proposito è il libro di Ernst Fraenkel, "Der Doppelstaat" [Lo Stato doppio]. L'argomentazione è duplice. Da un lato si riferisce alla costituzione del regime nazista, dall'altro, alla sua pratica giuridica.
Relativamente alla costituzione, Fraenkel afferma semplicemente che la legalità della prese del potere da parte dei nazisti è una "leggenda", che si trattò di un "colpo di Stato". Tuttavia, questo concetto dev'essere spogliato da tutti i suoi attributi (modo violento di procedere, rottura dell'ordine formale, ecc.) per poter salvare l'apologetica democratica. In termini sostanziali, le argomentazioni di Fraenkel si limitano all'orizzonte temporale dello stato di eccezione, che ammette che ha potuto prodursi in maniera formalmente corretta, sulla base della costituzione di Weimar: «Una volta provvisti di tutte le prerogative di potere inerenti allo stato di eccezione civile, i nazionalsocialisti disponevano dei mezzi per trasformare la dittatura transitoria costituzionale (volta al ripristino dell'ordine pubblico perturbato) in dittatura permanente incostituzionale (per costituire lo Stato nazionalsocialista, con prerogative di sovranità illimitata)» (Fraenkel).
Quest'argomento è debole. In realtà non fornisce alcuna chiara definizione relativamente alla differenza fra "transitoria" e "permanente"; è una questione di discrezionalità che, in termini formali, continua ad essere situata nell'ambito del concetto di stato di eccezione. Il vero problema è precisamente la pura e semplice esistenza formale dello stato di eccezione nel quadro legale, cioè, la possibilità della "dittatura costituzionale" in quanto tale, cosa che Fraenkel elude vergognosamente. E, in termini di contenuto, si tratta evidentemente della questione di sapere che cosa, in ultima analisi, si debba intendere per "ordine pubblico" e per la sua "perturbazione", come tutto ciò si determini, ecc.. Il vero problema, tanto formale che di contenuto, dello stato di eccezione, che si riferisce all'essenza ed al nucleo della democrazia, cioè, l'essenza e il nucleo della "sovranità", viene ignorato da Fraenkel, proprio allo stesso modo in cui Schmitt lo porta impietosamente alla luce. La riflessione democratica rimane sempre secondaria, mentre si nasconde l'apriorismo costitutivo.
Non è affatto migliore l'argomentazione di Fraenkel a proposito della pratica giuridica del regima nazista, dopo che si è installato. Secondo Frenkel, si sarebbe trattato di uno "Stato doppio", nella misura in cui, sul piano del diritto civile, tutto avrebbe continuato ad essere in termini di diritto positivo, nel senso di uno "Stato di norme", mentre nel "settore politico" avrebbe regnato il puro e semplice arbitrio di un anomico "Stato di misure". Nel contesto di questo "Stato di misure", a suo avviso, «dentro questo settore, il potere dello Stato non viene gestito secondo i parametri del diritto, con l'obiettivo della realizzazione della giustizia [...]» (Fraenkel).
Quest'argomento che arriva quasi ad essere ingenuo, inoltre è falso. In primo luogo, la norma giuridica, evidentemente, non è mai assoluta, visto che nel caso concreto deve lasciare uno "spazio di manovra per le misure" (un margine di discrezionalità). Lo "Stato delle norme" e lo "Stato delle misure" non sono un'opposizione di contrari, ma le due facce della stessa medaglia. Pertanto, l'elemento di "arbitrio" è contenuto nella norma giuridica stessa; del resto, è già contenuto nel carattere escludente del diritto in quanto tale. Questa circostanza logica rimanda semplicemente al carattere dominatore di tutto il diritto, ossia, al carattere feticista della forma di società soggiacente, che esige la sottomissione ad un tipo irrazionale di relazionamento e che, in tal modo, è già di per sé una relazione coercitiva.
In secondo luogo, Fraenkel non ha il diritto, sotto la copertura del concetto morale di "giustizia", di introdurre un criterio quale quello dei contenuti, sulla cui definizione e derivazione si devono dare necessariamente delle spiegazioni. Nella sua essenza, tutto il diritto è puramente formale. Questa è una cosa che Fraenkel avrebbe potuto aver appreso da Kant, il maestro supremo che, com'è noto, rifiuta qualsiasi contaminazione di contenuti nella "pura forma aprioristica" e fa con decisione di tale vuoto di contenuto il fondamento di ogni etica moderna ed il fondamento di tutto il diritto moderno. Ma è proprio anche per questo che la "forma in quanto tale" vuota può essere riempita con qualsiasi contenuto. Non esiste alcun criterio formale che possa impedire che il razzismo e l'antisemitismo riescano ad acquisire forza di legge. In altre parole: anche l'omicidio di massa può essere svolto in termini di diritto positivo. Non è vero che in quest'ambito avrebbe regnato il puro arbitrio soggettivo. Al contrario il sinistro aspetto della macchina assassina dei nazisti consisteva proprio nel fatto che funzionava in maniera rigidamente normativa, anche in senso giuridico. Anche rispetto a questo, l'opposizione fra "Stato di norme" e "Stato di misure" è falsa. I perseguitati dal nazionalsocialismo avevano una certezza giuridica negativa. Il nazionalsocialismo non è stato contro il diritto, ma ha reso palese la base anomica del diritto, il suo presupposto tacito.
In un certo senso, Schmitt ha reso visibile il tallone di Achille della dottrina liberale dello Stato di diritto che, fino ad oggi, aveva eluso in maniera vergognosa l'elemento presente in qualsiasi costituzione democratica, lo stato di eccezione, insieme ai problemi giuridici e logici a questo oggettivamente inerenti. In questo modo, in fondo, veniva detto che il vero nucleo di ogni democrazia moderna è la dittatura, e la vera relazione di cittadinanza nello Stato della modernità è, in ultima analisi, un rapporto di forza. Tuttavia, Schmitt non mette allo scoperto questa sconveniente verità al fine di arrivare ad una critica emancipatrice della cittadinanza nello Stato e della sua relazione sociale formale (capitalista), ma lo fa, al contrario, solo per dare adesione alla decisione autoritaria, al potere decisionale puro in quanto fondamento ultimo di ogni sovranità moderna, inclusa anche e soprattutto la democrazia. Il teorico dello stato di eccezione è, allo stesso tempo, l'amante dello stato di eccezione ed il rappresentante intellettuale del potere autoritario come posizione ontologica.
Schmitt percepisce lo stato di eccezione e, con esso, anche il nucleo di violenza autoritaria della democrazia in quanto vera esistenza positiva della società, in quanto comunità di lotta esistenziale della nazione mistificata nella sanguinosa arena internazionale. Combatte la democrazia liberale e lo Stato di diritto come una specie di stato di debolezza della comunità del destino nazionale che, nella sua idea, oscura la dimensione esistenziale della politica.
In maniera diametralmente opposta, una critica emancipatrice radicale dovrebbe rompere, proprio per questo, con la democrazia liberale e con la dottrina dello Stato del diritto liberale, perché in queste forme si trova coagulata una relazione sociale di violenza autoritaria, che diventa palese nello stato di eccezione. È una critica inconseguente di Schmitt, difendere, in contrapposizione al suo pensiero, unicamente il modello ideologico della democrazia liberale, organizzata sul modello del positivismo giuridico, ossia, niente di più che lo stato di aggregazione coagulato, contro quello liquefatto, la relazione di forza, potere e violenza latente contro quella manifesta - senza riflettere sull'essenza comune ad entrambe queste forme di manifestazione: la sostanza della sovranità e della sottomissione alla logica della valorizzazione. E quindi senza riflettere neppure sulla democrazia unitamente al suo stato di eccezione.
Quest'opzione critica, che finora sembrava impossibile, è suggerita proprio dal processo postmoderno di decomposizione della sovranità, e dalla obsolescenza della stessa definizione del suo proposito sociale. Nella crisi mondiale della terza rivoluzione industriale e della globalizzazione transnazionale del capitale, ormai non esiste più la scelta del male minore, né la possibilità di un "patriottismo costituzionale" nei termini del positivismo giuridico, come presunto antidoto al potere autoritario e alla barbarie della violenza, dal momento che sparisce la base della transizione fra costituzione e Stato di diritto, ossia, la concorrenza fra la "società del lavoro" e la sovranità. Nella stessa misura in cui la perdita di sostanza del soggetto del lavoro e del denaro ha come conseguenza la perdita di sostanza del soggetto del diritto e dello Stato; lo stesso positivismo costituzionale e giuridico ostenta le tracce del potere autoritario e della barbarie violenta. Nello svelare il suo vero volto, la democrazia si converte nel suo proprio stato di eccezione.
