sabato 9 luglio 2016

Critica dell'antiterrorismo

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L'antiterrorismo viene spesso compreso in termini di emergenza e di sospensione dello Stato di diritto. Contro questa lettura eccezionalista sviluppata soprattutto da Giorgio Agamben, Christos Boukalas sostiene un approccio strategico-relazionale delle mutazioni degli Stati capitalisti e degli apparati securitari, rispetto a cui lo statalismo autoritario appare come una forma normale di potere politico nella società capitalista. In questa prospettiva, i potenziali di resistenza alle strategie del potere non devono essere trovati nella "nuda vita" ma nelle forze sociali e nelle lotte concrete che caratterizzano la situazione attuale.
Il contributo di questo articolo alle analisi critiche del terrorismo consiste nel presentare e confrontare i due approcci alla sicurezza interna agli Stati Uniti [*1]: in primo luogo, l'approccio in termini di stato di emergenza, derivato da Carl Schmitt ed introdotto nei dibattiti contemporanei attraverso la sua riconcettualizzazione da Giorgio Agamben, e in secondo luogo, un approccio strategico-relazionale elaborato a partire dalla teoria dello Stato di Nicos Poulantzas e Bob Jessop.

Stato d'eccezione o statalismo autoritario: Agamben, Poulantzas e la critica dell'antiterrorismo
- di Christos Boukalas -

Nelle due prime sezioni, ho descritto a grandi linee l'approccio in termini di stato di emergenza ed ho mostrato rispetto a cosa gli sviluppi recenti della sicurezza interna riecheggiano tutto questo e per certi aspetti arrivano anche a contraddirlo. In seguito, ho proceduto ad una valutazione critica dell'approccio di Agamben che ritengo sia concettualmente fragile ed analiticamente limitato per poter comprendere l'antiterrorismo. Nelle rimanenti tre sezioni, ho presentato alcuni aspetti chiave di un approccio strategico-relazionale alternativo e ho suggerito un quadro più pertinente alla comprensione dell'antiterrorismo. Ma prima riassumiamo la mia tesi.

In "Stato di eccezione" (2003), Giorgio Agamben procede ad un fondamentale riesame di un dibattito degli anni 1920 - in parte implicito, in parte esplicito - fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, al fine di difendere la propria tesi sul potere politico come era stata formulata in "Homo Sacer" (1998). In tal modo, costruisce un quadro concettuale in cui riecheggia potentemente l'ondata di misure antiterroriste successive all'11 settembre. Per Agamben, in Occidente la politica è diventata uno stato di emergenza permanente che ha avuto l'effetto di ridurci (a cominciare dai detenuti di Guantanamo) alla nuda vita. Quest'analisi è stata ampiamente mobilitata, in una miriade di varianti, per dar conto del potere politico sotto l'antiterrorismo. Così, ad esempio, il rapporto fra nuda vita e sovrano viene utilizzato per riconcettualizzare le politiche dei confini (Vaughan-Williams, 2009) e per comprendere le soggettività derivanti dalla gestione della crisi finanziaria (Brassett e Vaughan-Williams, 2010). Il campo - l'interfaccia privilegiata dal potere sovrano e dalla nuda vita - diviene il paradigma della vita sociale e delle cultura (Diken et Lausten, 2005). Lo stato di emergenza permanente costituisce la nuova configurazione del potere globale (Hardt e Negri, 2004, p. 7), il risultato della ristrutturazione del mondo (Callinicos, 2003, p. 6), la matrice di un "contro-diritto" (Ericson, 2007, p. 26-35) oppure un termine sinonimo del declino della democrazia liberale e dello Stato di diritto così come dell'avvento di poteri arbitrari coercitivi (Schurman, 2002 ; Bunyan, 2005 ; Michael-Matsas, 2005, p. 222–248 ; Whyte, 2005 ; Paye 2007) [*2].

In quest'articolo, sostengo che, malgrado forti corrispondenze fra l'ipotesi di Agamben ed alcuni aspetti chiave della politica antiterrorista, la tesi dello Stato di emergenza non riesce a fornire un'interpretazione adeguata della politica contemporanea. « L'eccezione permanente » ha come premessa una comprensione della politica vista come effetto strutturale delle interazioni fra il potere sovrano e la nuda vita. Tale effetto è sostanzialmente inalienabile nel corso della storia (occidentale). Esso rimane sempre lo stesso, quale che sia l'identità di chi occupa ciascuna posizione strutturale (nuda vita, sovrano), quale sia il contesto nel quale si gioca la loro relazione e quali che siano gli scopi ed i significati che lo sottendono e lo orientano. Questa riduzione della politica ad una condizione eterna e singolare la svuota del suo contenuto, ne rimuove le sue forme socio-storiche specifiche e, pertanto, la rende impossibile. L'analisi di Agamben occulta le questioni chiave che attengono alle pratiche, ai processi, alle ragioni ed agli obiettivi che caratterizzano la sicurezza interna.

Al fine di rimettere la politica al centro dell'analisi e fornire un quadro per trattare (o quanto meno porre) tali questioni, propongo un approccio strategico-relazionale alla sicurezza interna. Avanzo l'argomento secondo il quale quest'ultima costituisce una riconfigurazione dello statalismo autoritario, una forma statale costituita per gestire lo stato di crisi permanente che caratterizza le società capitaliste.  «L'eccezione permanente» contro « la crisi permanente »: le due formulazioni appaiono simili. Ma questo leggero cambiamento del vocabolario indica un ribaltamento concettuale più ampio. L'analisi si disloca dalla pura essenza alle congiunture socio-storiche specifiche, le considerazioni teoriche passano dalle strutture ai rapporti sociali e la base metodologica viene trasferita dal diritto e dal linguaggio alle dinamiche sociali. In sintesi, il nostro approccio considera l'antiterrorismo nella sua specificità sociale e storica, e permette così un comprensione più ricca della riconfigurazione del potere politico che tale antiterrorismo genera.

La tesi dell'eccezione
L'eccezione, così come viene esposta in maniera paradigmatica da Schmitt (1985), si materializza in una situazione di urgenza esistenziale e costituisce il momento in cui la politica normale cessa di avere corso. L'ordine legale e costituzionale che regola quotidianamente la politica non è più conveniente per poter far fronte ai problemi che si presentano. Quindi viene sospeso a favore di un attore più potente e più risoluto - il sovrano - che può decidere ed agire come meglio crede.

