Silicon welfare
Il capitale privato tenta un esperimento di riforma dello Stato sociale: un salario minimo garantito (senza nulla in cambio) per chi non ha un lavoro Oakland fa scuola. E l’ex leader sindacale più dinamico d’America approva.
- di Massimo Gaggi -
Il primo esperimento inizia in questi giorni a Oakland, la città con i più seri problemi sociali tra quelle della Bay Area di San Francisco. Cento famiglie (ma poi si dovrebbe arrivare a mille) di diverse condizioni sociali riceveranno un assegno variabile tra i mille e i duemila dollari al mese senza condizioni. Poi si passerà a test più estesi a livello nazionale per studiare come l’erogazione di un reddito minimo, non legato a prestazioni lavorative o a una pensione, incide sui comportamenti individuali. L’esperimento è notevole, ma ancor più interessante è l’identità di chi ha preso l’iniziativa: non un’agenzia del governo federale né un
ente pubblico della California, ma Y Combinator, il più importante «acceleratore» delle start up della Silicon Valley (un acceleratore è una sorta di turbocompressore del venture capital). Un progetto di assistenza sociale finanziato (per ora) con capitale privato. Perché? La risposta più suggestiva si trova nella biografia di Sam Altman, il fondatore di Y Combinator.
Grande fan di Star Trek, Sam, 31 anni, è cresciuto in mezzo ai robot, ai processi di automazione. Così l’idea della riorganizzazione di una società nella quale gran parte del lavoro sarà sempre più automatizzato è diventata per lui un’ossessione. Mentre faceva crescere col suo turbocompressore start up come Airbnb e Reddit, Altman si è messo a studiare la fattibilità di un progetto di universal basic income (Ubi): un salario minimo garantito a tutti i cittadini. In America, Paese nel quale negli scorsi anni ben 22 Stati hanno votato contro l’estensione dei sussidi per la sanità ai cittadini poveri, introdurre un’idea di questo tipo è politicamente difficilissimo. Così, latitanti governo e partiti, Altman si è messo in testa di provare a occuparsi in prima persona, oltre che del modo di lavorare delle società tecnologiche, anche delle tutele sociali per il mondo del lavoro.
Velleitario a prima vista, il progetto, del quale si è discusso in questi giorni a San Francisco e a Washington, non è poi così campato in aria. E il motivo lo spiega a «la Lettura», durante la conferenza Next: Economy, un personaggio insospettabile: Andy Stern, che è stato il sindacalista più dinamico d’America. Capo
del Seiu, Service Employees International Union, la union dei servizi, prima motore e poi, dopo una rottura, spina nel fianco della grande federazione Afl-Cio.
«Ho fatto il sindacalista per 38 anni — racconta Stern —. Le ho tentate tutte, compreso il sostegno ai politici, progressisti e non, che promettevano di aiutare i lavoratori: nel 2008 il Seiu è stato il maggior finanziatore della campagna di Obama. Ma per anni mi sono alzato la mattina sperando di migliorare la condizione dei lavoratori e sono andato a letto la sera consapevole che, invece, la loro situazione era peggiorata. Purtroppo tecnologia e globalizzazione hanno prodotto uno tsunami nel mondo del lavoro. Quando ho cominciato, le Union rappresentavano un lavoratore su tre nel settore privato. Quando me ne sono andato, qualche anno fa,
il rapporto era di uno ogni 16. Bisogna cercare altri strumenti e l’Ubi è il più promettente», aggiunge Stern, che sull’istituzione di un reddito di base universale ha scritto anche un libro, Raising the Floor.
Il discorso non è facile: «Lo strumento è costoso, la politica recalcitra, ma nel quadro di una ristrutturazione complessiva dei sussidi sociali, da quelli per la casa ai food stamps (i buoni-pasto), l’Ubi potrebbe rientrare nelle compatibilità economiche e trovare consensi anche a destra. I conservatori libertari del Cato Institute, ad esempio, sono aperti all’idea del reddito minimo».