Sulla storia dello stato di eccezione
Si tratta di una differenza qualitativa relativa alla storia passata dell'imposizione e dell'ascesa del sistema capitalista. Ai tempi di Carl Schmitt, lo stato di eccezione si differenziava ancora chiaramente dalla situazione giuridica "normale" e dalla democrazia liberale, e si riferiva unicamente allo spazio di sovranità nazionale. Allo stesso tempo, erano stati i profondi sconvolgimenti sociali delle guerre mondiali e della crisi economica globale che avevano reso manifesto lo stato di eccezione, con un'asprezza senza precedenti. Dappertutto, dove i movimenti sociali e intellettuali contro la guerra e contro le brutali restrizioni capitaliste nel corso della crisi minacciavano di superare la massa critica e di rompere la presunta legge naturale dell'inglobamento di tutte le risorse nel principio irrazionale della valorizzazione, gli apparati democratici mostravano il volto violento dello stato di eccezione. In Germania, la Repubblica di Weimar venne fondata come prodotto dello stato di eccezione, con un battesimo di sangue, ed ebbe fine con la presa del potere da parte dei nazisti, sempre con i criteri dello stato di eccezione e in un bagno di sangue.
Il costrutto della "sovranità popolare" si rivelò un'apparenza fondamentale e la maschera ideologica di un principio di realtà profondamente repressivo, sotto i cui imperativi il cittadino dello Stato, in quanto individuo, costituiva solamente una molecola della sovranità, nella misura in cui, in termini socio-economici, si arrendeva incondizionatamente alle forme di sviluppo del fine in sé irrazionale capitalista, ed in questo senso opprimeva sé stesso.
Dove, nella crisi, la scissione diventa troppo grande ed il carattere auto-repressivo della cittadinanza sovrana dello Stato democratico si incontra con l'esclusione sociale e la degradazione degli individui stessi, qui entra in vigore lo stato di eccezione, e la cittadinanza dello Stato viene in gran parte "sospesa"; la sovranità si stacca dai suoi presunti portatori molecolari, e si presenta come la forza autonomizzata della forma feticista che è per natura. Se il cittadino "sovrano" viene messo fuori dal gioco, innanzi tutto in termini economici, allora verrà escluso anche amministrativamente e poliziescamente, da questa sua sovranità polverosa, a prescindere dal fatto che abbia o meno coscienza del collegamento fra le cose.
Quando la storia dell'ascesa, dell'espansione e dello sviluppo del capitalismo non si era ancora esaurita, il problema dello stato di eccezione si manifestava solo durante l'esplosione delle crisi di imposizione e, quindi, come una sorta di presunto principio contrario alle repubbliche borghesi del 19° secolo e alle democrazie di massa del 20° secolo. A causa dell'evidente differenziazione esterna fra lo "stato normale" (conforme alla fase dello sviluppo: monarchia costituzionale, repubblica corporativa o democrazia di massa), da un lato, e lo "stato di eccezione" (la dittatura), dall'altro, si poteva creare l'illusione ottica che si trattasse di due diversi Nomoi fondamentalmente differenti, di due opposti principi politici di realtà.
E questo tanto più quando invece si trattava a volte di correnti politiche e di posizioni teoriche irriducibilmente nemiche, che rappresentavano i diversi "stati" sociali; solo alla socialdemocrazia, dopo la prima guerra mondiale, gli venne assegnato il ruolo di "mastino" e di agnello sacrificale democratico, insieme. Alla fine l'illusione giuridica del vecchio movimento operaio era consistita proprio nel voler convertire le categorie socio-economiche fondamentali della relazione di capitale, non superate ed ontologizzate, in un "socialismo" di cittadinanza di Stato e di sistema produttore di merci, come forma legale.
È proprio questa doppia menzogna, di voler convertire in qualcosa che veniva presentato come completamente differente la relazione sociale di resa incondizionata al feticcio della valorizzazione, senza rompere con questo principio ed esattamente nella forma di espressione giuridico-politica propria ad esso, che costituisce la cecità della sinistra politico-democratica in generale. Invece di riconoscere il carattere politico-giuridico dello Stato di diritto, in quanto necessaria forma secondaria di rappresentazione della repressione sociale inerente alla relazione di capitale, viene incessantemente giocata la maschera di carattere politica e giuridica contro la maschera di carattere economica, come se si trattasse di esistenze completamente differenti; e, come conseguenza di questo, si invoca anche, in seno alla propria sfera politico-giuridica, lo "stato normale" dello Stato di diritto democratico, in quanto Nomos contro lo stato di eccezione dittatoriale, come se fossero sostanze completamente differente ed inconciliabili.
La socialdemocrazia tedesca ha dovuto piegarsi alla sua vera identità quando, nella prima guerra mondiale e alle fine di questa. si è convertita nel mastino dello stato di eccezione; chiaramente, solo per poi continuare ad alimentare la vecchia illusione giuridica, come se non fosse successo niente.
A partire da questa opposizione apparente, è riuscita ad oscurare la realtà dei fatti, per cui è sempre la medesima sostanza di sovranità a presentarsi in due diversi stati di aggregazione, a seconda della situazione sociale globale della dinamica capitalista. I rappresentanti del potere decisionale autoritario, come Carl Schmitt, hanno mistificato in questo modo lo stato di eccezione come principio autonomo sociale della realtà, opposto alla democrazia liberale, sebbene esso rappresenti soltanto il nucleo e, simultaneamente, la posizione-limite estrema di quella stessa democrazia liberale. Al contrario, gli ideologi democratici, liberali e socialisti hanno nascosto la logica interna dello stato di eccezione, e ne hanno coltivato l'orrore falsificando le conseguenze di un Carl Schmitt, sebbene, ad ogni grande ondata di crisi, loro e i loro predecessori avessero dato un consenso tacito o del tutto esplicito a che la "normalità" (costituzionale, repubblicana o democratica) venisse battezzata col sangue.
Nel periodo di prosperità relativamente lungo seguito alla seconda guerra mondiale, nei centri occidentali, la sovranità è sembrata essere identica alla "normalità" liberale del positivismo giuridico; e, mentre la logica dello stato di eccezione è impallidita, le democrazie hanno preso ideologicamente le distanze dalle dittature della prima metà del secolo, e hanno preteso che la loro esistenza si sviluppasse secondo un principio di realtà completamente differente, alla fine pacificato facendo ricorso alla legge, e non più gravido dello stato di eccezione. Il problema logico e giuridico è caduto nel dimenticatoio.
Lo stato di eccezione permanente
Ancora più drastica è ora la rottura della democrazia stessa e dei suoi ideologhi rispetto al proprio principio giuridico e costituzionale positivista. Ma questa rottura non si presenta più sotto la forma dello stato di eccezione classico, e allo stesso tempo non è circoscritta al quadro della sovranità nazionale. L'ultima potenza mondiale, gli Stati Uniti, si arroga il diritto - in parte nel del "capitalismo globale ideale" democratico, in parte per contro dello "interesse" della sovranità nazionale - di organizzare a proprio piacere un tribunale sommario globale. Dal momento che non esiste alcuna vera costituzione mondiale, la Carta delle Nazioni Unite può essere violata senza che per questo si debba proclamare un'alterazione dello stato di aggregazione politico; nemmeno negli stessi Stati Uniti, i quali possono comportarsi in questo modo senza sospendere esplicitamente la loro costituzione.
Lo stesso si applica ai processi di de-legalizzazione sul piano interno. Gli abusi degli apparati di sicurezza e la sospensione dei supposti diritti di cittadinanza avvengono in zone grigie del positivismo giuridico stesso, senza che per questo lo "stato normale" democratico venga ufficialmente soppresso. In nessun luogo dei centri occidentali è stato dichiarato lo stato di emergenza ed è stata congelata la costituzione. Ma questo vuol dire soltanto che lo stato di eccezione democratico comincia a fondersi con lo stato di normalità democratica. Non avviene alcun cambiamento in forma esterna, non c'è nessuna proclamazione dello stato di emergenza sui mezzi di comunicazione sociale, nessun raduno obbligatorio generalizzato, e non ci sono i carri armati che prendono posizione nei punti strategici delle città; ma anche così, sussistono gli elementi dello stato di eccezione.
Gli attacchi e gli abusi pervadono la vita quotidiana e il regime giuridico positivo, rivelandone così presupposto anomico e repressivo. Sotto determinati aspetti, gli individui vengono annichiliti nella loro esistenza sociale, come dissidenti o soggetti sospetti, mentre, allo stesso tempo, l'opposizione può agire senza restrizioni; le persone "illegali", che si mettono negativamente in luce o che "si pongono al di fuori", spariscono, per mezzo di procedimenti privi di qualsiasi controllo, in prigioni e campi, mentre i "normalizzati", sicuri di sé, litigano ancora con le autorità in tribunale; la standardizzazione silenziosa dei mezzi di comunicazione sociale si accompagna a violente scaramucce sulle pagine culturali; mentre si verificano le azioni sanguinose delle forze di polizia e speciali, il "normale" clamore della concorrenza e dei servizi prosegue come se niente fosse; e i fatti sanguinosi dei guerrieri dell'ordine mondiale nella periferia vengono guardati in televisione, come se fossero partite di calcio.
L'inselvaggimento continuato degli apparati in libertà, le interruzioni del diritto a tutti i livelli e la mafiosizzazione della politica si sovrappongono alla "normalità" democratica: la società diventa un quadro enigmatico, in cui elementi di dittatura e di rappresentanza parlamentare, di violenza senza limiti e di positivismo giuridico si confondono gli uni con gli altri.
