martedì 25 ottobre 2016

Una sovranità disperata

molecolare

Lo stato d’eccezione molecolare
- Coscienza di crisi e "svolta teologica" della postmodernità -
di Robert Kurz

La postmodernità è arrivata alla fine. In qualche modo, il concetto è comunque sempre stato un imbroglio: doveva suggerire qualcosa di socialmente nuovo e invece non aveva alcun contenuto proprio. Il vuoto delle sue autodefinizioni rimanda al fatto che la postmodernità non è nient’altro se non il capitalismo moderno in uno stato di carenza concettuale e sotto una forma tardiva di futile auto-rispecchiamento. Il soggetto svuotato si diletta nel culto mediatico del "tutto va bene".
A partire dagli anni ottanta, questa virtualizzazione ha corrisposto socialmente, per quel che riguarda l’aspetto tecnologico, al personal computer, ai nuovi media e alle tecnologie di comunicazione (in particolare Internet) e, per quanto attiene all’aspetto economico, alle bolle finanziarie speculative che si sviluppano nei mercati azionari e immobiliari.

Ma dopo tutto il nocciolo duro del capitalismo non può essere ammorbidito per mezzo di simulazioni. Quello che è centrale in questo sistema è la categoria del “lavoro”, che a partire dalle sue radici stesse è determinato come “maschile, bianco e occidentale”. A questo è connessa una svalorizzazione delle donne, alle quali sono stati delegati tutti i momenti della riproduzione sociale separati dal “lavoro”, e che non si riducono a questo. Allo stesso tempo, nel codice di disciplinamento che si riferisce all'imposizione del “lavoro”, troviamo inscritta una svalorizzazione degli individui non bianchi, considerati come prototipo della mancanza di sottomissione alla ragione moderna, mentre le crisi interne del sistema vengono costantemente attribuite ad un potere soggettivo estraneo, come quello che veniva attribuito agli “ebrei” nel contesto della storia europea. Per tale motivo, già a partire dall’epoca della filosofia dei Lumi, il sessismo, il razzismo e l’antisemitismo vengono trasmessi insieme alla positivizzazione del lavoro, che nel processo di valorizzazione costituisce la sostanza del capitale e non rappresenta niente più che il “lavoro astratto”, inteso negativamente da Marx. Tutte le altre categorie della società moderna produttrice di merce (mercato, Stato, nazione, politica ecc.) sono determinate da questa relazione essenziale. Nel limitarsi ad una “lotta per il riconoscimento” all’interno della “gabbia di ferro” (Max Weber) costituita da queste categorie, il marxismo tradizionale ha finito per riconoscere, da parte sua, il “lavoro astratto” e il suo disciplinamento, innalzandolo ideologicamente ad una ”ontologia del lavoro” trans-storica.

Ma, a partire dalla terza rivoluzione industriale, è stato il capitalismo stesso ad aver reso obsoleto, per la prima volta, il “lavoro”. Questa barriera interna storica della valorizzazione è stata dribblata dall’economia delle bolle finanziarie degli anni novanta, e in questo clima il postmodernismo simulatore ha potuto ergersi a ideologia “mainstream”. La sinistra postmoderna non vuole porre il problema di una critica categoriale delle forme sociali del moderno sistema produttore di merci (che includa una critica del “lavoro”); per questo è rimasta incapace di cogliere le dimensioni profonde, storiche e strutturali, del sessismo, del razzismo e dell’antisemitismo. Questa sinistra non è andata al di là della vecchia “lotta per il riconoscimento” sociale e nazionale all’interno del mondo borghese, ingannandosi su sè stessa nel prendere le distanze dal marxismo tradizionale. Nel contesto della virtualizzazione economica e culturale generale, questa sinistra coopera al processo di derealizzare il mondo; dove anche la critica dell’economia politica dovrebbe essere “dematerializzata”. Alla fine, Antonio Negri e Michael Hardt hanno dato a questa tendenza, con il loro concetto di “lavoro immateriale”, un’espressione esteriormente elegante. Così, i concetti dell’analisi e della critica sociale in generale non sono stati rinnovati e sviluppati, ma soltanto virtualizzati.