Stern, che ora insegna alla Columbia University e partecipa a vari progetti sul fronte delle tutele sociali, sa che i tempi non sono maturi: «La situazione del mercato del lavoro è difficile, ma non talmente drammatica da imporre interventi così audaci. E tuttavia il fenomeno Trump, alimentato dall’irritazione dei lavoratori impoveriti, è un segnale d’allarme chiaro. Che cosa succederà se, come prevedono molti, metà dei lavori attuali verranno automatizzati? Che faremo se le strade d’America si riempiranno di camion che si guidano da soli, lasciando senza lavoro tre milioni e mezzo di camionisti? È bene prepararsi. Il Pentagono lo fa, nel suo campo, attrezzandosi per le possibili guerre del futuro. La politica non sta facendo altrettanto rispetto agli scenari sociali che si vanno delineando. E allora ben venga anche lo sforzo di Y Combinator».
In effetti l’iniziativa in questo campo di un campione del venture capital è un’anomalia che fa storcere il naso alle organizzazioni della sinistra sociale come Causa Justa, favorevoli all’introduzione di un reddito minimo, ma non a un progetto elaborato da un campione del capitalismo privato. «Noi, però, ci limitiamo a studiare le dinamiche sociali che si creerebbero dando un sussidio incondizionato in denaro a un’intera comunità», spiega Elizabeth Rhodes, ricercatrice della Michigan University che ha lavorato a progetti di assistenza nei Paesi poveri dell’Africa orientale ed è stata assunta da Y Combinator proprio per gestire questa iniziativa. «Vogliamo capire come un sussidio in denaro cambia la vita, quali problemi risolve, come cambia la propensione al lavoro e allo studio, la gestione del tempo libero nei diversi strati sociali». Insomma la Rhodes promette di fornire dati senza la pretesa di imporre soluzioni politiche. Certo, che si muova la Silicon Valley è curioso, ma il progetto non ha nulla di stravagante: esperimenti di questo tipo sono in corso o stanno iniziando in Nord Europa e in Canada: ci stanno provando quattro città olandesi di medie dimensioni come Utrecht e Groningen, mentre anche la Finlandia e la provincia canadese dell’Ontario stanno puntando su formule di questo tipo. Ma per ora si va avanti al buio perché gli esperimenti fatti in passato in questo campo non hanno lasciato tracce significative. Gli oppositori dell’Ubi sostengono che, a parte i costi insostenibili, il sussidio rende pigri, è un disincentivo al lavoro. Ma in alcuni casi in cui è stato sperimentato il reddito minimo si è visto che a ridurre l’impegno lavorativo sono stati solo due gruppi: gli adolescenti e le madri con figli a carico. Si tratta però di esperienze limitate fatte diversi decenni fa: indicazioni poco rilevanti.
La settimana scorsa alla conferenza tecnologica che ha ospitato alla Casa Bianca e poi in un’intervista alla rivista del Mit, lo stesso Barack Obama ha riconosciuto che lo universal basic income va studiato con attenzione perché probabilmente in futuro, magari tra dieci o vent’anni, diventerà necessario usarlo se non si troverà il modo di creare posti di lavoro sostitutivi di quelli eliminati dall’automazione. Il presidente americano spera ancora che, come sempre accaduto in passato, la modernizzazione dell’economia faccia nascere nuovi prodotti e nuovi servizi capaci di creare molta occupazione aggiuntiva e ben pagata, ma ammette che al momento ci sono dubbi su questo scenario. Nei suoi otto anni alla Casa Bianca, comunque, Obama non si è di certo mosso in questa direzione. Comprensibile, visto che ha subìto