La ragion d'essere di questa differenza relativa a manifestazioni precedenti dello stato di eccezione non consiste, probabilmente, nel fatto che la democrazia dello Stato di diritto è più robusta di quanto lo fosse in passato, e in grado di risolvere le contraddizioni sociali, anche senza la proclamazione ufficiale dello stato di eccezione. Può essere che sia così nelle chimere degli ideologi della democrazia occidentale. Ma, nella realtà, la cesura decisiva fra il modo di procedere parlamentare e la dittatura non si verifica solo perché quel che è in discussione non è una qualche alterazione nello stato di aggregazione della sovranità, ma la decomposizione della sovranità stessa.
Con questo si indica anche la differenza relativa al regime nazista, sebbene questo possa essere considerato il precursore dell'identità immediata fra positivismo del diritto e stato di eccezione. Lo Stato nazista emerse da un processo di trasformazione in termini di positivismo giuridico dello stato di eccezione nella crisi economica mondiale e culminò nello stato di eccezione della seconda guerra mondiale; negli anni fra il 1933 ed il 1939, il regime ha rappresentato in un certo modo l'identità fra "stato normale" e lo stato di eccezione come, in un modo o nell'altro, è avvenuto nel caso di tutte le dittature di modernizzazione del 20° secolo (ma i nazisti hanno costituito un caso speciale, nella misura in cui, per mezzo della costituzione specificamente antisemita del loro regime, hanno acutizzato l'irrazionalità della relazione sociale, andando oltre il carattere di dittatura di modernizzazione, fino ad arrivare alla manifestazione della pulsione di morte).
Ma tutte queste manifestazioni di uno "stato di eccezione permanente", che si è evoluto in parallelo con un positivismo giuridico deformato, si trovavano ancora pienamente rinchiuse nell'involucro della sovranità, includendo in queste, com'è noto, l'olocausto nazista: l'attore continuava ad essere il potere sovrano in quanto tale. Le associazioni paramilitari del tempo del collasso dell'impero e dell'esercito erano state subito sottomesse al controllo dello Stato, come le milizie partitiche durante la crisi economica mondiale; anche i progrom della "notte dei cristalli" provenivano dall'orientamento amministrativo dettato dall'alto. La barbarie si presentava con l'uniforme unitaria dello stesso potere sovrano, che non si trovava per niente in dissoluzione; così come il modo di produzione capitalista soggiacente, che aveva ancora davanti a sé un'ultima esplosione secolare di accumulazione.
Oggi, al contrario, la liquefazione del nucleo violento della statualità moderna assume un carattere fondamentalmente differente, ed è anche per questo che l'interconnessione dello "stato normale" con lo stato di eccezione si riveste di una dinamica differente da quella del periodo fra le guerre. L'elemento dittatoriale non solo si confonde con il modo di procedere democratico, ma si miscela anche all'anomia post-politica e post-sovrana.
Per poter trovare una costellazione simile, non basta tornare alla prima metà del 20° secolo, ma bisogna andare fino alla storia proto-moderna del capitalismo; e non è per caso che teorici come Creveld, Münkler ed altri scelgono questo quadro di riferimento. È come se facessimo girare all'indietro la pellicola di un film, determinate fasi di transizione riapparissero in forma distorta e la modernità finisse per tornare a sparire nell'abisso del caos anomico che ne viene fuori. Quest'immagine è falsa solamente nella misura in cui il furioso movimento di marcia indietro avviene dopo secoli su un piano di sviluppo e di socializzazione più elevato, di modo che anche il potenziale distruttivo è molto più devastante e non coinvolge più solamente un determinato polo (europeo) più alcune zone di occupazione coloniale, ma la totalità dell'umanità planetaria.
Se lo stato di eccezione ha gettato da sempre una luce perfida sull'essenza dello "stato normale", perfino anche all'interno dell'involucro intatto della sovranità, l'interconnessione dinamica attuale del positivismo giuridico con elementi di stato di eccezione e con processi anomici sfocia in un nuovo tipo di barbarie secondaria che germoglia da questo involucro, in una forma che non può essere ricondotta al vecchio "stato normale", se non andando a costituire un nuovo "stato normale". Le misure statali dello stato di eccezione o degli elementi individuali sono ugualmente interconnessi con la privatizzazione della violenza, il tribunale sommario planetario dell'ultima potenza mondiale va di pari passo con la decomposizione totale delle relazioni fra Stati in quanto tali.
Nuda vita e volontà spezzata: lo stato di eccezione come Nomos occulto della modernità
Con questo, è diventata inevitabile la questione dell'essenza dello "stato normale" della sovranità, al cui stadio democratico più elevato gli ideologhi affermativi si aggrappano, per mancanza di concetti. Ad ogni nuova ondata di crisi globale, ad ogni nuovo attacco da parte della polizia mondiale del "capitalismo globale ideale", ad ogni nuova violazione del diritto internazionale, ad ogni nuovo atto di rinuncia al monopolio della violenza e ad ogni nuovo passo di de-legalizzazione sul piano interno e di esclusione giuridica, sta diventando sempre più impossibile che una persona si riferisca ancora in maniera ingenuamente positiva ai concetti di democrazia, diritti umani e dottrina dello Stato di diritto, senza perdere ogni potenziale critico e riflessivo.
C'è qualcosa nell'aria che fa sì che il potere sovrano soggiacente ad ogni democrazia e statualità di diritto venga trascinato sotto la luce della critica, anziché essere giustificato in maniera positivista, o venire semplicemente presupposto. Quindi non stupisce che l'iniziativa in tal senso da parte del filosofo italiano del diritto, Giorgio Agamben, abbia avuto una forte eco internazionale. Nel suo "Homo Sacer" (Agamben, 2002), partendo dal concetto di sovranità e di stato di eccezione di Carl Schmitt, arriva ad un verdetto devastante nei confronti del Nomos democratico, tuttavia in una versione critica [N.d.T.: Sacer, sacro, deriva da una parola indoeuropea che significa "separato"].
Agamben si interessa alla struttura paradossale dello stato di eccezione, che rappresenta la sospensione del diritto e della costituzione, sul terreno del diritto e della costituzione: «Uno dei paradossi dello stato di eccezione consiste nel fato che in esso, la trasgressione della legge e la sua conformità non possono essere distinti, in modo che, ciò che corrisponde alla norma e quello che la viola coincidono completamente (chi, durante un raduno obbligatorio, va a fare una passeggiata, non trasgredisce la legge più di quanto fa il soldato che eventualmente lo uccide, rispettando la legge) [...]» (Agamben).
Secondo Agamben, questo paradosso dello stato di eccezione si riferisce al paradosso della sovranità stessa: «Il paradosso della sovranità si esprime nel modo seguente: "Il sovrano si situa simultaneamente fuori e dentro l'ordinamento giuridico"... Il sovrano, che detiene il potere legale di sospendere lo stato di diritto, si colloca legalmente fuori dalla legge. Questo significa che il paradosso può anche essere così formulato: "Il diritto di pone fuori da sé stesso", oppure: "Io, il sovrano, che mi pongo fuori dalla legge, dichiaro che non esiste alcun luogo fuori dalla legge" [...]»
Quello che qui viene messo in discussione è il «punto di indifferenziazione fra la violenza ed il diritto, la soglia dove la violenza si converte in diritto, e il diritto, in violenza» (ivi), la «coincidenza della violenza e del diritto che costituisce la sovranità» (ivi). L'ideologia democratica della "sovranità popolare", positivista del diritto, secondo la quale questa sovranità è solo la somma dei sovrani individuali, o la «volontà generale» (Rousseau), si copre costantemente di vergogna nello stato di eccezione, in cui l'individuo si trova invariabilmente degradato a mero oggetto del «sovrano fuori dal diritto». Questo rimanda, evidentemente, al fatto che la "volontà generale" non è una volontà maggioritaria empirica, ma è la forma generale della volontà, posta dalla sovranità ed originariamente imposta agli individui, prima di qualsiasi contenuto empirico della volontà.
Il problema è sapere come le persone, alla fine, sono state bloccate all'interno di questo modo di sovranità, che si è autonomizzato di fronte a loro come principio politico-giuridico. In Agamben, il passaggio-chiave a questo proposito, recita: «Il sovrano non decide su cosa è ammissibile e cosa non lo è, ma sull'integrazione originale dell'essere vivente nella sfera del diritto [...]» (ivi).
La "integrazione" è una sottomissione che precede il diritto ed è tacitamente contenuta nel diritto, un bando, o per meglio dire, una messa al bando esente di contenuto, che viene sottoscritto a vita. «Il bando è una forma di relazionamento» che «non ha alcun contenuto positivo». Ed è solo una volta che viene enunciato il bando, che nella sua struttura avviene (in forma secondaria) questa decisione su cosa è ammissibile e cosa non lo è, in quanto contenuto del diritto.
Agamben fa risalire questa struttura - e il suo successo - alla posizione filosofica dell'illuminista-capo, Kant, che nella sua etica (la Critica della Ragion Pratica) fa riferimento soltanto proprio, e in maniera generica, alla «mera forma di una legislazione universale», dalla quale, secondo la sua opinione, si deve separare «tutta la materia, cioè, qualsiasi oggetto di volontà». Ora, questa forma assurda che astrae da ogni tipo di contenuto, è proprio tale "volontà generale", la forma di volontà della sovranità, che esiste indipendentemente, prima di qualsiasi contenuto della volontà, che può essere solo secondario e indifferente nei confronti di questa forma. Questa fantasmatica forma senza contenuto, la "validità senza significato" in quanto "principio vuoto" (Agamben) corrisponde al bando della sovranità che sottomette, il quale una volta consumato, assimila e incorpora a priori alla sua pretesa, alla sua validità vuota, qualsiasi contenuto concepibile.