Il sovrano è quell'attore la cui prerogativa consiste nel decidere dell'esistenza effettiva dell'eccezione. Non si tratta (necessariamente) dell'entità che crea la legge, bensì di quella che dispone del potere di sospendere il diritto. Il sovrano è un attore singolare ed unitario che, nell'emergenza, concentra tutto il potere. Così facendo, annulla la pluralità dei poteri in seno allo Stato liberale e fa riemergere la singolarità inerente alla logica stessa del potere (Kondylis, 1994, p. 128-131). L'azione del sovrano non si basa più sul diritto ma sulla forza. Nella misura in cui gli avvenimenti e le dinamiche sociali non sono più mediati dall'ordine legale, l'eccezione costituisce un momento di guerra aperta nel corso della quale l'antagonismo forza/contro-forza diviene l'unica determinazione dell'azione. L'intervento violento del sovrano nel quadro dell'eccezione prepara il terreno - o crea un precedente - perché emerga una nuova normalità giuridico-politica. Di conseguenza, l'eccezione non è soltanto un momento di autentica creazione legale e politica ma costituisce l'atto costitutivo stesso della normalità, e di conseguenza prevale su di esso (Kondylis, 1994, 126 ; Mills, 2008, 61-62).

Schmitt ha ben presto ristretto il potenziale radicale della sua analisi dell'eccezione reintroducendola nell'ordine legale. Anche se sospende il diritto, lo stato d'eccezione non significa l'anomia o il caos. La decisione che travolge l'ordine legale rimane contenuta all'interno di un quadro giuridico. Perfino la sua imprevedibilità viene prevista da quest'ultimo ed esso, in cambio, genera la normalità che conferisce alla legge la sua validità (Schmitt, 1985, p. 12-13 ; Agamben, 1998, p. 17-9, 2005, p. 36). Analogamente, il sovrano che sospende e reinizializza l'ordine legale rimane una creatura di quest'ultimo. L'ordine giuridico determina quale persona o quale istituzione assumerà la decisione ed agirà dentro l'eccezione. Il sovrano è un potere giuridicamente stabilito. Nel corso dell'eccezione, egli può sospendere totalmente l'ordine giuridico ma non le regole fondamentali dell'ordine sociale (Kondylis, 1994, p. 156-157 ; Norris, 2005, p. 58). Lo statalismo di Schmitt e la sua identificazione esclusiva della politica con lo Stato, almeno nei suoi scritti precedenti alla seconda guerra mondiale, gli fanno localizzare il sovrano simultaneamente sia all'interno che all'esterno dell'ordine giuridico. Nel mentre che il diritto viene sospeso da parte dello Stato, quest'ultimo sussiste e cerca di salvaguardarsi. Lo Stato viene così a costituire l'elemento che rende l'eccezione differente dal caos  (Kondylis, 1994, p. 162).

Su questa base, Agamben compie un doppio movimento. Dapprima, in linea con Schmitt, interpreta l'eccezione ed il sovrano come dei concetti-limite che appartengono  all'ordine giuridico ma che allo stesso tempo si situano al di là di quest'ultimo. Questi due concetti sono mutualmente costitutivi. L'eccezione ed il sovrano emergono insieme: la prima designa - o rivela - il secondo in quanto forza suprema in grado di decidere e di agire al di là dei confini dell'ordine giuridico, mentre il sovrano non solo può intervenire senza restrizioni nell'eccezione ma dispone della capacità stessa di farla scattare.

Agamben completa questo accoppiamento concettuale fra un soggetto (il sovrano) ed una situazione (lo stato di emergenza) introducendo un altro concetto: homo sacer, l'individuo ridotto alla nuda vita. Agamben recupera questa figura che stava ai margini del diritto romano originale in seno al quale rimanda ad un tipo particolare di criminale esiliato. L'homo sacer non può essere sacrificato. In compenso qualsiasi membro della comunità ha il diritto di ucciderlo senza essere per questo perseguito per omicidio. Questa figura di colui che non può essere ucciso dalla forza politica organizzata della società ma la cui vita viene lasciata alla discrezione dei membri della società, costituisce un altro concetto-limite che si situa sia nel seno che al di là della legge. Non protetto dal diritto, l'homo sacer è l'oggetto di potere la cui capacità di agire al di là di ogni costrizione legale è consentita dal diritto. C'è una stretta analogia fra le due entità: il potere sovrano, togliendo la sue mediazioni giuridiche, mette in lui la vita a nudo e, simultaneamente, la nuda vita fonda il potere sovrano nella misura in cui essa ne è l'oggetto. Il potere sovrano e la nuda vita si costituiscono mutualmente in un medesimo movimento. Il sovrano e l'homo sacer sono dei concetti opposti ma omogenei (Agamben, 1998 ; Mills, 2008, p. 72 ; Murray, 2010, p. 64-65). Agamben stabilisce così il rapporto mutualmente costitutivo fra le due soggettività (homo sacer e sovrano) e vede in questo il cuore di tutti i rapporti di potere della civiltà occidentale (Agamben, 1998, p. 8-9 ; Mills, p. 64-65). Lo stato d'eccezione forma quindi il contesto situazionale che viene prodotto da questo rapporto di potere e che simultaneamente lo realizza. L'argomento chiave di Agamben è che questo rapporto costituisce il «centro» nascosto del «potere», la «struttura politica fondamentale» segreta (Agamben, 1998, p. 20, 2005, p. 86).

Fin qui, Agamben riproduce lo schema schmittiano dell'interrelazione fra concetti-limite che permette di cogliere il vero senso del potere. L'introduzione della nuda vita in quanto oggetto costitutivo di tale potere complementa ma non rimette in discussione questa costruzione. In effetti, il Nemico di Schmitt, in particolare nelle sembianze del Partigiano, che «conosce ed accetta la sua condizione di nemico che esiste al di fuori della proprietà, del diritto e dell'onore», può essere considerato, facendo uso del prima agambeniano, come una creatura della nuda vita (Schmitt, 2007, p. 11, p. 30).

Tuttavia, Agamben supera l'universo schmittiano affermano la possibilità dello stato di emergenza "reale" che esiste del tutto al di là dell'ordine giuridico. Ponendosi sulla linea di Benjamin, recupera il potenziale radicale della violenza ("divina") dell'eccezione in quanto creazione ex-nihilo di un nuovo ordine sociale (Benjamin, 1986, p. 52-64 ; Agamben, 2005). Riprende in altri termini quelle implicazioni radicali dell'eccezione che Schmitt aveva cercato di sopprimere, ponendole come concetto-limite (Kondylis, 1994, p. 156-162).

Tuttavia, malgrado l'affermazione della possibilità di un'eccezione rivoluzionaria che distruggerebbe il sovrano, vista come possibilità politica ultima, l'analisi della politica contemporanea fatta da Agamben rimane confinata in uno schema schmittiano. L'eccezione prolifera in tutti gli spazi della vita sociale e quest'espansione (topologica) costituisce l'eccezione stessa come (cronologicamente) permanente: l'eccezione è diventata la regola. Il fondamentare la politica sull'opposizione fra il diritto e la violenza pura viene superato. Il diritto viene drenato del suo contenuto e del suo significato e, nel mentre che si ritirano le mediazioni legali, si rivela la vera essenza del potere in quanto potenza sovrana. Privati delle nostre mediazioni giuridico-politiche, siamo tutti ridotti alla nuda vita. Pur costituendo una tendenza sempre presente, questo stato di eccezione raggiunge una nuova fase di concretizzazione sotto forma di politica antiterrorista (in particolare americana) dopo l'11 settembre (Agamben, 2005). Nella sezione successiva, tratto a grandi linee la pertinenza della tesi dell'eccezione permanente riguardo al pensare le realtà della politica antiterrorista americana.