quasi sempre l’assedio di un Congresso ostile alle sue politiche e, soprattutto, contrario a ogni ulteriore espansione del ruolo dello Stato in economia e a ogni aumento della spesa pubblica. Ma non è stato sempre così. Sostenuta mezzo secolo fa in Europa soprattutto dai socialisti francesi (forme di salario minimo verranno poi introdotte dal governo di Parigi nel 1988) e dal filosofo inglese Bertrand Russell, alla fine degli anni Sessanta l’idea di un reddito minimo per tutti si diffuse anche in America e non solo a sinistra: entrò nella battaglia per i diritti civili di Martin Luther King, ma fu sostenuta con vigore anche dal celebre economista conservatore Milton Friedman che la propose con la formula dell’imposta negativa sul reddito. Friedman sosteneva che un sussidio semplice e generalizzato avrebbe ridotto la burocrazia statale, reso più efficienti i mercati e smantellato la trappola della povertà (il disincentivo al lavoro che si crea quando i sussidi vengono erogati solo al di sotto di una certa fascia di reddito). Il dibattito economico si trasformò in iniziativa politica e fu proprio un presidente repubblicano, Richard Nixon, a varare, nel 1969, una legge sul reddito annuo garantito. Mai entrata in vigore perché il provvedimento, approvato dalla Camera, fu poi bocciato dal Senato. Altri dieci anni e il clima cambiò completamente con l’arrivo al potere di due nemici giurati dello statalismo e della spesa pubblica alla Casa Bianca e al numero 10 di Downing Street: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Una mentalità che non cambiò in modo radicale nemmeno quando nel 1993 alla presidenza tornò un democratico, Bill Clinton: impegnato soprattutto a smantellare i vecchi meccanismi assistenziali che frenavano il mercato del lavoro, non pensò a introdurre strumenti di questo tipo anche perché allora l’impoverimento dei ceti medi non si era ancora manifestato in tutta la sua gravità. Sarà interessante vedere come si comporterà, in una mutata condizione sociale, sua moglie Hillary se fra due settimane diventerà presidente degli Stati Uniti. E, poi, ci sarà sempre l’ostacolo del Congresso. La paralisi potrebbe continuare anche se Stern sostiene che i conservatori saranno interessati a non fare le barricate se verrà offerto loro un reddito minimo universale inserito in un riordino del sistema dei sussidi: un groviglio di strumenti stratificati nel tempo, alcuni indispensabili altri discutibili, che assorbe mille miliardi di dollari l’anno.
Intanto, mentre si esplora l’orizzonte delle nuove tecnologie per capire se, quando e dove spariranno altri posti di lavoro e mentre si attendono sviluppi politici a livello federale, Oakland si appresta di nuovo a fare da città-laboratorio. Proprio qui cinquant’anni fa le Pantere Nere sperimentarono i loro «programmi di sopravvivenza» provando a fornire cibo, abiti, cure mediche e scuole alla gente senza l’intervento della burocrazia delle amministrazioni locali. Oggi, al posto dei rivoluzionari afroamericani marxisti-leninisti, a cercare di cambiare i rapporti sociali arrivano i campioni libertari del capitalismo tecnologico. Il sindaco Libby Schaaf li accoglie a braccia aperte, ma molte associazioni sono scettiche, se non addirittura ostili. «Saranno stanchi di fare da cavie», commenta Robert Reich, celebre economista della sinistra liberal. «Ma se Y Combinator distribuisce sussidi senza porre alcuna condizione, non vedo il problema».
I problemi arriveranno quando si tratterà di definire i meccanismi del trasferimento di risorse dai grandi gruppi tecnologici che beneficiano della rivoluzione digitale e che stanno accumulando ricchezze enormi (patrimoni in gran parte non tassati e inutilizzati perché bloccati all’estero) alle parti più deboli della società. «Si possono usare strumenti fiscali innovativi incrociando esigenze del lavoro, finanza e tutela dell’ecosistema — suggerisce Stern —. Ad esempio una Tobin tax sulle transazioni finanziarie, una carbon tax o un’imposta sul fracking, l’estrazione di petrolio e gas fatta usando questa tecnica redditizia, ma non priva di danni per l’ambiente». Commenta Tim O’Reilly, l’organizzatore della Next: Economy: «Come dice il mio amico Bill Janeway, economista e venture capitalist, è difficile che le ferite degli sconfitti siano curate grazie alla benevolenza dei vincitori. Che si rimboccano le maniche solo se subiscono una coercizione politica. Ma nell’America di oggi questi meccanismi di coercizione politica potrebbero non essere a portata di mano».
- Massimo Gaggi - Pubblicato su Il Corriere/La lettura del 23 ottobre 2016 -
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