La lotta di classe e quella per l’indipendenza, che una volta erano reali ma che da tempo appartengono alla storia, vengono riprodotti ora come programmi di simulazione. La sinistra socializzata per mezzo dei media ha fatto credere che avrebbe potuto provocare dei mutamenti sociali, se le sue esibizioni fossero apparse in televisione come immagini in movimento. Sembrava che, sulla base del “lavoro immateriale”, il capitale potesse accumulare in maniera illimitata e fittizia per mezzo delle bolle finanziarie, come aveva già affermato Jean Baudrillard negli anni '70 usando una terminologia filosofica porosa; e, di conseguenza, la sinistra postmodernizzata ha voluto sperimentare “lotte” fittizie e puramente simboliche come se si trovasse in una recita scolastica. Il capitalismo, così sembrava, era semplicemente una sorta di “film”.

Nel 2000/2001, con il collasso della “new economy”, il concetto di "lavoro immateriale" ha finito per fare una brutta figura. Il "lavoro", anche quello chiamato lavoro intellettuale, continua ad essere sempre “dispendio materiale di nervi, muscoli e cervello” (Marx). Nel capitalismo, il "lavoro astratto” non è una mera cosa del pensiero, ma è l’astrazione dal contenuto concreto dell’economia, la quale esegue, come irrazionale fine in sé, la spremitura dell’energia umana. Non è per mezzo di cianotipi, di idee “creative” o di click del mouse che il capitale si valorizza, ma lo fa solo attraverso una massa reale di “lavoro astratto” impiegato ripetitivamente, quotidianamente. La così tanto evocata società della conoscenza, in cui gli uomini si pongono fuori dal processo di produzione, come aveva previsto Marx, nella forma capitalistica è impossibile.

Il collasso di economie nazionali intere, avvenuto a partire dall’inizio degli anni novanta, lo scoppio delle bolle finanziarie in Asia e le crisi finanziarie in molti paesi hanno lasciato dietro di sé “terra bruciata”, dal punto di vista sociale. Tuttavia, l’economia simulata dal capitale fittizio sembrava potesse ancora fiorire nelle metropoli; nell’Europa continentale si aveva ancora, grazie allo stato di benessere, una sensazione di sicurezza; e dappertutto gli strati qualificati, soprattutto nel settore della tecnologia dell’informazione e dell’high-tech, si illudevano di trovarsi al sicuro. Per la coscienza postmoderna, la miseria degli "altri" era solo un “film”. Ma lo scoppio della bolla formata dalla “new economy” ha rovinato un gran numero di “sapienti” postmoderni, svalorizzando il loro sapere. Propagandosi nelle metropoli, la crisi ora sta divorando lo stato del benessere europeo a una velocità incredibile. La nuova classe media si decompone; all'improvviso la vita reale di tanti diventa un film senza lieto fine. I simulatori di sé stessi devono affrontare il fatto che il denaro non cresce sugli alberi e che non possono scaricare la manna da Internet.

La rottura della realtà negativa nello spazio virtuale della simulazione, tuttavia, non viene digerita in modo critico, ma regressivo. Alla luce della durezza dell’economia che la sorprende, la coscienza culturalista riduzionista sembra credere ad una sorta di svolta apocalittica. Il nichilismo trascendente del capitale e della sua “forma vuota” viene dipinto sulle pareti a grandi gesti, ma senza alcuna mediazione di analisi. Così come la postmodernità tende generalmente ad esigere troppo dalla contingenza e a far sparire la differenza tra critica e affermazione, anche qui viene lasciato in sospeso ciò a cui propriamente essa si riferisce. La scoperta del carattere nichilista dell’economia potrebbe anche significare: la postmodernità si era innamorata del nulla. Visto che c'è il collasso sociale, che almeno avvenga con stile. Il carattere realmente metafisico delle categorie capitalistiche si manifesta nella riflessione soltanto come fantasma. La definizione di “mistero dell’economia” come “paradigma teologico-economico” da parte del filosofo italiano Giorgio Agamben è talmente criptica da diventare una mistificazione, anziché l’inizio di una demistificazione. Il momento quasi religioso del capitalismo, come aveva suggerito Marx per mezzo del suo concetto di feticismo delle merci, non viene criticato al di là di Marx, ma viene teologizzato. E a partire da questo, si parla di una "svolta teologica" della postmodernità.