La sicurezza interna come stato d'eccezione
Le misure antiterroristiche, così come quelle volte a gestire la crisi economica in corso, si caratterizzano per un'abbondanza di elementi eccezionali. Per cominciare, la legislazione antiterrorista ha espulso l'aspetto giudiziario dalle inchieste "terroristiche". Ha trasformato il mantenimento dell'ordine in un'attività di prevenzione basata sull'informazione, ha dissociato la sorveglianza dal sospetto di reato, ha separato la sentenza punitiva dall'aver effettivamente commesso l'atto illegale ed ha portato alla proliferazione di leggi vaghe, elastiche e soggettive soprattutto riguardo al crimine che si trova al centro dell'antiterrorismo, "il terrorismo interno", come ha fatto con la categoria chiave della politica economica, "le attività finanziarie". Queste tendenze combinate riducono la legge ad un semplice strumento per la realizzazione di obiettivi politici (vedi Paye, 2007, ch. 5-6 ; Donohue, 2008, p. 233-272 ; Boukalas, 13-40, p. 222).

Di questo strumento si appropria il sovrano, in questo caso l'esecutivo federale e la Casa Bianca in particolare. Una volta che è stato emarginato il giudiziario, l'esecutivo si ritrova da solo responsabile di un vasto apparato centralizzato per il mantenimento dell'ordine e l'apparato di informazione, diventato sempre più onnisciente, viene riportato sotto il controllo diretto del presidente. Le clausole legali, vaghe e mal definite, conferiscono all'esecutivo un potere discrezionale totale di selezionare gli obiettivi ed agire come intende fare il suo personale dirigente. In tal modo l'esecutivo ha ottenuto: a) i poteri per legiferare (legge di stabilità economica d'urgenza del 2008, EESA), b) il proprio sistema giuridico parallelo basato sulla categoria speciale di "nemico combattente" con la quale designa il criminale e pone in atto un regime di detenzione, di giudizio e di punizione che non si basa su alcuna legge e c) la capacità di assassinare gli individui selezionati dall'esecutivo (Samples, 2010 ; Roach, 2011, p. 208-210, p. 229-231). In effetti, parrebbe che il ritiro del diritto riveli la potenza del sovrano.

Questa potenza viene esercitata intensamente su tutta la popolazione. La legislazione antiterrorista si dimostra estremamente innovativa nella sua capacità di estendere la colpevolezza per associazione. Oltre alla dissociazione fra pena ed atto criminale, un vasto insieme di "associati" può essere sottoposto a delle misure penali nel momento in cui il segretario di Stato o il procuratore generale lo decidono. Nella misura in cui il potere poliziesco cerca di sanzionare il crimine prima che si produca, l'intera popolazione viene compresa, per il fatto che in essa si trovano asserragliati dei criminali potenziali, in una gigantesca rete di informazione. Ciò implica che la presunzione di colpevolezza diviene di fatto valida per tutti. Inoltre, il trattamento legale riservato alle categorie criminali speciali esemplificate da Guantanamo viene rimodellato per poter essere applicato a tutti (a partire dal National Defense Authorization Act del 2012). È a partire da tale categoria chiave dell'antiterrorismo che il sovrano afferma il suo monopolio sulla politica, criminalizzando "l'influenza" politica eccessiva della popolazione sul governo. In breve, il ritiro del diritto significa non solo l'avvento di una potenza sovrana senza limiti ma anche quello di una soggettività che non è più protetta dalla mediazione della legge (vedi ACLU, 2012 ; Belandis, 2004, p. 279-281 ; Boukalas, ch.5-6 ; Mattelart, 2010).

Sembrerebbe che l'antiterrorismo scateni la triade stato d'eccezione/potere sovrano/nuda vita alla sua massima intensità. Quattordici anni dopo l'11 settembre e cinque anni dopo lo scatenarsi di una crisi economica, si può chiaramente affermare che i poteri di "emergenza" sono diventati permanenti. Si trovano sul punto di estendersi, di intensificarsi e di metastatizzarsi dalla politica securitaria alla politica economica. Nel corso di questo breve inizio di secolo, le maggiori situazioni di "emergenza" dell'uno e dell'altro tipo appaiono precipitare ed intensificarsi. La tesi dell'eccezione permanente che si estende a tutte le sfere della vita sociale e che crea la nuova norma sociale, appare del tutto confermata.

Tuttavia, permangono aspetti della sicurezza interna che non rientrano facilmente nello schema dell'eccezione. Per cominciare, la maggior parte delle modalità del potere "sovrano" e non-regolato sull'individuo erano già presenti ed inscritti nell'ordine giuridico ben prima dell'attuale ondata antiterrorista. Ad esempio, il principio della "colpevolezza per associazione" venne inserito nel diritto attraverso la legge sull'antiterrorismo e sulla pena di morte del 1996. La dissociazione della sorveglianza dal sospetto criminale venne introdotta dalla legge sulla sorveglianza dei servizi segreti stranieri del 1978 (FISA) che mirava a regolare delle pratiche messe in atto da decenni. Questi due principi hanno cominciato a colpire la presunzione di innocenza e la loro attuazione è stata lasciata alla discrezione del personale a capo dell'esecutivo.

L'antiterrorismo sistematizza ed intensifica queste modalità e, fatto decisivo, le estende. Inizialmente, tali modalità definivano le relazioni fra lo Stato ed alcune categorie "speciali" della popolazione (la spia, lo straniero ed il "terrorista internazionale"). Il primo poteva negoziare, o perfino rifiutare alle seconde le protezioni legali normalmente accordate alla comunità dei cittadini. L'antiterrorismo estende l'applicazione di queste modalità a tutto l'insieme della popolazione. Con Agamben, possiamo affermare che la regola della categoria eccezionale - la nuda vita - diviene la regola di tutti.

Tuttavia, quest'espansione si sviluppa in maniera incrementale ed organica. Si accompagna a delle revisioni, delle resistenze, delle ritirate e degli affinamenti. Questo procedere si accompagna inoltre ad una tovaglia giuridica che viene stesa per coprire delle nuove parti o tutto l'insieme del corpo sociale, o che ha l'effetto di sbarramento della direttiva. In questo modo vengono introdotti dei poteri coercitivi immensi da applicare a delle frazioni giuridicamente e politicamente marginali della popolazione, per poi essere estesi a tutti, mentre vengono elaborati nuovi poteri ancora più intensi per la categoria speciale, prima che vengono anch'essi estesi a tutta la popolazione, e così via. In ogni caso, siamo ben lontani dal dover affrontare la forza fantasmagorica della decisione sovrana che agita e rifonda l'ordine giuridico esistente.