Gli esseri umani che si vedono inglobati in questa messa al bando, soffrono, a causa della loro sottomissione al "principio vuoto" della sovranità, di una riduzione, che precede la loro soggettività in quanto attori nell'ambito della forma di volontà generale, e che risiede anticipatamente in tale soggettività: l'individuo, in quanto "semplice corpo vivo", viene degradato a soggetto-oggetto della sovranità, ridotto a "nuda vita", un concetto che ricorre in tutta l'opera di Agamben. Questa "animalizzazione dell'essere umano" è il presupposto della sua esistenza nel regime legale, o, come si dovrebbe dire secondo la formula della "pedagogia nera" (Katharina Rutschky): la volontà in quanto tale dev'essere spezzata, prima che possa sorgere un qualche contenuto di diritto.
Il luogo storico e sistematico in cui avviene la riduzione alla "nuda vita" e la "rottura della volontà" non è altro che il luogo dello stato di eccezione, il luogo della «esclusione originale, attraverso la quale si è costituita la dimensione politica». Gli esseri umano devono prima essere esclusi dal diritto per poter essere inclusi nel diritto: «Lo stato di eccezione, in cui la nuda vita è stata simultaneamente esclusa dall'ordine e abbracciata da esso, ha creato, proprio nella sua condizione di separato, il fondamento nascosto in cui si è accomodato tutto il sistema politico».
In quest'accezione, la funzione dello stato di eccezione è quella di portare «l'individuo ad oggettivare il proprio io e a costituire sé stesso come soggetto, legandosi simultaneamente ad un potere di controllo esterno». Lo spazio in cui lo stato di eccezione opera questa messa al bando, questo assoggettamento ed esclusione inclusiva, è il campo di concentramento; «nel campo di concentramento, lo Stato e la casa diventano indistinguibili», o, in altre parole: «Il campo di concentramento è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola». La riduzione alla "nuda vita", come presupposto della situazione di diritto, avviene in questo spazio del campo di concentramento, o, come si potrebbe aggiungere, in una delle sue numerose varianti nel corso della storia della modernizzazione (campo di lavoro, istituzione correzionale, colonia penale, campo di sterminio).
In tal senso, non si tratta di un mero fenomeno storico, ma di una logica inscritta nello "stato normale", sempre presente: «Di conseguenza, la fondazione non è un evento avvenuto in illo tempore, ma rimane permanentemente in vigore nello Stato borghese, sotto forma di decisione sovrana». Già Walter Benjamin aveva constatato «che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola». Il campo di concentramento è sempre una presenza invisibile «in quanto paradigma occulto dello spazio politico della modernità». Pertanto, è necessario che «si affronti il campo di concentramento, non come un fatto storico ed un'anomalia che riguarda il passato (sebbene ancora avvenga in un'occasione o in un'altra), ma in un certo senso come una matrice occulta, come Nomos dello spazio politico in cui ancora oggi viviamo».
In questo senso, Agamben proclama la «tesi di una solidarietà intima fra democrazia e totalitarismo». La democrazia non è altro che lo stato di eccezione coagulato, un'aggregazione del totalitario della modernità, che oggi comincia a tornare a dissolversi nel suo stato di costituzione: «Lo "spazio vuoto del diritto" dello stato di eccezione [...] minaccia [...] ora di coincidere dappertutto con l'ordine normale [...]».
Detto in altre parole: lo stato di eccezione che si nasconde nell'intimo dello "stato normale" nasce da un processo di crisi secolare: «In questa prospettiva, quel che avviene nella ex Jugoslavia, e la dissoluzione degli organismi statali tradizionali in generale nell'Europa dell'Est, non dev'essere visto come un ritorno della lotta di tutti contro tutti nello stato naturale, che sarebbe il preludio di nuovi contratti sociali e di nuove localizzazioni statali nazionali; al contrario, ci troviamo davanti alla manifestazione dello stato di eccezione, come struttura permanente della delocalizzazione e della dislocazione giuridico-politica. Non si tratta, quindi, di una ricaduta dell'organizzazione politica in forme sorpassate, ma di accadimenti premonitori che, come messaggeri insanguinati, annunciano il nuovo Nomos della Terra, che (se non viene rimesso in discussione il principio su cui si basa) tende ad estendersi su tutto il pianeta».
Resta di per sé inteso che una tale analisi ed interpretazione costituisce un schiaffo sul viso degli scrupolosi ideologhi democratici e dei guaritori del capitalismo. Non sorprende che la posizione di Agamben venga rifiutata con gran veemenza nella maggior parte delle recensioni, da un'estremità all'altra dello spettro politico-ideologico. Gli eterni apologhi della modernizzazione rimangono, evidentemente, particolarmente incantati dalla formulazione provocatoria secondo cui il campo di concentramento è il Nomos o il paradigma biopolitico della modernità, o perfino - come appare in alcune forme di Agamben - dell'Occidente in generale.
Nils Werber, che vorrebbe vedere il campo di concentramento come paradigma circoscritto al regime nazista, prende questa generalizzazione come occasione per fare, sul "Merkur", il quotidiano tedesco che è l'organo centrale del fanatismo dei crociati democratici tedeschi, una bella lavata di capo: Il campo di concentramento sarebbe il paradigma «(non) del regime nazionalsocialista, non del totalitarismo, non dell'imperialismo moderno, no: lo sarebbe di tutto l'Occidente! E come "paradigma biopolitico" Agamben non designa una linea di teoria politica, ora più ora meno importante nel corso della storia di quest'Occidente, ma lo spazio in cui il "potere soprano" opera la sua realizzazione "originale": quella di produrre nuda vita che possa essere esclusa e inclusa» (Werber, 2002).
È ovvio che non può essere così: L'ideologo occidentale della libertà è disposto a fare qualche concessione, per quanto attiene al riconoscimento degli orrori e delle funeste tradizioni del pensiero in Occidente, se possono essere limitate soltanto al regime nazionalsocialista, al totalitarismo e forse anche allo "imperialismo moderno" (nella sua forma passata). Ma una simile percezione critica non tocca le pietre angolari della costituzione moderna, e ancor meno la "nostra" meravigliosa democrazia: «Perché mai il campo di concentramento dovrebbe essere ora il nostro nuovo Nomos», insorge Werber, e prosegue: «Ciò riduce la differenza fra gli Stati democratici di diritto ed il Terzo Reich [...]».
L'esaltazione arriva fino a confondere la grammatica, davanti al tabù di portare alla ribalta il piano costituzionale comune allo Stato di diritto ed alla dittatura, al totalitarismo e alla democrazia di massa capitalista - il che non significa, in nessun modo, che così si facciano sparire le differenze storiche secondare. La dittatura moderna palese e il nucleo dittatoriale della democrazia, la violenza coagulata e la violenza liquefatta non sono immediatamente identiche, ma continuano a contenere qualcosa di comune, un nucleo comune o il fondamento primordiale della modernità, che in ogni caso non dev'essere svelato, perché altrimenti ogni ideologia democratica legittimatrice crollerebbe.
Ed immediatamente arriva il supporto di una voce dall'estrema sinistra, sul settimanale Jungle World, l'organo centrale della critica democratica tedesca del capitalismo nei limiti imposti dalla costituzione degli Stati Uniti: «Agamben trascura il fatto per cui la ricerca della felicità, l'inviolabilità del corpo, la salute e la soddisfazione delle necessità rappresentano l'esatto opposto del contenuto storico-sociale del suo homo sacer. Quello che è in discussione non è la nuda vita, ma la vita qualificata» (Baumann, 2002).
Qui, si approfitta di alcuni punti deboli in Agamben per rifiutare tutta la formulazione del problema e la critica contenuta nella sua argomentazione. Quello che lo rende attaccabile è, infatti, una tendenza all'ontologizzazione che, sotto un altro aspetto, si può anche trovare in Hardt/Negri e caratterizza, in termini generali, tutta l'elaborazione teorica moderna, contaminata da Heidegger, in cui Agamben incappa. In questo modo, egli adotta un approccio astorico che mette in cortocircuito diverse epoche della storia della modernizzazione e della storia (occidentale) in generale, e che oscura la costituzione specifica della modernità, quella che in fondo ci interessa.
Ciò vale soprattutto anche per, come dice lo stesso Agamben, per la «figura oscura del diritto romano arcaico», per l'homo sacer, che dà il titolo al suo saggio. L'homo sacer poteva essere ucciso senza che venisse punito chi lo uccideva, ma non poteva venire sacrificato, in quanto rappresentava, per Agamben, la "nuda vita", l'essere umano in quanto biomassa sottomessa, disponibile e passibile di essere ucciso, il livello preliminare alla "capacità giuridica" nella quale la minaccia di essere ucciso impunemente, della "esclusione inclusiva", rimane latente, in quanto va ad integrare la costituzione della forma del diritto.
