mercoledì 30 gennaio 2013

buoni e cattivi

capitale

Evviva le frontiere! Abbasso la finanza!
Ecco lo slogan preferito dalla sinistra populista europea. Bisogna rimettere le dogane alle frontiere, e tassare le transazioni finanziarie - così continuano a martellarci, e lo slogan è stato ripreso anche dai conservatori. La sinistra, che sia moderata o "radicale", ha trovato il responsabile della crisi che ha investito tutto il pianeta a partire dal 2007. Il responsabile è il mondo della finanza, il banchiere cattivo, il malvagio speculatore! Sì, il vero nemico è lui - ci dicono - quest'uomo terribile che lavora per JP Morgan, per la BNP o per Goldman Sachs, e che specula con i soldi degli onesti investitori. E' lui che, giocando con i suoi computer, mette in ginocchio la sacrosanta "economia reale", fa salire alle stelle il tasso di disoccupazione, amplifica la crisi del credito.
Quest'analisi non solo è falsa, ma puzza anche di quel vecchio antisemitismo che finì per identificare nell'ebreo, il perfido banchiere. La finanza non è la causa della crisi, e le proposte di economisti pseudo-sovversivi come Frédéric Lordon non sono in grado di dare alcuna risposta a quello che sta succedendo. La verità è che non ci sono soluzioni. In ogni caso, non ci sono soluzioni in grado di salvare il sistema produttivo capitalista. Lo sviluppo di un capitalismo finanziario negli anni '80 e lo sviluppo esponenziale di un credito, un po' più recentemente, sono stati con ogni probabilità l'ultimo respiro del capitalismo. Come analizzato da Marx, il sistema capitalista possiede un suo limite interno, una vera e propria contraddizione inerente il suo funzionamento e che, fin dal suo inizio, ci parla del suo crollo inevitabile.
« La logica della valorizzazione capitalista reca in sé una contraddizione fondamentale che non può essere risolta. Da un lato, bisogna che sempre più forza lavoro venga impiegata nella produzione di merci, al fine di garantire la valorizzazione del capitale; la moltiplicazione del denaro, diventata un fine in sé, per mezzo dell'impiego di forza lavoro, è un fine astratto e quantitativo, e non conosce alcun limite logico. Dall'altro lato, la concorrenza onnipresente obbliga as aumentare continuamente la produttività per "razionalizzare" la produzione. Ciò vuol dire che bisogna produrre sempre più merci per unità di tempo, cioè ridurre il tempo di lavoro necessario fino a rendere "superflua" la forza lavoro.» (Norbert Trenkle, in
«Qu'est-ce que la valeur et qu'en est-il de sa crise? Une introduction à la wertkritik»
).
La ricerca del plusvalore (profitto) è alla base del modo di produzione capitalista, l'utilità di quel che viene prodotto conta assai poco. A partire da questo, si aprono due strade per il genere umano. In primo luogo, si può continuare a mettere cerotti sul corpo già morto del nostro buon vecchio sistema capitalista, e ciò è quello che si contenta di proporre la sinistra, che sia rosa, verde o rossa. Si può continuare a inanellare piani di rilancio, di austerità, o di non importa cosa, per cercare di ottenere il ritorno della crescita, come fine in sé. E noi, consumatori-pecore-elettori, si può continuare a chiedere lavoro, aumenti salariali, diritto di voto. Altrimenti, forse è tempo di guardare le cose come stanno, Forse è tempo di capire che il "lavoro", nel senso capitalista del termine, non serve affatto l'interesse della società, ma quello del detentore del capitale, e che esso è diventato oggi un elemento di controllo sociale primordiale. Il mutamento dovrà essere radicale, e va fatta un'analisi profonda del capitalismo e delle sue categorie (stato, valore, denaro, merce ...) per riuscire a porre le basi di una società post-capitalista.
La mera denuncia del cattivo speculatore, non solo non è in grado di apportare niente all'analisi, ma finisce per avere, come conseguenza diretta, proprio la xenofobia, in una società dove l'avvento del fascismo rischia di diventare un problema reale.

J.B.

fonte: http://palim-psao.over-blog.fr

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