In realtà, anche se abbiamo conosciuto delle riconfigurazioni maggiori, che sono andate principalmente nella direzione esposta sopra, l'ordine giuridico non è stato mai sospeso. Anche se l'amministrazione Bush ha effettivamente presentato gli avvenimenti dell'11 settembre come un momento di emergenza esistenziale, essa si è mostrata reticente ad essere percepita nei fatti come un governo "che agisce con risoluzione e fermezza". Nessuna sezione della costituzione è stata sospesa o aggirata. Immediatamente mobilitato per conferire all'esecutivo dei poteri schiaccianti ed arbitrari, il Congresso lo ha fatto prontamente. Da questo punto di vista, l'insieme del corpo legislativo antiterrorista prodotto nella foga dell'11 settembre smentisce giuridicamente e politicamente la tesi del decisionismo e della concentrazione di tutti i poteri in un'unica entità che avrebbe preso il comando nell'eccezione. Il "sovrano" mira piuttosto a concedersi un potere discrezionale a partire dal diritto e ad inscriversi in tale potere attraverso la mobilitazione intensa del legislativo e, occasionalmente, del giudiziario.

Anche le pratiche più eccessive intraprese dalle amministrazioni Bush ed Obama (ad esempio, gli omicidi extra-giuridici) vengono difesi in termini legali come poteri concessi dal Congresso (nella legge relativa all'autorizzazione dell'uso della forza militare del 2001). La sorveglianza delle comunicazioni da parte della National Security Agency (NSA) del Pentagono è autorizzata da un mandato della corte segreta FISA. Anche in un caso emblematico di pratica eccezionale come Guantanamo, l'assenza del diritto viene compensata per mezzo di un labirinto di regolamenti extra, quasi e pseudo legali (Johns, 2005). Questi regolamenti sono stati inizialmente elaborati dalla Casa Bianca e dal Pentagono, ma sul filo di ripetute triangolazioni fra i tre rami hanno finito per entrare nel corpo principale del codice giuridico (Roach, 2011, p. 200-211). In sintesi, l'invocazione dell'emergenza non porta ad un'impennata decisionista ma ad un "obbligazionismo" particolare, in virtù del quale l'esecutivo afferma di essere costretto ad agire. La sua azione viene allora immediatamente codificata, messa in procedura e legalizzata. La decisione viene negata, insieme alla responsabilità che essa comporta (Johns, 2005).

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Struttura nuda
Nell'analisi della politica antiterrorista e, più in generale, nell'analisi delle modalità contemporanee del potere, più che le contraddizioni fattuali summenzionate, è la debolezza teorica della tesi dell'eccezione che bisogna sottolineare.

Affermando potenzialmente il primato della politica sul diritto e riconoscendo la politica come la fonte della legge, la tesi dell'eccezione dirige la nostra attenzione verso la violenza che sottende l'ordine giuridico e suggerisce un certo arbitrio per quel che riguarda le basi della vita sociale. Di conseguenza, costituisce un contrappunto alla negazione, da parte della giurisprudenza anglosassone, dell'arbitrarietà del diritto, del suo carattere politico e della sua fondazione ultima sulla forza, così come alla sua dipendenza da quest'ultima. A partire da questo, i problemi proliferano e si accumulano per quel che concerne la sua comprensione della politica e del diritto, la sua utilità analitica e la sua validità teorica.

In primo luogo, per quel che concerne la politica, la costruzione schmittiana del sovrano come corpo singolare che incorpora organicamente e che esprime l'integralità di un "popolo" pre-politico è altamente idealista e, di fatto, mitologico. Inoltre, la politica viene ridotta alla controversia, ossia alla distinzione amico/nemico (Schmitt, 1988, 1923, p. 38-44, p. 49, 1996, p. 16-32, 2004 ; Papacharalambous, 2009, p. 21, p. 27-29). Se per Schmitt la politica viene ad essere impoverita dall'assorbimento del sociale nello Stato, cosa che genera "il Politico", in Agamben il sociale è semplicemente del tutto assente. Per Agamben, la politica consiste nella gestione da parte del sovrano della nuda vita, una vita privata di ogni rapporto sociale. Similmente, ogni politica significativa (il Politico?) consiste nell'affermazione anomica della vita in quanto fatto radicale, contro e al di là delle mediazioni, dei rapporti e dei significati sociali. Mettere al centro della politica una vita desocializzata rende la politica del tutto autonoma nei confronti della società e la riduce alla semplice esistenza (Huysmans, 2008, p. 174-180 ; Seymour, 2013). Il suo carattere di processo antagonista avente come sfida l'istituzione della vita collettiva viene negato, non solo perché in assenza del sociale la politica non ha oggetto, ma anche perché la nuda vita annulla la possibilità stessa dell'antagonismo e della lotta. Quest'ultima è concepibile solamente nel contesto di rapporti, significati, forme e mediazioni socio-storiche specifiche. La nuda vita non può lottare. Vedere una simile lotta nella resistenza di persone che "vivono nude", concentrate nei campi, le labbra e le palpebre cucite, torna ad occultare il senso dato a questo atto, quello che gli altri gli assegnano ed il fatto che è questa dinamica di significati sociali che trasforma questo atto, come tutti gli altri, in un gesto politico (Huysmans, 2008, p. 177). In sintesi, svuotare la politica del suo carattere sociale ne nega la sua possibilità stessa.

In secondo luogo, la distinzione normalità-eccezione appare meno chiara di quanto possa sembrare. Il sovrano - il concetto-limite che porta dalla normalità all'eccezione - appare essere più ben inserito nella legge di quanto suppongano Schmitt ed Agambem. Non solo il sovrano si vede conferire dal diritto la capacità di agire nell'eccezione, nella misura in cui la sua condotta è strettamente orientata verso la preservazione dell'ordine sociale e normativo, ma le sue esigenze, poteri ed azioni devono inoltre essere radicati nel diritto per non rimanere sospesi e senza conseguenze. Questo non ha niente di particolarmente eccezionale. Il diritto non è un testo finito e congelato ma piuttosto costituisce un processo dinamico di determinazione e di decisione. Si elabora continuamente nel rapporto con quello che è esterno al suo contenuto, attraverso l'incorporazione del suo infinito esterno (Fitzpatrick, 2005, p. 61-63).