Ora, la figura dell'homo sacer può essere, nel migliore dei casi, addotta come metafora della costituzione moderna, e questo dovrebbe essere indicato chiaramente. Invece, Agamben equipara letteralmente il problema di questa "figura oscura" al problema della cittadinanza moderna, e traccia una linea astorica dei concetti e delle realtà sociali, fino alle relazioni religiose dai primordi dell'antichità arcaica fino allo Stato costituzionale moderno.
La riduzione astorica del pensiero postmoderno corrisponde alla riduzione fenomenologica, dal momento che né i fatti storici né i fenomeni attuali vengono relazionati ad una determinata forma storica della società; ed è anche sotto quest'aspetto che Agamben resta attaccato al discorso postmoderni. Attraverso la sua adesione al concetto di "biopolitica" di Foucault, la cui concezione filosofica vuole in un certo modo pensare fino in fondo, raccoglie anche il concetto positivista e diffuso di "potere" in Foucault, che non permette più una chiara analisi strutturali delle sfere sociali e del relazionamento logico fra di esse.
Vediamo così Agamben costretto a sviluppare il carattere di sovranità e di stato di eccezione immediatamente a partire dalla stessa sfera politica, senza riflettere sulla relazione politico-economica globale della modernità. La sua esposizione scivola, perciò, sulla mistificazione delle categorie politiche, ed in questo senso quell'antica "figura oscura" dell'homo sacer serve a riempire un campo semantico corrispondentemente vago.
In questa imprecisione, anche il carattere specifico dell'antisemitismo e dell'annientamento degli ebrei sparisce in un concetto generale del "campo di concentramento" della modernità; un topos che, in questo modo, presenta tracce apologetiche sotto vari aspetti (e che minimizzano il nazismo). Così facendo. Agamben cade qui nell'errore opposto rispetto a questi apologeti democratici e borghesi di sinistra, che evidenziano soltanto il carattere specifico e singolare di Auschwitz per eludere di proposito la logica della modernità capitalista, così come la forma di coazione del "campo di concentramento", che nei molti modi in cui si presenta a tale logica è inerente. L'unicità di Auschwitz può essere pensata solo insieme all'universalità del "campo di concentramento" nella modernità, e viceversa.
Anche così, l'incursione di Agamben finisce per non essere apologetica, né minimizzatrice; al contrario, colpisce con precisione chirurgica il nervo dell'apologetica democratica, andando così molto al di là di tutte le costrizioni postmoderne e, non da ultimo, la falsa "immanenza" di Hardt/Negri (che, per questo, gli si riferiscono solo di sfuggita e con una certa riluttanza). Agamben evidenzia la medusa nascosta diete le frasi democratiche, dietro la promessa eternamente ruminata della "aspirazione alla felicità", della "salute e della soddisfazione delle necessità", del diritto umano alla "inviolabilità del corpo", ecc., che è una maniera in cui la "nuda vita" del bandito e dell'abbandonato viene rinchiusa nella presunta "vita qualificata" del cittadino dello Stato democratico.
Le case del terrore dell'economia d'impresa: Il capitalismo come stato di eccezione coagulato
Per mettere allo scoperto il nucleo della logica sviluppata da Agamben, però, bisogna estrarla dalla posizione invertita del postmodernismo fenomenologico astorico e metterla sui piedi solidi di una critica allargata dell'economia politica. Solamente dal punto di vista della macchina della valorizzazione capitalista "senza soggetto", dal punto di vista dell'irrazionale "soggetto automatico" (Marx) della modernità, il cui concetto Agamben lascia completamente in bianco, cosa che rimane ad ogni modo sorprendente, la logica della sovranità e dello stato di eccezione, della "nuda vita", della messa al bando e dell'esclusione inclusiva comincia ad acquistare un senso discernibile. Non è attraverso la falsa ontologia foucaultiana del potere o il semplice dominio (astorico), ma è per mezzo della costituzione polare specificamente moderna della politica e dell'economia, del lavoro astratto e della macchina dello Stato, che gli esseri umano vengono in un certo senso "animalizzati" e ridotti a meri "corpi vivi", prima che venga loro permesso di "qualificare" la propria vita in forma secondaria.
La forma del valore o la relazione di valore, incarnata nella forma del denaro riaccoppiata a sé stessa attraverso il processo di valorizzazione, in fondo ha costituito soprattutto questo vuoto metafisico, l'assurda «mera forma di una legislazione universale" di Kant, svuotata di qualsiasi contenuto, che appare in Agamben come "validità senza significato" o "principio vuoto". Quest'essenza divina secolarizzata di un'inaudita forma vuota, un vuoto di contenuto che domina l'intero processo vitale, fa della modernità la più mostruosa di tutte le relazioni di potere storiche.
La sovranità, la corrispondente volontà generale vuota, non è altro che la relazione di coazione politica di questa mostruosa forma vuota. E questo insieme globale di valorizzazione astratta e di sovranità, alla sua origine un risultato dell'economia delle armi da fuoco dei primordi della modernità e del dispotismo militare che l'ha accompagnata, rappresenta già in sé uno stato di eccezione permanente che, per così dire, è rimasto incorporato nella società.
Stato d'eccezione non significa, in fondo, altro che la soggezione esacerbata, portata al di là della misura normale (in quanto vuole che questa venga definita) dei membri della società fino a misure che non dipendono dalla loro propria decisione. Sotto il dominio delle forme feticiste interiorizzate, che trovano la loro espressione anche nelle istituzioni, amministrazioni di persone, relazioni compulsive di potere, ecc., evidentemente non esiste qualcosa del tipo "decisioni libere" dei membri della società. Ma lo stato di eccezione significa proprio un intensificarsi, un indurimento ed un'acuta esacerbazione del dominio, al di là di una misura "abituale", fatta diventare "normale".
Elementi isolati di quello che si presenta come lo stato di eccezione nella modernità esistevano già nelle relazioni di potere precedenti, naturalmente, proprio come una manifestazione intensificata del potere "addizionale" temporanei, per esempio, nel chiamare i membri della società per dare un contributo speciale in situazioni straordinarie: tributi, servizi per la guerra e lavori, sotto amministrazione coercitiva e repressiva di un'istanza feticista della società. I lavori forzati per costruire delle opere di fortificazione (esempi estremi: il Limes e la Grande Muraglia cinese), dei mausolei e dei monumenti sacri, o anche per dei progetti profani come canali, per l'approvvigionamento delle truppe, ecc., si inseriscono in questo contesto.
Quel che caratterizza lo stato di eccezione propriamente detto, cosa che prima della modernità difficilmente avveniva, è una manifestazione specifica della "anormalità", che è accompagnata da un tipo specifico di imprigionamento di grandi parti, o quanto meno significative, della popolazione; è da questo che proviene il concetto di "campo di concentramento". Non si tratta di prigioni convenzionali, nell'ambito delle relazioni penali, ma di "registrazioni" precedenti a qualsiasi relazione giuridica, o al di là di questa. Qui, il registro va oltre l'intervento di istanze di mediazione; diventa immediato.
Lo "stato normale" feticista è, per così dire, una prigione sociale e territoriale allargata, in cui le persone possono abitualmente muoversi, le loro azione di regola non vengono imposte nell'immediato e godono di un certo statuto giuridico. Nello stato di eccezione, questo statuto giuridico è, generalmente, "sospeso", la maggior parte delle azioni rilevanti viene imposta in maniera immediata e, per una determinata parte della popolazione, lo spazio della prigione si restringe, per così dire, fino alla propria pelle.
Le persone sottomesse allo stato di eccezione in senso più stretto si trovano in uno spazio sociale speciale separato, nel quale perfino la loro volontà viene ridotta, domata dalla forma feticista, alle loro necessità più elementari, e persino la loro vita fisica non vale più niente, dove tutte le relazioni del potere "normale", regolate, in qualche modo relative, vengono a trovarsi sospese, per dare luogo ad una sottomissione totale. In questo spazio di eccezione, gli individui si trovano slegati da ogni vincolo sociale e personale, letteralmente ridotti alla "nuda vita" che può essere uccisa, d'ora in avanti nient'altro che "manodopera" per il re-dio, o comandante, o principio al di là di ogni attività autonoma, anche quella vincolata ad un dominio.
L'economia politica delle armi da fuoco dei primordi della modernità ha prodotto esigenze di un potere dispotico di tipo nuovo, la cui caratteristica più saliente era un'insaziabile sete di denaro, per alimentare il complesso militare-industriale che stava nascendo con il cannone e la sua produzione, e a partire dalla quale doveva svilupparsi la moderna macchina sociale capitalista. Questa sete di denaro ormai non poteva essere saziata facendo ricorso ad un mero procedimento di incarichi straordinari e transitori; al loro posto, veniva prodotta la nuova qualità di un paradossale ed istituzionalmente elaborato "stato di eccezione permanente", che era associato alla nascita della sovranità moderna. Più precisamente: in realtà, lo stato di eccezione della modernità esisteva già prima del suo stato normale; in un certo senso, la normalità moderna si tirò su per i suoi capelli fuori da uno stato di eccezione mai visto prima.