Se Agamben, il suo collega francese Alain Badiou o il postmoderno polivalente sloveno Slavoj Zizek scoprono, in tutta serietà, che l’apostolo Paolo è stato una specie di Lenin, allora in tutto questo ci dev'essere del metodo. Naturalmente, in quanto atei istruiti, non vanno a testa china alla scuola domenicale di papa Benedetto 16. Al contrario, il 13º apostolo viene usato, nel bel mezzo della crisi globale, come paradigma per un tentativo che si presume abbia successo; quello di diventare il creatore di un nuovo mondo facendo ricorso soltanto a “gesti inauditi”. Paolo avrebbe scoperto il metodo per dissolvere la “legge antica” attraverso una “politica della verità” che si impone di per sé, facendo della morte banale di Gesù lo ”evento del Cristo”. Una simile "verità" sarebbe senza fondamento, non avrebbe niente a che vedere con sistemi, condizioni e sviluppi sociali. E così la pratica della vita sociale deve sbocciare anche oggi grazie a una politica senza fondamento della verità e dell’evento. Abusando di alcune formulazioni di Walter Benjamin si autonomizza in un certo senso un momento “messianico” del marxismo tradizionale.

Naturalmente niente di tutto questo è del tutto nuovo. I motivi che i postmoderni traggono dall’esistenzialismo di Heidegger vengono ora armati di "teologia politica" per mezzo della filosofia dell’evento nella crisi realmente vissuta. Le mediazioni vengono definitivamente cancellate dalla mappa, al loro posto deve subentrare l’atto che genera sé stesso. Già i situazionisti intorno a Guy Debord non vollero concretizzare in termini teorici e pratici il loro malessere in relazione al “lavoro astratto” e al feticismo della merce, e invece inventarono “situazioni” per revocare, almeno per qualche istante, l’ordine stabilito. Adorno definì tale modo di pensare e procedere come “falsa immediatezza”. In realtà è il soggetto stesso ad essere mediato in termini capitalistici, e proprio per questo non può stabilire un’altra verità, in forma incondizionata e senza fondamento. Anche Paolo, nella sua epoca, venne condizionato socialmente e non fu l’inventore di una politica di verità autopoietica.

Manca oggi una “contro-mediazione” cosciente e tenace, al fine di spiegare criticamente la storia della costituzione capitalista, di decifrare la metafisica reale moderna in quanto nesso interno delle forme economico-politiche e di concettualizzare negativamente la costituzione del sé in quanto soggetto borghese nel suo divenire. Questo si applica anche alla prassi di resistenza sociale; perfino la più piccola azione sindacale può essere efficace soltanto attraverso un complesso processo di mediazione. Il “gesto inaudito” come sostituto della contro-mediazione critica è un mito miserabile, con cui i postmoderni sperano di uscire illesi dalla crisi in un modo che è tanto a buon mercato quanto presuntuoso. Preferibilmente, alla coscienza simulatrice piacerebbe consumare come fosse un evento anche il declino sociale del mondo per poi poter tornare tutta eccitata a casa sua. Tuttavia, dal momento che il proprio impoverimento reale e la propria degradazione sociale non possono essere virtualizzati, la teologizzazione del capitalismo prende una brutta piega.

Agamben, nel suo libro "Homo Sacer", aveva chiarito la nascita e il processo di modernizzazione per mezzo del concetto di stato d’eccezione, dando con questo un contributo significativo ad una nuova critica storica. Dal momento che, però, si rifiuta di legare questa conoscenza ad una critica categoriale concreta dell’economia politica e, invece di fare questo, nel saggio “Profanazioni”, teologizza la modernità in maniera puramente associativa, il suo pensiero si apre ad un’interpretazione oscura e barbara. La reinterpretazione della liberazione sociale, nella filosofia dell’evento di un avvenire escatologico della salvezza diventato profano, si rivela compatibile con la “teologia politica” del teorico del diritto Carl Schmitt, il quale era vicino al nazionalsocialismo di Hitler. “Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione” – questa famigerata formulazione di Schmitt è completamente affine alla “svolta teologica” postmoderna. Se Agamben in "Homo Sacer" poteva ancora essere inteso come critico di Schmitt, ora si fa notare per un’inquietante convergenza. La comunanza risiede nell'esplicita mancanza di fondamento della “decisione”. Anche la liberazione sociale ha bisogno della volontà di decidere, ma questa decisione può essere pensata solo a partire da fondamenti coscienti e da condizioni analizzate criticamente .