Ciò che caratterizza l'antiterrorismo è non solo il bisogno insopprimibile dell'esecutivo federale americano di legiferare perfino sui suoi più arbitrari poteri, ma anche la reazione dei più grandi costituzionalisti americani rispetto alla politica antiterrorista. Sia che propongano una drastica separazione dei poteri di emergenza di ordine costituzionale al fine di mantenere l'integrità di quest'ultimo (Gross, 2003), difendendo l'incorporazione di procedure d'urgenza dettagliate nella costituzione al fine di evitare degli abusi (Ackerman, 2006), o che suggeriscano di ripensare in maniera radicale l'integrità della struttura istituzionale in carica della gestione delle situazioni d'emergenza (Scheuerman, 2002), questi giuristi dimostrano che la legge si (ri)crea costantemente ispirandosi alle sue esternalità. Nel caso presente, l'esternalità cui la legge si ispira è la sua sospensione stessa nell'eccezione.

In terzo luogo, gli argomenti precedenti rimettono in discussione l'utilità concettuale stessa dell'eccezione. Qui, l'espansione incessante dei poteri eccezionali al fine di coprire una gamma ancora più ampia di fenomeni sociali (dalla guerra e dall'insurrezione popolare ai conflitti lavorativi, ai crimini politici, alle crisi economiche e nuovamente all'insurrezione popolare) e la loro reintroduzione nel corpo principale del diritto ha offuscato in maniera significativa la distinzione fra la regola e l'eccezione (Scheurman, 2000 ; Neocleous, 2006).

Da qui emerge un paradosso concettuale. Se la sospensione della norma è inclusa nel diritto ed autorizza un agente politico consacrato ad agire in un quadro di eccezione, ne consegue che la sospensione dell'ordine giuridico stabilito è inscritta in questo stesso ordine giuridico. Pertanto, quest'ultimo rimane valido nel mentre che viene sospeso: sospendendo l'ordine giuridico, l'eccezione lo mantiene. Viceversa, è solo nella misura in cui l'ordine giuridico stabilito si mantiene nell'eccezione che quest'ultima può essere concepita giuridicamente. Quindi, il concetto di stato d'eccezione permanente diventa assurdo: implicherebbe la costruzione di un ordine giuridico e di una giurisprudenza (accompagnata da un sistema legale, da una costituzione, ecc.) sulla base dell'eccezione. Un simile ordine giuridico non consisterebbe in nient'altro che nell'affermazione che può essere sospeso in qualsiasi momento. Allo stesso modo, la sua giurisprudenza concluderebbe che non c'è affatto bisogno di distinguere rigorosamente la regola dall'eccezione e che i concetti legali come la giurisprudenza sono di conseguenza superflui (Kondylis, 1994, p. 138-141).

In quarto luogo, conviene attardarsi sul concetto di "nuda vita". Nell'estrarre l'homo sacer come forma di vita archetipica che per il diritto è esclusa dal diritto, Agamben sembra non essersi accorto del suo significato nel diritto romano originale, L'homo sacer è già sacrificato. Di conseguenza, Il suo destino si trova pienamente inscritto e regolato dal diritto (Fitzpatrick, 2005, p. 51-52). Facendo della nuda vita dell'homo sacer «il primo paradigma della sfera politica occidentale», Agamben ignora la sua scomparsa dal diritto a far tempo dalla fine dell'Impero romano. Stabilisce dei tenui legami con la condizione di figlio, rispetto al padre, nel diritto romano tardivo, o con il principe dell'habeas corpus nell'Inghilterra medievale e trascura così il fatto che queste forme erano pienamente e totalmente integrate al diritto (Agamben, 1998, p. 87-89, p. 123 ; Fitzpatrick, 2005, p. 54-56).

Oltre ad essere mal costruita sul piano concettuale, il concetto di nuda vita è difficile da cogliere nella misura in cui si tratta di un'essenza estensiva ed indifferente alle forme, cosa che rende improbabile la sua demarcazione (Fitzpatrick, 2005, p. 65). Se essa appare precaria nei confini del diritto, diventa impossibile al di fuori dello stesso. Il solo modo di fondare la nuda vita in quanto non soggettività, del tutto passiva di fronte al potere sovrano e spogliata di ogni rapporto, mediazione ed appartenenza politica e sociale, è quello di negare il politico ed il sociale (Laclau, 2007, p. 14-16 ; Negri, 2007, p. 75 ; Mills, 2008, p. 90-92 ; Neal, 2010, p. 123). La messa in discussione del concetto di nuda vita destabilizza anche il concetto di potere sovrano nella misura in cui la prima costituisce l'oggetto del secondo. Infatti, tenuto conto del carattere reciprocamente costitutivo della nuda vita, del potere sovrano e dello stato di eccezione, la costellazione politica di Agamben appare dubbia.

In quinto luogo, in Agamben, la norma rimane non teorizzata. Contrariamente a Schmitt che porta avanti la sua analisi dell'eccezione in tandem con un'analisi dello Stato capitalista e del diritto liberale, Agamben non si interessa quasi alla norma. Quest'ultima è deprivata di ogni contenuto, essa costituisce una stampella per far stare in piedi la tesi dell'eccezione. L'assenza di teorizzazione per quel che riguarda la norma influenza il concetto di eccezione: non sappiamo mai a cosa l'eccezione fa eccezione. Assume un significato fluttuante capace di adottare qualsiasi contenuto sostanziale. Ad esempio vediamo che in epoca romana l'eccezione (iustititum) significava che il Senati autorizzava i cittadini a fare tutto ciò che loro consideravano necessario per salvare la Repubblica (Agamben, 2005, p. 41). Nell'America post-11 settembre, l'eccezione significa la messa in quarantena e l'occupazione dello spazio pubblico da parte delle forze armate dello Stato. Il medesimo concetto di eccezione si applica così a due realtà opposte. Queste due situazioni eccezionali sono diametralmente opposte l'una all'altra in quanto costituiscono delle eccezioni a delle norme giuridico-politiche differenti. L'eccezione definisce forse la regola ma è vero anche il contrario. Si pone la questione di sapere in quale misura un concetto può essere credibile quando non esiste che un opposizione ad un altro concetto che non viene mai definito o descritto.

In sesto luogo, il vuoto sostanziale di questo concetto chiave è la ripercussione a livello concettuale del fondamentalismo strutturale di Agamben, un contraccolpo epistemologico. Il suo metodo consiste in un lavoro di scavo ricostruttivo all'interno delle strutture (la legge, il linguaggio) volto a localizzare i momenti originari di concetti che, in maniera assai lasca e semicosciente, determinano la vita sociale attraverso la storia (Agamben, 2009). Egli svuota sistematicamente le sue categorie e concetti del loro contenuto socio-storico, cercando così di renderli eterni, sempre e per sempre validi (Papachalalambous, 2009, p. 105). La sua "correzione" del trattamento foucaultiano della biopolitica ne è un buon esempio: un'analisi socio-storica non è sufficiente, essendo il potere "sempre" biopolitico (Agamben, 1998, p. 11). Il trittico nuda vita/potere sovrano/stato di eccezione non si riferisce ad alcun rapporto o processo sociale. Si tratta di un effetto strutturale, di un gioco logico in seno a delle strutture nude (vedi Rasch, 2007, p. 92-94). Scoprendo (o costruendo) l'origine di un concetto, Agamben lo pone come valido trans-storicamente (Laclau, 2007, p. 11) - in particolare, se l'origine del concetto si situa nella "vita pre-sociale" (sic!) come è il caso della nuda vita (Agamben, 1998, p. 104).