Carl Schmitt si riferisce a questo stato di eccezione solo in maniera superficiale, secondo la sua famigerata definizione di politico come amico-nemico, dal momento che il suo punto di vista è essenzialmente nazionale: per lui, quel che è in discussione è l'auto-affermazione esistenziale esteriore della nazione, ontologizzata come "comunità di destino", sul terreno della battaglia delle "nazioni" in concorrenza fra loro. Ma il punto di vista di Agamben, e in questo consiste il suo cambiamento di prospettiva, non è nazionale e relazionato con l'esterno, ma sociale ed individuale e relazionato con l'interno: per lui, quello che è in discussione è la sottomissione sociale interna, la messa al bando sociale interna da parte della sovranità e dello stato di eccezione, che viene consumata nella riduzione alla "nuda vita". Pertanto, Schmitt argomenta in maniera essenzialmente affermativa, mentre l'argomentazione di Agamben è essenzialmente critica ed emancipatrice.
Di fatto, le "guerre di costituzione degli Stati" dei primordi della modernità hanno svolto una funzione costitutiva, ma si è trattato più di un sentimento interno, socioeconomico, che di un sentimento esterno (riferito solamente all'ambito della sovranità territoriale). Potremmo anche chiamarle "guerre di costituzione dell'economia", "guerre di costituzione del mercato", o perfino "guerre di costituzione del capitalismo". E qui si trattava della costituzione di uno stato di eccezione permanente, nella misura in cui il dispotismo della sovranità ha cominciato ad includere le persone del "suo" territorio, non più solo temporaneamente, in certe situazioni di necessità e di guerra, ma in maniera permanente, in uno spazio al di fuori di tutte le sue altre manifestazioni di vita e delle relazioni personali o sociali.
Il capitalismo è il paradosso di un incarico straordinario permanente. Si trattava di convertire la totalità del processo di riproduzione sociale in un unico "processo di raccolta di denaro" o "processo di moltiplicazione del denaro", e di convertire gli individui in macchine di lavoro ed al servizio astratto di questa "legge" inizialmente esterna ed imposta.
Questa mostruosità si presentava come stato di necessità costitutivo, o stato di eccezione come levatrice del capitalismo, la cui funzione era quella di piegare la mancanza di docilità sociale una volta per tutte. Nonostante il capitolo di Marx sulla "accumulazione primitiva" e le prime ricerche di Foucault, manca ancora molto prima che venga scritta la storia di questa violazione del modo di vivere nella società, senza precedenti nella storia dell'umanità; e non da ultimi, dovuto agli ostacoli, posti furiosamente, dall'apologetica democratica.
Inizialmente, la colonizzazione interna e quella esterna erano identiche, con le persone che appartenevano alle due sfere ugualmente assoggettate al dispotismo della macchina della valorizzazione. Ma nell'ulteriore decorso di tale processo la colonizzazione esterna e quella interna si separami; e, con l'ideologia illuminista, la soggezione interna viene caricata in maniera compensatoria con i modelli razzisti. I sottomessi "bianchi" dello stato di eccezione permanente possono darsi arie da membri inferiori dei dominanti, di fronte ai sottomessi "di colore", dal momento che questi ultimi, a ben vedere, non riusciranno ad uscire veramente dallo stato originale, costitutivo, della loro riduzione totale alla "nuda vita".
Lo spazio sociale dell'esclusione inclusiva, della riduzione alla "nuda vita", è stato fin dall'inizio uno spazio di coazione. Agli albori della modernità, il campo di concentramento portava ancora il nome di cosa, che in questo modo è arrivato ad avere il fantasmagorico significato secondario di "istituzione": la casa dei poveri, la casa di lavoro, la casa di correzione, la casa dei pazzi, la casa degli schiavi - le "case del terrore" dove, in maniera esemplare per la società nel suo insieme, avveniva l'apprendimento del lavoro astratto determinato da altri, un processo che si sarebbe esacerbato nei campi di concentramento delle successive dittature di modernizzazione e di crisi.
Questo stato originale di eccezione è diventato lo stato normale moderno, che si trova alla base di tutta la statualità del diritto. La relazione di capitale non è altro se non uno stato di eccezione coagulato, la costituzione permanente di uno spazio di inclusione escludente e di esclusione inclusiva che, in questo stato di normalità eccezionale secondaria, si presenta come lo spazio di sfruttamento dell'energia umana astratta nell'economia imprenditoriale. Il processo di valorizzazione si è dissociato dal fine originale della moltiplicazione permanente del denaro per alimentare la macchina militare ed è un diventato un fine sociale in sé. E la sovranità si è solo ritirata dallo spazio funzionale immediato di questo fine in sé, per collocarsi come una cintura di acciaio intorno agli individui confinati in questo spazio, e per mantenerli prigionieri per tutta la durata del loro tempo di vita attiva.
Questo spazio si situa, a ben vedere, fuori dalla vita, sebbene, in termini di tempo speso, si appropri e violi la maggior parte della vita attiva. È lo spazio in cui tutte le relazioni sociali e personali sono sospese, a beneficio delle relazioni puramente funzionali del processo di valorizzazione; lo spazio in cui i lavoratori "non stanno in sé, ma fuori di sé" (Marx); lo spazio in cui tutti i giorni avviene la più ampia riduzione alla "nuda vita", cioè, alla forza lavoro attiva, al dispendio dello sforzo astratto per il fine in sé irrazionale. Chi timbra l'ingresso nell'economia imprenditoriale in quello spazio astratto deve abbandonare ogni speranza di raggiungere una qualità di vita autodeterminata: qui non c'è più alcuna possibilità di auto-comprensione, rimane solo la "legge coercitiva della concorrenza" e la legge funzionale della valorizzazione del valore.
Gli individui, in tal modo confinati, attraverso una coercizione assolutamente immediata, sono privati di qualsiasi determinazione del contenuto della propria attività. In questo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale si respira ancora l'atmosfera della casa del terrore e del campo di concentramento, continuando a valere in esso le leggi della subordinazione dispotica e del comando militare, che si fanno beffe di ogni psicologia imprenditoriale e di ogni ideologia dell'auto-responsabilità. La pressione permanente nel senso di un maggior impegno e le campagne di gestione, la prosecuzione permanente degli imperativi senza soggetto sono solo un esercizio quotidiano dello stato di emergenza, un impegno quotidiano nella coercizione.
Solamente la "nuda vita" periodicamente girata sulla griglia per un periodo residuale di questo spazio funzionale di riduzione, può quindi, in funzione della sua capacità di riduzione e di sfruttamento, "qualificarsi" di per sé in maniera secondaria e come mero effetto collaterale del processo di valorizzazione, ma, in fondo, solo come ricondizionamento del proprio io per il prossimo impegno. La capacità giuridica di quest'esistenza è vincolata alla sua capacità di riduzione e, perciò, la "nuda vita" costituisce il nucleo dello "individuo libero e autonomo".
Quest'autonomia, però, non è altro che l'interiorizzazione dello stato di eccezione permanente, coagulato, in un processo di assuefazione repressiva e auto-repressiva, che si è evoluto nel corso di vari secoli (e che Elias, spudoratamente, eufemizza come "processo civilizzatore"). La concomitante" ricerca della felicità" da parte dei prigionieri ignari della concorrenza universale può sfociare solamente invariabilmente nell'abbandono assoluto. Anche la persona di successo nell'ambito del capitalismo è una persona abbandonata. E tutti i tentativi di "qualificazione" di questa "nuda vita", e anche la "salute" e la "soddisfazione delle necessità" nel senso più ampio, per principio non sono altro che dubbi sottoprodotti del fine in sé della metafisica reale in processo, come dimostrano in forma inequivocabile, ad esempio, le restrizioni all'accesso alla sanità che si verificano attualmente un po' in tutto il mondo.
La liquefazione dello stato di eccezione in quanto liquefazione della sovranità
Qualsiasi qualificazione secondaria della vita, anche il semplice status di soggetto del diritto, si trova ad essere, in maniera del tutto indipendente dalle possibilità sociali e materiali reali, soggetta alla capacità di riduzione e sottomissione capitalista dell'individuo. Si tratta di un'enorme minaccia latente, che può manifestarsi in qualsiasi momento: ossia, è la minaccia che la riduzione relativa, periodica, privata alla "nuda vita" si converta, o meglio, si riconverta in una riduzione assoluta, ininterrotta e pubblica (sovrana). Nelle crisi, lo stato di eccezione coagulato viene liquefatto, nella misura in cui torna a cadere fuori dall'ambito dello stato di "normalità" costituita e comincia a rivelare la sua vera essenza.
Lo stato di emergenza acuto consiste nel fatto che lo stato di eccezione permanente, diventato una seconda normalità, non può essere sopportato, e minaccia di rendere visibile il fatto che tanto le risorse quanto gli individui si trovano soggetti ad una messa al bando invisibile. La riduzione alla "nuda vita" torna allora a riflettersi nelle istituzioni del sovrano, la casa del terrore ed il campo di concentramento tornano a fiorire nello spazio funzionale dell'economia imprenditoriale, il lavoro forzato e l'amministrazione forzata indiretti tornano ad essere diretti, alla qualificazione secondaria della vita torna a sostituirsi la distribuzione primaria di di razioni di emergenza in funzione di una penuria artificiale, o di cose ancora peggiori.
