mercoledì 18 dicembre 2013

La bellezza dell'insuccesso

benjam

Walter Benjamin, L’angelo assassinato
di Tilla Rudel

Chi è, lui, Walter Benjamin, eroe indiscusso del nostro tempo? E' stato un'icona per diverse generazioni, è stato celebrato da ricercatori e intellettuali, gli «stakanovisti benjaminiani», come li chiama George Steiner, dopo essere stato ignorato, respinto dall'università, disprezzato o quasi dai suoi contemporanei. A Francoforte, durante l'occupazione studentesca dell'università nel 1968, l'Istituto di studi germanici viene ribattezzato proprio con il suo nome: Benjamin, uno degli intellettuali europei più importanti del XX secolo, che tuttavia incarna, meglio di chiunque altro ad eccezione forse di Franz Kafka, suo fratello spirituale e di pensiero «la purezza e la bellezza dell'insuccesso». Come se avesse scelto apposta di soffrire così tanto.
Sempre al di fuori delle correnti, inclassificabile, sfuggente a qualunque catalogazione. Assolutamente senza confronto, come lo definisce Hugo von Hofmannsthal: schlechtin unvergleichlich. Cosa importa, quest'opera è fatta per essere esplorata, nel disordine e nell'amicizia, nell'arbitrarietà' stessa del caso, nella golosità dell'estratto. E' fatta di citazioni, di frammenti, di tentativi, di scintille, di diamanti come di carbone. Stéphane Hessel testimone prezioso riferisce della tradizione che consisteva, a casa di Walter Benjamin come a casa di suo padre Franz Hessel, quando si incontravano, nell'infilare un coltello fra le pagine della Bibbia. Poi leggevano il primo versetto in alto a sinistra: quelle parole erano considerate la spiegazione di qualche cosa del presente, o la risposta a una domanda fatta subito prima.
Così è l'opera di Benjamin: incompiuta, anacronistica, inqualificabile, ingiusta, imperfetta, frammentata, composta di tratti folgoranti, di razzi illuminanti. Benjamin è difficile da seguire, ed è per questo che si cerca la sua compagnia: con lui, il più abbandonato fra i solitari, ci si sente stranamente meno soli. Affascina.
Theodor W. Adorno dice semplicemente che «quando si era sensibili al suo pensiero, ci si sentiva come un bambino che intravede l'albero di Natale dalla serratura di una porta chiusa» (Su Walter Benjamin). Eppure l'esercizio che consiste nel ripercorrerne la vita e gli itinerari è reso difficile dal suo gusto per l'andare a zonzo, dalla sua percezione del tempo, della lentezza tipica dei malinconici, e dalla sua passione per lo spostamento continuo.
Questo Socrate moderno ha avuto mille indirizzi diversi. Contrariamente alla maggior parte dei filosofi della sua epoca o del XIX secolo, Benjamin ha viaggiato moltissimo, all'inizio volontariamente, poi nel periodo dell'esilio costretto a farlo. Possiede un'inclinazione per la fuga, perché l'amore lo porta a seguire le sue passioni ai quattro angoli d'Europa, è un gran camminatore, perché gli piace osservare e descrivere, di passaggio eppure di casa nelle città cui è più legato, Parigi e Berlino, Mosca e Gerusalemme, sognata con meno forza, New York immaginata ma mai raggiunta. Un fuggitivo forse, senza fissa dimora: quando scappa dalla Germania nel 1933, è per andare in Francia... Non va né a Londra, dove si sono trasferiti la sua ex moglie e suo figlio, Dora e Stefan, né in Palestina dove il suo amico Gershom Scholem lo aspetta per anni. E quando infine, a Parigi nel 1940, di fronte all'evidenza del pericolo, si decide a emigrare negli Stati Uniti con la complicità di Theodor W. Adorno e di Max Horkheimer, è troppo tardi...
L'esiliato, il proscritto, l'apolide è condannato all'anonimato della morte e alla mancanza di una vera sepoltura. Gettato nella fossa comune dell'indifferenza. In assenza di una spoglia sotto una pietra tombale, Benjamin resterà un filosofo in movimento, un filosofo di passaggio. Le uniche tracce certe di lui sono i suoi testi.
L'uomo è un giocatore, anche nella vita. Benjamin gioca a poker, il re dei giochi, con Gershom Scholem e Bertolt Brecht, e con quest'ultimo fa lunghe partite a scacchi. «Stancare l'avversario era la sua tattica preferita /Durante le partite di scacchi all'ombra del pero / il nemico che ti ha fatto abbandonare tutte le tue carte / da persone come noi non si lascia stancare » dice una poesia di Brecht. Gioca anche a Parigi, in rue Dombasle, con Arthur Koestler. Con degli sconosciuti su un treno. Gioca a carte, gioca al «go», gioca a soldi. E' bravissimo nel perdere tutto, tanto più che non possiede nulla. Frequenta i casinò, mette tutto sul banco, ne esce principe o mendicante.
Benjamin ama l'immagine di coloro che sono stati rovinati al gioco: la sua malinconia rivoluzionaria lo porta a dare la parola ai vinti, agli umiliati, ai dimenticati. Ha presagito con largo anticipo il disastro che la società europea stava per partorire: un immenso declino, come il passaggio dall'infanzia all'età adulta. La sua acutezza nel prevedere la rovina è impressionante.
Benjamin senza dubbio è inclassificabile. L'uomo dei passaggi di frontiera e delle trasgressioni. Lui che scrive dei passages parigini, che attraversa l'Europa come apoteosi del labirinto della vita, morirà vicino a una frontiera. Non si passa! E' la frontiera della sua opera: al crocevia fra critica, arte, filosofia, letteratura, cultura, teologia, storia, politica, combattuto fra marxismo e giudaismo, fra materialismo storico e mistica ebraica.
La sua modernità, l'eco straordinaria che incontra oggi si deve al fatto che è uno dei primi pensatori a incarnare quella multidisciplinarità che caratterizza la nostra epoca. E' uno scrittore, un traduttore, un giornalista, un filosofo, un poeta, un collezionista? Tutte queste cose o nessuna? E' certamente molto dotato. Tanto che Hannah Arendt scrive che «quello che era davvero difficile da capire in Benjamin era che, pur senza essere un poeta, pensava poeticamente» , mentre Gershom Scholem afferma: «Benjamin era un filosofo. Lo era in tutte le fasi della sua attività, e in tutte le forme che questa assumeva. Visto dall'esterno, scriveva per lo più su temi rilevanti della letteratura e dell'arte, spesso anche su fenomeni al limite fra letteratura e politica, raramente sulle cose che per convenzione passano per temi di filosofia pura e sono riconosciute come tali. Ma ad animarlo in tutto ciò sono le esperienze proprie del filosofo» (Walter Benjamin e il suo angelo). Per Adorno, questa filosofia «è fonte di terrore tanto quanto promessa di felicità».
Muore a quarantotto anni, nel 1940, quando si sta preparando l'Apocalisse. Muore senza aver mai saputo chi erano i suoi predecessori, né chi saranno i suoi discepoli. La memoria di lui è assassinata selvaggiamente nel 1940, ma gli uomini, che pure non amano ricordare, lo scopriranno e ne faranno un loro contemporaneo. La sua vita non è conclusa, non meno della sua opera. Susan Sontag dice che in lui «ogni frase è scritta come se fosse la prima o l'ultima». L'opera è straordinariamente anacronistica, unica. Postuma. Ogni giorno, dopo la sua morte, Benjamin vive un po' di più.

- Tilla Rudel - 

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