Malgrado ciò, la specificità storica non solo rischia di divergere dal concetto ma anche di indebolirlo. È il caso del "sovrano" nel contesto giuridico-politico feudale, che, nonostante l'appellativo di "sovrano assoluto", rimanda ad una figura dalle competenze estremamente limitate e strettamente definite e che non poteva assolutamente fondare il diritto, ed ancor meno i principi fondamentali dell'ordine sociale (Kondylis, 1994, p. 171-172).

Ancora più importante, quando il concetto di norma si trova vuoto del suo contenuto sociale, il gioco delle omologie strutturali non funziona più. Poiché la norma non è altro che contenuto socio-storico specifico, essa non può esistere come nuda struttura. Senza il contenuto, la norma non esiste che in quanto corollario dell'eccezione. Ma quest'ultimo status presume di trarre il suo contenuto dal suo essere in rapporto alla norma. Se la norma è vuota allora lo è anche l'eccezione. Come distinguere le due cose? Guardando ad alcune strutture, come il linguaggio ed il diritto. Ma queste non vengono trattate come se fossero delle pratiche sociali dinamiche e dei campi di antagonismo contestati (alla maniera di Gramsci, per esempio) bensì come strutture fossilizzate. Ci si ritrova con una norma intonacata in un concetto giuridico continuo ed astratto con il quale l'eccezione rompe giuridicamente. La teorizzazione dell'eccezione ha come premessa la feticizzazione dell'ordine giuridico.

In settimo luogo, il concetto di eccezione considerato come una rottura con l'ordine giuridico e combinato ad una concezione di politica come violenza sovrana rischia di ri-istituire l'illusione liberale di un diritto (la norma) che esisterebbe separatamente dalla politica e sarebbe libero dalla violenza. In questo modo si oscura l'esistenza concreta del diritto: un'organizzazione particolare (e politica) del territorio, degli oggetti e delle modalità della violenza (Poulantzas, l1978 ; Neocleous, 2006, p. 76-77, p. 91-92). In altri termini, la visione agambeniana dell'eccezione rischia di disfare ciò che il concetto di "stato di eccezione" cerca di cucire.

Questo pericolo è soprattutto presente in Schmitt, in quanto per Agamben lo stato di eccezione costituisce assai più di una piattaforma per criticare il liberalismo. Egli suppone che riveli l'essenza del potere, la sua forma originaria e la sua struttura nascosta, incapsulata nei rapporti fra il potere sovrano e la nuda vita (Agamben, 1998, p. 9, p. 26, p. 84, 2005, p. 86, 2011, p. 245 ; Norris, 2005, p. 59-61, p. 64, p. 72 ; Mills, 2008, p. 65 ; Murray, 2010, p. 262). Quest'essenza è impermeabile al tempo e alla società. Agamben ignora l'esistenza del diritto e della politica in quanto fenomeni sociali, al fine di produrre un'analisi del puro potere. L'errore costitutivo della tesi dell'eccezione consiste nella giustapposizione di un "sovrano" antropomorfico che agisce di sua propria volontà e di sua propria iniziativa e di un "individuo" atomizzato e strappato dagli insiemi di significati, legami e rapporti sociali nei quali egli esiste (Whyte et al., 2010, p. 148). Una volta estratti dalle loro dinamiche, strutture e pratiche sociali, il diritto, lo Stato e l'individuo formano delle pseudo-entità, e le analisi delle loro interrelazioni "normali" o "eccezionali" diventano delle caricature.

In ottavo luogo, la pertinenza analitica dell'analisi agambeniana del potere al fine di pensare la politica moderna è incerta. La tesi di Agamben non ci permette ma ci costringe ad esaminare la repubblica romana, la Germania nazista e la sicurezza interna americana (e letteralmente tutto ciò che si situa fra questi periodi) con gli stessi strumenti analitici. In effetti, a rigor di termini, questi differenti periodi rilevano la medesima cosa e non possono essere differenziati se non per il grado di rivelazione della vera natura del potere in ciascun caso (vedi Scheuerman, 2006, p. 69). Sganciando la sua argomentazione da un ancoraggio alla specificità storica, Agamben ci priva della capacità di guardare alle ragioni per le quali e alle modalità attraverso le quali lo stato di eccezione viene attivato. In ogni caso, il bios viene ridotto alla nuda vita su cui il sovrano esercita la sua violenza.

Il risultato è una profonda aporia nel momento in cui la tesi dell'eccezione si confronta con l'attualità, ivi compresa quella della sicurezza interna. Per esempio, allorché la decisione del sovrano è presa, noi ignoriamo chi sia il sovrano. Quando perfino la sua identità verrebbe specificata dalla legge, non esiste garanzia che l'entità in questione determini effettivamente l'azione. Cosa succede, ad esempio, se la mobilitazione dell'eccezione da parte del sovrano genera un colpo di Stato dell'esercito contro il suo capo supremo? Si tratta di un'eccezione in seno all'eccezione o di un dislocamento del luogo di potere del sovrano? In questo secondo caso, in quale momento cessa questo dislocamento e come possiamo determinato che esso abbia effettivamente avuto fine? Ancora più importante, il presidente degli Stati Uniti è il "sovrano"? Il ramo esecutivo (o le sue forze armate) che egli presiede costituisce un'entità singolare, unitaria? Il presidente deve superare, reprimere e riconciliare le divisioni e gli antagonismi interni all'esecutivo? Qual è la portata della decisione del sovrano? Sono tutti influenzati in egual modo da questi? Inoltre, il sovrano è un soggetto dotato di una volontà e di interessi propri oppure si trova legato agli antagonismi ed agli interessi che caratterizzano in maniera più ampia la società? Nel primo caso che cos'è che motiva il sovrano? Questa motivazione è sempre la stessa per tutti i sovrani di tutti i tempi? Nel secondo caso, sarebbe possibile che il sovrano agisca per conto dei "potenti" che operano all'ombra delle istituzioni? Il carattere dei loro interessi influenzerebbe le modalità, l'intensità, l'estensività, la durata ed il fine dell'eccezione ed il suo stesso innescarsi? Un'eccezione dichiarata da un sovrano "catturato" da delle grandi compagnie petrolifere sarebbe la stessa  che un'eccezione "catturata" da degli insegnanti di scuola? (E perché il primo scenario appare più plausibile del secondo?). Inoltre, anche se fosse concepibile, la riduzione alla nuda vita (lo strappare l'individuo alle sue mediazioni legali ed alla sua capacità politica) costituisce il momento in cui il potere sovrano si forma, o quello dove quest'ultimo collassa (Boukalas, 2012a, p. 292-293) ? Infine, perché la normalità esiste tout court? Perché il portatore di un potere enorme lo utilizza solo occasionalmente? (Colatrella, 2011).

La capacità da parte della tesi dell'eccezione di fornire una risposta a questi interrogativi appare incerta. Sembrerebbe che facendo astrazione del contenuto sociale e storico dei suoi concetti, Agamben non sia in grado di fornire delle strutture che lo potrebbero alimentare per mezzo di una realtà socio-storica specifica. Al contrario, il contenuto socio-storico mina queste strutture vuote: il prezzo dell'essenzialismo è l'impermeabilità ad ogni realtà storica.

Lo Stato ed il diritto della società - un approccio strategico-relazionale
Un tentativo di pensare le modalità contemporanee del potere politico, in particolare relativamente a come sono riconfigurate dalla politica antiterrorista, potrebbe indubbiamente avere come fondamento delle posizioni epistemologiche opposte all'essenzialismo. Si tratterebbe di concettualizzare il diritto, la politica e la loro interrelazione in quanto fenomeni sociali dinamici determinati da, e condizionanti, i rapporti di antagonismo sociale in delle congiunture storiche specifiche. Ne risulterebbe una concezione del potere in termini di articolazioni storicamente variabili dei rapporti sociali, piuttosto che come un effetto strutturale antistorico. Una simile posizione concettualizzerebbe la norma e l'eccezione relativamente a delle configurazioni differenti del potere sociale. A tal fine, propongo un approccio "strategico relazionale" (ASR) dello Stato e del diritto. Lo spostamento concettuale implica che l'ASR generi una mutazione terminologica: si passa dal sovrano alla forma-Stato, dalla nuda vita alle dinamiche sociali, dall'eccezione alla crisi e dallo stato di eccezione allo statalismo autoritario.

L'ASR concettualizza lo Stato, non come una soggettività sovrana dotata di una volontà e di un potere proprio ma come un rapporto sociale. Lo Stato è il risultato di dinamiche sociali, esso costituisce il terreno su cui queste si giocano così come un'importante forma di agenzia in seno a tale spazio. Lo Stato è creato dall'antagonismo sociale. Le sue istituzioni permettono la riproduzione del dominio di certe forze sociali su altre. Esso non possiede il potere. Il potere dello Stato è piuttosto una condensazione di dinamiche sociali mediate da delle istituzioni statali. Così, lo Stato forma un terreno ineguale di antagonismo sociale. Le forze sociali lottano per la definizione del potere dello Stato catturando, aggiustando, influenzando, abolendo e creando delle istituzioni statali. Inoltre, lo Stato costituisce un agente chiave nell'antagonismo sociale. Seleziona, combina ed appoggia le strategie di certe forze sociali in seno al potere dello Stato (e ne esclude e disorganizza altre). Il suo essere agenzia non è affatto volto a garantire i suoi propri interessi o a promuovere la sua propria potenza ma a sostenere le forze sociali che sono rappresentate in maniera predominante in seno alle istituzioni (per delle trattazioni più dettagliate dell'ASR dello Stato, vedi Poulantzas, 1978, p. 191-367 ; Jessop, 1990, 2008).

Similmente, un approccio strategico-relazionale considera il diritto come un rapporto sociale. Il sistema giuridico assicura la riproduzione durevole e relativamente pacifica del dominio di alcune forze su altre. Il contenuto del diritto è una doppia codifica delle dinamiche sociali: quest'ultime sono mediate soprattutto attraverso la materialità istituzionale dello Stato e in seconda battuta per mezzo del sistema giuridico. Ciò fa del diritto un terreno e un obiettivo dell'antagonismo sociale oltre che un vettore chiave dell'intervento statale sullo stesso. Inoltre, il diritto viene creato dallo Stato e rappresenta il quadro fondatore della sua istituzionalità, del suo potere (così come dei limiti di questo) e dei suoi rapporti con la società, al di là del suo quadro istituzionale. Quindi, il diritto costituisce una codifica particolare delle dinamiche non solo sociali ma anche statali (Boukalas, 2014, ch. 2).

Anche una presentazione così ellittica dell'ASR, destinata soprattutto a marcare la nostra distanza rispetto alla prospettiva di Agamben, ci può aiutare a porre di nuovo la questione dell'eccezione. La capacità dello Stato di allargare i limiti del sistema giuridico, avverando così la questione dell'eccezione, deriva dal suo rapporto con il diritto nella misura in cui ne costituisce il suo produttore ed il suo esecutore principale. Può negoziare, modificare, emendare, sospendere o abolire il diritto in quanto lo produce e lo implementa. Così facendo, lo Stato non è una cosa (un effetto strutturale come per Agamben) né un soggetto (il sovrano, come in Schmitt) ma una particolare articolazione ed essere agenzia nelle dinamiche sociali. La dichiarazione o meno, da parte del sovrano, dello stato di eccezione, il contesto, il contenuto, l'intensità, la durata e gli obiettivi del momento eccezionale così come il sostegno, la tolleranza e la resistenza da parte delle diverse forze sociali che determinano il successo delle misure eccezionali: tutto ciò dipende dalle configurazioni socio-storiche fra forze sociali e dal modo in cui esse sono rappresentate in seno allo Stato.

Allo stesso modo, piuttosto che apparire come controparte sotto-teorizzata dell'eccezione, la normalità costituisce una configurazione stabile delle forze sociali oltre che il quadro della riproduzione e dell'evoluzione ordinata di tale configurazione. Sotto quest'angolatura, l'eccezione costituisce precisamente il momento in cui l'antagonismo sociale non può più essere contenuto dentro le sue espressione istituzionalizzate, che sono lo Stato ed il diritto, sia perché la conflittualità è troppo acuta sia perché le istituzioni politiche sono troppo rigide. Quindi, piuttosto che costituire un momento di ri-creazione dell'ordine sociale, l'eccezione significa al contrario la difesa ostinata da parte dello Stato di tale ordine di fronte alla minaccia rappresentata dalla popolazione (vedi Kondylis, 1994, p. 16 ; Laclau, 2007, p. 157-158, p. 175).

La natura della minaccia e quella dell'ordine, la soglia a partire dalla quale l'ordine di trova ad essere "minacciato", tutto questo è socio-storicamente specifico. Il concetto di crisi potrebbe qui fornire un correttivo al concetto apertamente astratto e strutturalista dell'eccezione. Innanzitutto, la crisi può essere specificata a partire da quel che attiene alle sue forma. La crisi politica, in particolare, può prendere (e combinare) la forma di una crisi dello Stato, della legittimità, della rappresentanza, della legalità, ecc. Tener conto di questo, ci permette di meglio situare la discussione attorno alla «eccezione». In secondo luogo e soprattutto, la crisi è l'opera delle forze sociali. Anche se ogni organizzazione sociale, economica  e politica contiene le sue tendenze alla crisi, quest'ultima non esplode a meno che l'antagonismo sociale non trasformi tale tendenze in attualità (Poulantzas, 1976a). In questo contesto, il problema del rapporta fra la regola e l'eccezione si trasforma in interrogativo sulle forme normali o eccezionali dello Stato e sulle forme giuridiche associate.