Nelle crisi di imposizione e sviluppo del capitalismo, questo stato di eccezione secondario o potenziato era la liquefazione dello stato di eccezione nella sua composizione originaria, diventato permanente e coagulato dalla normalità capitalista, niente più di una variazione nello stato di aggregazione della sovranità, una transizione dalla latenza alla manifestazione. Anche sotto questo aspetto, la crisi mondiale della terza rivoluzione industriale assume una nuova qualità. Ora è la sovranità stessa che comincia a liquefarsi, dal momento che anche lo spazio di esclusione inclusiva comincia a dissolversi: la segregazione delle persone si riduce all'assurdo. La sovranità, nella misura in cui ancora persiste, reagisce a questo di riflesso, con le sue consuete misure di crisi, anche se queste non si risolvono in niente.
All'uscita dalla "società del lavoro" capitalista vediamo gli stessi processi di inclusione dell'entrata, semplicemente in senso opposto. Anche su questo piano, il film si riavvolge ad una velocità crescente, ma anche, e ancora una volta, ad un livello di sviluppo molto più elevato. La sovranità postmoderna ha inventato nuove forme di criminalità, ed ha inserito i delinquenti in massa nelle sue case del terrore, per materializzare il lavoro astratto. La sovranità postmoderna, nella sua agonia, inventa nuove forme di delinquenza, campi di concentramento, gestione delle masse e industria penale, ma ora lo fa per la massa dei superflui, nella cui esistenza il lavoro astratto si smaterializza. La sovranità recupera il compito di esclusione inclusiva dell'economia imprenditoriale, solo per farla sparire in un buco nero.
I progetti di salari bassi e di lavoro coercitivo a favore della comunità promossi dallo Stato sono condannati al fallimento, dal momento che non può essere costituita alcuna base autonoma di accumulazione, e questi non rappresentano altro che uno stato di transizione per nuovi strati di paria. Il concetto di "auto-amministrazione" e di "auto-imprenditorialità", assurdamente venduto da Hardt/Negri come emancipatore, e diffuso anche attraverso le proposte della commissione tedesca Hartz (in associazione con le misure coercitive istituzionali contro i disoccupati ed i beneficiari di prestazioni sociali), esige una economificazione esacerbata della coscienza, laddove ormai non esiste più alcuna economia per le masse degli estromessi.
Tutte queste sono solo forme transitorie di repressione sociale, che portano ad un vicolo cieco: i "superflui", o spariscono nel nulla, senza alcuna possibilità di riprodurre la propria vita, come avviene nella maggior parte della periferia, dove questa trasformazione si accompagna alla dissoluzione galoppante della sovranità e dello sviluppo delle strutture dell'economia di saccheggio e di violenza anomica. Oppure, dove la sovranità si trova ancora strutturata più fermamente, come avviene nei centri occidentali (soprattutto a causa della sua capacità di rifinanziarsi per mezzo del capitalismo delle bolle finanziarie che tuttavia sono allo stremo), devono essere raccolti a tempo indeterminato nelle prigioni, nei campi di internamento e in altri stabilimenti simili a campi di concentramento - esattamente come avviene con gli "illegali" e con i rifugiati. Quelli che si trovano più avanti su questa tendenza, sono i paesi anglosassoni, in particolare gli Stati Uniti. L'ultima potenza mondiale ormai ha messo in prigione milioni dei suoi "superflui", e quotidianamente sono migliaia ad ingrossare le loro fila.
L'imperialismo democratico di sicurezza e di esclusione si volge, così, non solo all'esterni, contro i "superflui" della periferia, ma anche sempre più
verso l'interno, sotto forma di amministrazione della coercizione e dell'emergenza dello stato di eccezione sociale, contro i "superflui" dello stesso centro. Alla fine della modernità, con il "film che si riavvolge", la colonizzazione interna ed esterna, senza finalità e che sfocia in niente, torna come repressione sempre più identica, contro gli "indesiderati" interni ed esterni.
Dappertutto, ora esistono due tipi di "nuda vita", sotto la dittatura della macchina di valorizzazione: da un lato, la riduzione relativa degli "occupati" che rimangono nell'economia imprenditoriale come pure unità di prestazione di servizio, nell'ambito dello spazio funzionale, che rimangono nello stato di eccezione coagulato, come stato di normalità e, di conseguenza, nella forma del diritto. E, dall'altro lato, la riduzione assoluta degli "estromessi" ad oggetti amministrativi puramente biologici, che vengono raccolti dallo stato di eccezione nuovamente liquefatto, nella forma dell'amministrazione del lavoro e dell'industria penale, e che vanno gradualmente cadendo fuori dalla situazione di diritto.
Gli oggetti vivi dell'eccezione sovrana vengono sottomessi ad una paradossale "appartenenza esclusa" che Agamben delinea in maniera apparentemente enigmatica: «È quello che non può essere incluso nel tutto cui appartiene, né può appartenere all'insieme nel quale da sempre si trova incluso». L'enigma si risolve stabilendo il riferimento alla relazione coercitiva del lavoro astratto. I superflui in termini capitalisti ormai non possono più essere empiricamente inclusi nel tutto della logica della valorizzazione, alla quale logicamente ancora appartengono, e ormai non fanno più parte dell'insieme delle unità vive di lavoro astratto, in cui, secondo la definizione capitalista di esistenza umana (ossia, secondo la loro propria forma di soggetto), continuano ad essere sempre inclusi.
L'integrazione nella cittadinanza che destituisce la cittadinanza e la cittadinanza della miseria
Nel processo di crisi della terza rivoluzione industriale, questo paradosso va verso una situazione senza uscita, che segnala la fine assoluta della "cittadinanza" moderna e, proprio per questo, viene ostinatamente negato dagli ideologhi. Così, per esempio, il filosofo accademico tedesco Odo Marquard delinea, nella "Apologia della cittadinanza", un "movimento di inclusione" del tutto controfattuale, cosa che equivale ad un'invocazione del vecchio programma di integrazione socialdemocratico nello stato di eccezione coagulato della logica di valorizzazione, solo che ora nelle condizioni della globalizzazione l'invocazione è altrettanto surreale di quella di Hardt/Negri: «Del mondo borghese non fa parte solo l'emancipazione del "terzo stato", ma anche il processo in cui il "quarto stato" - il proletariato - si va dissolvendo nel "terzo stato" [...] Questo comporta - contrariamente alla destituzione della cittadinanza, che Marx aveva erroneamente pronosticato nella sua teoria dell'immiserimento - il processo di "integrazione del proletariato nella cittadinanza", come venne designato nel 1835 da Franz von Baader [...] Con questo intendo dire [...] che questo - l'integrazione nella cittadinanza di quelli che sono apparentemente sempre più miserabili - sarà, nel lungo periodo, il desto dello sviluppo del Terzo Mondo: non l'immiserimento - come sostiene la teoria dell'immiserimento diseuropeizzato, che cerca nell'esotico la sua salvezza -, bensì la "integrazione nella cittadinanza" del Terzo Mondo [...]» (Marquard, 2000).
Nella misura in cui questo processo avviene realmente in forma paradossale, come individualizzazione capitalista ("ognuno è il suo proprio borghese"), si tratta della "integrazione nella cittadinanza" dei morti-viventi, dei soggetti de-soggettivati. La dipendenza salariale si dissolve in maniera meramente formale nella "auto-imprenditorialità" che, tuttavia, si rivela essere un'imprenditoria della miseria, da tempo ben nota nella periferia e che ora, con le affabili spiegazioni della sovranità e della sua amministrazione socio-economica dello stato di emergenza, si diffonde anche nel centro capitalista. L'immiserimento e la cittadinanza non si escludono affatto a vicenda.
La stessa cosa avviene con gli Stati al collasso della periferia: anch'essi sono secondariamente "integrati nella cittadinanza", nella "comunità delle nazioni democratiche", ma in qualità di zombie, come spettri esangui della statualità democratica, come involucri esclusivamente formali: la generalizzazione della forma (forma del valore, forma dello Stato, forma del soggetto) si è evoluta di pari passo con la sua desustanzializzazione. SI tratta, pertanto, di una paradossale integrazione (formale) nella cittadinanza attraverso una destituzione (sostanziale) della cittadinanza, come direbbe Agamben.
Quanto più nitida e brutale si presenta questa realtà, tanto più la coscienza ideologica della cittadinanza e della democrazia reagisce in maniera irritata. Per Odo Marquard, del presente si "dice male" solamente, così come, al contrario, il manipolatore di statistiche Björn Lomborg abbellisce con aria soddisfatta le devastazioni ecologiche, compensando, ad esempio, la distruzione dell'ecosistema delle foreste tropicali con le sue risorse insostituibili, cresciuto nel corso delle ere geologiche, con la messa a dimora di "foreste industriali" a crescita rapida, per arrivare così ad un bilancio positivo (Lomborg, 2002); oppure come i guru delle bolle finanziarie che fino a poco tempo fa facevano i conti miliardari della new economy.