Se il soggetto maschio, bianco e occidentale, nella sua decadenza, non vuole ancora ammettere che la sua stessa costituzione è condizionata da forme sociali e dalla scissione del femminile, e se, al contrario, gli “eventi” infondati devono essere posti dalla politica della verità con il “fulmine della decisione”, allora, nella crisi, è solo la determinatezza capitalista a potersi riprodurre, e dolorosamente. Nei limiti del sistema del "lavoro astratto", però, manca ormai la forza per la generalizzazione sociale globale. Mentre l’amministrazione statale della crisi gestisce il legame sociale, la società frammentata decade in una “guerra civile molecolare” (Hans Magnus Enzensberger). Con le sue mistificazioni, la teologizzazione postmoderna del capitalismo sta preparando la barbarie; essa si converte nella vuota e distruttiva “volontà che vuole sé stessa” (Hegel).

La risposta neo-esistenzialista o neo-situazionista al nichilismo della modernità si rivela, così, una risposta nichilista essa stessa. La ”individualizzazione” (Ulrich Beck) postmoderna, che almeno negli Stati Uniti e in Germania si trova ad uno stadio avanzato, diventa sempre più obsoleta. Ma gli individui atomizzati che hanno bisogno di abdicare da sé stessi, come se fossero dei re, nel regno del consumo personale delle merci, non tornano ad essere socievoli. Il risultato è un agglomerato casuale che forma un'accozzaglia. Non è solo la campagna razzista e antisemita ad essere una nuova congiuntura a livello mondiale, nelle molteplici forme di manifestazione, nelle condizioni di crisi globale. Dappertutto si mettono insieme quelli che sentono di essere stati lasciati indietro, quelli che non possono più soddisfare la loro ambizione e che non sono più solvibili. Solo che non si mettono insieme per solidarietà ma, semmai, per l’autoaffermazione, tanto intransigente quanto militante, in contesti mafiosi, cioè, del tutto indipendenti da qualsiasi contenuto.

Le leggi del "milieu" criminale si generalizzano in tutti i gruppi e in tutte le istituzioni sociali. Si tratta di ben più della mera corruzione tradizionale. Nell’imprenditoria, nei partiti politici, nell’attività scientifica e perfino nei circoli teorici di sinistra, la personalizzazione dei problemi, l’intrigo, la patologizzazione reciproca e la messinscena dello scandalo sono all’ordine del giorno. A livello quotidiano, la guerra di tutti contro tutti diventa uno "stato di eccezione molecolare”. Lo ”evento” non appare come azione di emancipazione, ma come putsch e come golpe per erigere, su un terreno sociale modello Disneyland, una “sovranità” disperata, inconsistente già nella sua base. Nella disgregazione della modernità, la storia della fondazione si ripete come farsa su una scala micrologica.

La crisi dell’identità maschile nel capitalismo della terza rivoluzione industriale si esteriorizza come “vendetta di piccoli uomini” contro i “quelli di rilievo” che devono essere soppressi; tuttavia tutto ciò assume anche la figura di un nuovo sessismo. Non a caso è stato anche San Paolo, il preteso inventore della politica della verità, quello che ha emesso la sentenza secondo la quale le donne devono osservare il silenzio nella comunità. Ora gli uomini postmoderni svalorizzati vogliono essere addirittura, paradossalmente, donne migliori. Le posizioni e le creazioni femminili nella società devono essere espropriate al fine di salvare la supremazia maschile. Paolo come “Lenin”: questo è un paradigma dei problemi dell’auto-valorizzazione dei soggetti maschi, bianchi e occidentali nel corso della crisi del “lavoro astratto”, soggetti che vorrebbero mettere le mani sul femminile separato, considerandolo come "capitale culturale" (Pierre Bourdieu). Il carosello dello "stato d’eccezione molecolare" ruota vorticosamente nell’auto-fondazione senza fondamento dei soggetti deformati che danno forma alla loro mancanza di prospettiva trasformandola in una filosofia dell’evento. In questo modo viene sollecitata la “decisione” heideggeriana sprovvista di contenuto: sii sempre deciso, ma senza sapere a cosa.

- Robert Kurz - Pubblicato su "Folha de São Paulo" del 14 agosto 2005, in versione leggermente abbreviata col titolo "Dopo la fine".

fonte: EXIT!

Nessun commento: