Nel 2012, lo scrittore John Sutherland perse in maniera permanente il suo senso dell'olfatto. All'incirca nello stesso periodo, intraprese una rilettura dell'opera di George Orwell e - a partire dal fatto che si stava misurando con la sua menomazione - si rese conto di qualcosa di peculiare: Orwell era ossessionato in maniera positiva dagli odori. Nella sua originale ed irriverente biografia, Sutherland fornisce un nuovo punto di vista sulla vita e sull'opera di Orwell, una prospettiva che annusa un esclusivo percorso odoroso che porta ai "Giorni in Birmania" attraverso "1984" e alla "Strada di Wigan Pier".
Sutherland arieggia e fa uscire gli odori, i fetori, la puzza, i profumi intrappolati nelle pagine dei libri di Orwell. Dall'appartamento di Winston Smith, in 1984, che «rimandava un odore di cavoli lessati e vecchi tappeti sfilacciati» ai seducenti aromi dei capelli della concubina Ma Hla May nei "Giorni in Birmania", che «emanava da lei un odore misto di legno di sandalo, olio di cocco e aglio, cui si mischiava quello che emanavano i gelsomini nei suoi capelli», Sutherland esplora gli odori narrativi che abbondano nel mondo letterario di Orwell. Lungo la strada, risponde a domande che nelle precedenti biografie erano rimaste senza risposta, facendo chiarezza sulle lacune che lo scrittore aveva eluso. Così facendo, Sutherland rivolge ad uno dei più importanti scrittori del 20° secolo uno sguardo che allo stesso tempo diverte ed arricchisce e ci fornisce soprattutto un modo del tutto nuovo e sensuale di accostarci alla letteratura: quello del naso.
(dal risvolto di copertina di: John Sutherland: Orwell’s Nose. A Pathological Biography, Chicago UP)
Prendendo Orwell per il naso
- La mappa olfattiva dello scrittore -
di Paolo Bertinetti
George Orwell, l’autore degli ormai «classici» "1984" e "La fattoria degli animali", aveva un senso dell’olfatto particolarmente spiccato. Nel saggio intitolato "Orwell’s Nose", cioè "Il naso di Orwell", John Sutherland, fine studioso della letteratura inglese e brillante critico letterario, insegue gli odori citati nei libri di Orwell per rivelarci che hanno un significato decisivo.
Un anomalo odore lo si trova nella "Strada di Wigan Pier", il libro inchiesta sui minatori dell’Inghilterra del nord scritto nel 1936, quando le simpatie per l’Unione Sovietica erano diffusissime negli ambienti intellettuali inglesi. «Il socialismo, almeno in quest’isola», scriveva Orwell, «non soltanto non odora più di rivoluzione, ma odora di eccentrica supponenza, di adorazione delle macchine e di stupido culto della Russia».
Il naso finissimo di Orwell aveva colto l’odore della fine del sogno rivoluzionario. In compenso, nello stesso libro, mostra di apprezzare l'odore della miniera e dei minatori stessi.
Come anche - lo scrive in "Omaggio alla Catalogna" - l'odore che sentiva quando si trovava a fianco dei combattenti antifranchisti durante la guerra civile spagnola.
Diceva Orwell che il vero segreto della differenza di classe era racchiuso nella frase che spesso aveva sentito nella sua infanzia: «i poveri puzzano».
Per la verità a volte, nonostante il culto del sapone, puzzavano pure i ricchi. Anche perché, dice il libraio di "Fiorirà l’aspidistra", il denaro puzza!
La prima parte di "Orwell’s Nose" è occupata da una lunga prefazione in cui Sutherland illustra i punti centrali della sua indagine sull’importanza dell’olfatto nell’opera (e nella vita) di Orwell. La seconda parte è un’agile biografia, abilmente collegata ai testi letterari, che segue la scia degli odori. Il ritratto di Orwell che ne emerge è piuttosto lontano da quello che se ne ha in genere.
Viene dato il giusto spazio al suo impegno politico a partire dalla partecipazione alla guerra civile spagnola, alla sua attività di propagandista per la Bbc durante la guerra, al suo lavoro di giornalista per il settimanale socialista Tribune; ma viene anche sottolineata l’importanza dei legami con i suoi compagni di scuola dell’elitario college di Eton (furono alcuni di loro a «mantenerlo» e a garantirgli il lavoro di scrittore e di giornalista), la contraddittorietà della sua esperienza militare in Birmania, con gli ambigui atteggiamenti nei confronti degli «indigeni» e le numerose frequentazioni delle «indigene», un suo qualche sadismo nei rapporti sessuali e il suo corteggiamento insistente di ogni donna che lo attirava.
E infine il suo suicidio indiretto, con il lavoro intensissimo per riuscire a terminare "1984" tra rifiuto delle cure e accanimento di fumatore.
Il giusto spazio è concesso anche alla "Fattoria degli animali", la «fiaba politica» in un primo tempo rifiutata da tutti gli editori perché l’Urss era un prezioso alleato e che fu poi pubblicata a guerra appena conclusa, alla vigilia dell’inizio della guerra fredda (espressione questa coniata proprio da Orwell).
Gli animali che dopo la rivoluzione prendono il potere nella fattoria sono i maiali, mentre gli altri animali si ritrovano ad essere più servi di prima.
Perché proprio i maiali come metafora dello stalinismo?
Perché essendo gli animali più sporchi e puzzolenti erano quelli che lo disgustavano di più. Soprattutto per via dei loro escrementi - così come lo disgustavano anche quelli di molti animali e quelli degli umani. Non però lo sterco di cavallo. Nel quarto volume dei "Viaggi di Gulliver" di Swift, l’autore che Orwell aveva eletto a suo punto di riferimento, Gulliver, che si trova benissimo nel regno dei cavalli, quando torna a casa, dato che l’odore degli umani gli è insopportabile, si rifugia nella stalla con i cavalli: l’odore del loro sterco non lo disgusta affatto. La stessa cosa valeva per Orwell.
Alla fine del libro Sutherland fa notare come in "1984" non ci siano animali, se non i due ratti ingabbiati sulla testa del protagonista, pronti a mangiargli le guance o gli occhi. L’odore del topo (animale che suscitava in Orwell uno schifo agghiacciante) resterà nelle sue narici per sempre.
Insieme a quello del cavolo bollito e dello stufato fatto di schifezze fatte passare per carne: l’odore del totalitarismo.
- Paolo Bertinetti - Pubblicato il 21 ottobre 2016 -
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