Via via che si accelera l'immiserimento capitalista delle masse e la corrispondente distruzione della natura, nel processo di crisi della terza rivoluzione industriale, i controllori democratici esigono, con rabbia inquisitoria, una professione di fede generalizzata nello stato "sano" del mondo e nella propaganda illuminista per cui sta andando sempre meglio. Marquard vede nella critica dei disastri capitalisti solo la "esigenza" di "bambini tardo-culturalmente viziati, una "nostalgia del malessere nel mondo della prosperità": «Dove il negativo sparisce sempre più dalla realtà (!) - per mezzo di questa attenuazione del negativo stesso, costituito dalla cultura moderna (!) - non sparisce simultaneamente la predisposizione umana alla negazione [...] Ad opera di questa nostalgia del malessere [...] la prosperità stessa finisce per essere dichiarata malessere» (Marquard, ivi).
Questa provocazione è talmente irritante da far emergere la disposizione interna alla guerra civile. Laddove non è possibile qualsivoglia comunicazione sulla percezione della realtà, la volontà di distruzione reciproca è l'unica cosa che può ancora essere in programma. Senza una piena coscienza di questo, i simpatici ed affabili mastini intellettuali della società democratica feticista e distruttrice del mondo formulano, tutti loro, quello che è l'inizio senza vergogna di un programma di estinzione contro i "superflui", la cui mera esistenza in questo mondo "sempre migliore" viene avvertita come perturbatrice. Dietro il discorso eufemistico si nasconde il vecchio discorso dell'annichilimento svolto da Malthus, la definitiva ed assoluta riduzione della "nuda vita" a materia morta.
Quando la crisi supera la soglia quantitativa di dolore, le popolazioni degli homines sacri moderni alla fine possono soltanto essere cancellati in questo modo dal quadro idilliaco del mondo-Disneyland della "economia di mercato e della democrazia". La vita dell'homo sacer moderno è la "vita che può essere uccisa, ma non sacrificata", nel senso che questa "nuda vita", ricollocata allo stato di origine moderno di totale impotenza e totalmente squalificata, non può più essere sacrificata poco a poco sull'altare dell'economia imprenditoriale, per il fine in sé irrazionale della valorizzazione del valore, e viene, proprio per questo, rinnegata, proscritta, bandita, tuttavia prigioniera - finendo, in ultima analisi, per poter anche essere uccisa impunemente, indipendentemente dal modo in cui questo omicidio viene consumato, ad un certo punto ed in qualche modo, fuori dall'ambito di dominio sacrificale capitalista propriamente detto (anche attraverso la privazione graduale delle cure mediche).
Ebrei ed altri "superflui": la struttura dell'esclusione inclusiva
Quanto più spudorati diventano i disastri capitalisti, tanto più si accumula rabbia sociale, che anche all'interno del centro democratico viene scaricata per mezzo di grandi rivolte e conflagrazioni sociali sanguinose, non appena la sofferenza, l'amministrazione coercitiva, le restrizioni della vita e la represso dell'industria penale eccedono una massa critica. Ma questa rabbia non deve scaricarsi necessariamente in maniera emancipatrice.
E qui dev'essere formulata un'ultima correzione ad Agamben. Nella logica della riduzione potenziata a "nuda vita" nello stato di eccezione, si hanno all'inizio due forme, due tipi differenti di homo sacer. Potevano essere uccisi, ma non potevano essere sacrificati, da un lato, i "superflui" di ogni tipo, i vecchi, i malati, i disabili, i disoccupati di lungo corso, i mendicanti, ecc., ma anche i criminali ed altri delinquenti (fino ai "terroristi"), i quali hanno tutti raggiunto lo status di una "vita indegna di essere vissuta"; e, dall'altro lato, gli ebrei, in quanto potere dell'estraneità, sul quale veniva proiettato l'enorme potenziale dell'alienazione della società feticista moderna.
Il sotto-uomo negativo ed il superuomo negativo, come struttura polare di proiezione, costituiscono fino ad oggi il quadro del movimento eliminatorio, in cui lo stato di eccezione coagulato si liquefa. In questo modo, Auschwitz continua a rientrare nel Nomos del campo di concentramento, o della casa del terrore, e questa relazione non dev'essere celata, ma non è esattamente identica ad esso. La casa di lavoro, la casa di correzione e perfino il campo di "annichilimento attraverso il lavoro" rappresentano un tipo qualitativamente differente rispetto ad Auschwitz, il puro campo di sterminio per lo sterminio, che si è del tutto dissociato dal lugubre fine "utilitaristico" del feticcio della valorizzazione, per simulare una sorta di distruzione simbolica di questo stesso feticcio, attraverso l'annichilimento sostitutivo degli ebrei.
L'antisemitismo moderno è il succedaneo irrazionale della critica emancipatrice del capitalismo, una critica apparente del potere irresistibile del "soggetto automatico", attraverso l'esclusione reale che culmina nell'annichilimento degli ebrei; è anche per questo che costituisce l'ultima riserva ideologica della forma del soggetto capitalista: vale a dire, l'opzione di reindirizzare verso un oggetto succedaneo l'inevitabile rivolta contro le offese, salvaguardando il sistema.
L'antisemitismo costituisce simultaneamente un catalizzatore per il fiancheggiamento razzista e biologista o culturalista dell'imperialismo democratico di sicurezza e di esclusione. In quanto questa definizione del nemico costituisce una determinazione di sostituzione immaginaria, essa può dirigersi contro reali gruppi ebraici della popolazione, ma non necessariamente. L'antisemitismo, come sviamento proiettivo della rivolta, funziona anche senza ebrei, proprio perché si tratta di una proiezione fantasmatica. Il pogrom reale può ugualmente dirigersi contro "stranieri", gente di colore, disabili, emarginati, ma per questo è necessario il catalizzatore dell'antisemitismo (indipendentemente dallo status e dall'intensità che questo ha nella rispettiva situazione). Soltanto attraverso l'orientamento delle energie negative liberate dalla crisi per mezzo di quest'immagine fantasmatica diventa possibile anche la riformulazione razzista empirica del processo di esclusione. Solo quando il principio negativo può essere identificato "in alto", in maniera etno-culturale ed in termini di "biologia delle razze", negli ebrei, il meccanismo razzista di selezione di crisi può essere applicato anche "in basso", contro persone di colore, stranieri, ecc..
Il desiderio da parte delle masse di rimanere nella situazione di diritto e di esigenza dello stato di eccezione "normale" coagulato, e di deviare sugli altri la definizione di nuovi homines sacri, trova così una forma continua ideologica e pratica. Tuttavia questa logica interna del processo di crisi oggi si consuma ad un livello di contraddizione molto più elevato di quello del periodo fra le due guerre. La liquefazione dello stato di eccezione, non nel recipiente della sovranità, ma in quanto liquefazione e dissoluzione della sovranità stessa, dinamizza la pulsione di morte immanente alla forma feticista moderna: verticalmente ed orizzontalmente, in maniera trasversale agli strati ed ai segmenti della società globale, tutti si definiscono, l'un l'altro, come homines sacri. Il corrispondente impulso di sovranità in decomposizione si mischia all'impulso spontaneo della popolazione, e in entrambi il catalizzatore dell'antisemitismo funziona, in forma aperta o di nascosto.
Anche fra il fatto basilare della "superfluità" di masse crescenti di individui ed il collasso del diritto internazionale, fra la desustanzializzazione della forma del valore, del diritto e della sovranità e la legge marziale planetaria dell'imperialismo globale non esiste di certo un'identità immediata, bensì un ampio contesto di mediazione. Nondimeno, gli aspetti esterni ed interni della de-legalizzazione si condizionano a vicenda. E la ricomparsa dello stato di eccezione sociale originario, nella forma moderna primordiale della "nuda vita" e dell'homo sacer moderno, nella figura duplice dello "ebreo" e del "superfluo", è anche il sottotesto delle guerre esterne di ordinamento mondiale, nelle quali si manifesta lo stato di eccezione mondiale, che lascia il posto all'anomizzazione democratica.
Al livello della crisi della terza rivoluzione industriale, la prospettiva è quella secondo cui tutti gli esseri umani diventano "esseri umani dei diritti umani", come viene formulato da Agamben che si ricollega ad Hannah Arendt, in quanto ora "tutti sono homines sacri in potenza". Ma questa definitiva conseguenza auto-aggressiva di esclusione inclusiva, che sfocia nell'auto-annichilimento, si consuma ancora nel quadro polare di razzismo e antisemitismo, della definizione di una "vita indegna di essere vissuta", da un lato, e della proiezione fantasmatica di un principio "di razza aliena" che bisogna eliminare, dall'altro.
Tuttavia, questo processo oggi non si svolge più secondo il modus di una formazione più ampia della modernità, ma in quello della sua deformazione, in cui la forma politica si scompone insieme alla forma economica, e viene portata allo scoperto la "struttura fondamentale delle metafisica occidentale". Ma poiché Agamben non riesce a liberarsi dal concetto positivista di potere di Foucault, e la sua analisi chiarificatrice non si riferisce al contesto dell'economia politica, egli deve assumere, nonostante il suo ripudio della politica democratica, un postulato impotente, nel gergo dei Beck e Giddens, vale a dire quello di "fare spazio ad una nuova politica che, essenzialmente, dev'essere ancora inventata".
Qui non c'è niente da inventare. Nello stato di eccezione del 21° secolo, il Nomos della modernità non può essere cambiato, ma solamente abolito, se l'umanità non vuole abolire sé stessa.
- Robert Kurz - Pubblicato sul n°13 (Gennaio 2016) della Rivista Exit!
fonte: EXIT!
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