L’insistenza di Joyce
Appunto per questo scrisse Borges una volta, non senza una punta di ironia: «I miei scritti sono così poveri, che persino un magistrato può migliorarli». Non è detto infatti che non sia una prova di immaturità artistica quell’insistenza di Joyce giovane, fermamente protrattasi per ben tredici anni se non più,nel non voler mutare, non diciamo una riga ma nemmeno una parola dei suoi racconti, per quanto glielo chiedessero i successivi editori a cui il manoscritto veniva presentato; quasi che ogni pezzo di ogni suo racconto fosse stato una gemma, il che può pure essere vero se si pensa che quelle novelle erano destinate a diventare antenate di quasi tutti i racconti scritti in seguito per almeno quaranta o cinquant’anni. Ma se quei pezzi da sopprimere erano davvero gemme, è strano che Joyce non si sentisse abbastanza ricco e sicuro da poterle sostituire con altre ugualmente preziose.
La verità è che quei passi che ferivano editori e tipografi (perché in Inghilterra erano soprattutto le tipografie a subire i rigori della legge) erano stati messi lì appunto per ferire, ed è a questa sua personale vendetta o provocazione che Joyce non voleva rinunciare: per lui era importante poter chiamare «vecchia ubriaca» la regina Vittoria; ma su questo piano si confondono l’arte e la politica, e ogni passo in tale direzione è un passo appunto verso la concezione totalitaria, che dal confondere l’arte con la politica presto arriva al sostituire interamente con la politica l’arte. Questo è il cammino che hanno seguito molti dotati scrittori italiani, fino alla quasi totale cancellazione; e come sembrano oggi seri, persino al pubblico, quelli che non l’hanno seguito, si chiamino Campanile o Landolfi.
- Juan Rodolfo Wilcok - "Il Reato di Scrivere" -
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