Le forme dello Stato - normali ed eccezionali
La statualità, ossia il concetto ed il processo di costituzione di uno Stato, implica una divisione radicale del lavoro politico: la capacità formale, frutto di un accordo collettivo oppure imposto, di istituire, organizzare, dirigere ed amministrare la vita sociale viene estratta dalla società e viene monopolizzata da un sistema istituzionale particolare, lo Stato  (Castoriadis, 1983).

Al di là di questa caratteristica specificante, una discussione intorno allo (o una teoria dello) Stato "in generale" avrebbe poco senso, tenuto contro del fatto che si riferirebbe simultaneamente all'impero persiano, alla Spagna del 14° secolo o alla Svezia del 20°... Questi ultimi costituiscono in effetti tutti degli Stati. Una tipologia degli Stati in funzione del rapporto sociale principale su cui si basano e che hanno come funzione quella di riprodurre, ci aiuterebbe a mettere in evidenza la loro rispettiva peculiarità. La discussione ci porterebbe allora su dei tipi di Stato, lo Stato feudale, il dispotismo orientale, la teocrazia, l'impero, la monarchia assoluta, ecc. (Poulantzas, 1973, p. 142-167). Qui, tratto degli Stati Uniti contemporanei in quanto Stato capitalista, un tipo specifico per la sua istituzione sulla base della separazione di politica ed economia ed orientato verso l'organizzazione di forme sociali e politiche che garantiscano l'accumulazione del capitale (Poulantzas, 1973, p. 355-358, 1978, p. 37-42 ; Jessop, 1990, 2002, p. 187-152 ; Neocleous, 2000, p. 190-194).

Tuttavia, l'identificazione di un tipo di Stato non permette del tutto di trattare lo Stato dato in un momento storico specifico. Le tipologie si espandono nel tempo e nello spazio (in una prospettiva centrata unicamente sul tipo, l'Olanda del 18° secolo e la Malesia del 21° verrebbero trattati come degli equivalenti in quanto appartengono entrambi al tipo capitalista) e non si presentano mai in forma pura. Residui di tipi storici precedenti possono essere preservati e dimostrarsi necessari per la costituzione del tipo presente di Stato. Inoltre, degli Stati specifici possono appartenere a più tipi: uno Stato patriarcale può essere anche capitalista (ad esempio, l'Arabia Saudita), uno Stato capitalista può anche essere razziale (ad esempio, l'apartheid in Sud Africa), ecc. (Poulantzas, 1973, p. 108-109 ; Koch et al., 2011, p. 70-73).

Così, quando si guarda a degli Stati specifici, la questione del loro tipo passa in secondo piano e quella della loro forma diventa centrale. Qui il termine di forma-Stato si riferisce all'articolazione storica specifica del rapporto fra l'apparato dello Stato ed il potere statale, fra la struttura e la strategia statale, e fra lo Stato e la società situata "al di fuori" delle sue istituzioni (Jessop, 1990, ch. 2 ; Boukalas, 2014, p. 252-261).

Per quel che attiene allo Stato di tipo capitalista, si possono distinguere due forme: normale (ad esempio, la forma liberale-parlamentare o amministrativo-sociale) ed eccezionale (ad esempio, il fascismo o le dittature militari). Le forme normali si caratterizzano per la separazione dello Stato dalla società civile da una parte e la separazione dei poteri in seno allo Stato dall'altra. I rapporti fra i diversi rami dello Stato da un lato e fra lo Stato e la società civile dall'altro, sono regolati dalla legge. La società civile interviene (le forze sociali canalizzano le loro richieste) nello Stato attraverso dei vettori istituzionali come i partiti, ii sindacati, le lobby, le ONG ed altri. Questa soluzione rende le forme normali stabili, elastiche e in grado di accogliere cambiamenti delle configurazioni in senso alle forze sociali (Poulantzas, 1973, p. 229-252, p. 296-303).

Viceversa, le forme eccezionali rompono, secondo gradi differenti, la separazione dei poteri e concentrano il potere dello Stato nelle mani dell'esecutivo - militare, poliziesco e/o i vertici dell'amministrazione. Esse perturbano la separazione fra Stato e società civile e (attraverso l'incorporazione e la repressione) sottomettono quest'ultima al controllo statale. Così, le forme eccezionali tendono ad esercitare il potere non solo attraverso il diritto ma anche per mezzo di decreti esecutivi. Le forme eccezionali scattano quando l'intensità dell'antagonismo sociale non può più essere contenuto nei canali istituzionali esistenti, cosa che minaccia il proseguimento dell'ordine capitalistico. Esse sopprimono l'antagonismo sociale e di conseguenza non possono accogliere dei cambiamenti in seno alla configurazione delle forze fra le frazioni del capitale, o fra quest'ultime e le classi subalterne. Ciò rende le forme eccezionali instabili ed inclini alla crisi. Quando avvengono dei cambiamenti significativi nella configurazione delle forze al di fuori (necessariamente) dello Stato, quest'ultimo, una volta che la sua capacità coercitiva viene superata dalla situazione, crolla. Questo genere un momento di indeterminatezza radicale che può minacciare il proseguimento del dominio capitalista e, di conseguenza, il carattere capitalista dello Stato (Poulantzas, 1974, p. 313-329, 1976a).

Anche ad un livello così generale, la discussione intorno ai tipi e alle forme di Stato porta a riconfigurare il dibattito intorno all'eccezione, soprattutto orientandoci verso l'analisi della norma, cioè di quello cui l'eccezione fa eccezione. Una tale prospettiva mette in evidenza la pluralità dei modi di organizzazione del potere politico, essendo ciascuno caratterizzato dalle sue proprie configurazioni eccezionali. Ne consegue che l'eccezione di un modo di organizzazione politica (ad esempio, la repubblica romana) ha poco in comune con l'eccezione di un altro modo (ad esempio, la sicurezza interna agli Stati Uniti). Inoltre, l'insistenza su questa pluralità di costellazioni di potere che risultano da una combinazione di forme (normali ed eccezionali) di diversi tipi di Stato si oppone alla riduzione delle modalità di potere ad una dicotomia unica e trans-storica norma/eccezione.

La questione è ora quella di sapere se gli Stati Uniti contemporanei costituiscono una forma-Stato eccezionale-dittatoriale oppure normale-democratica. È difficile sostenere che attualmente gli Stati Uniti siano una dittatura. Le istituzioni della democrazia politica mantengono la loro forma e continuano a funzionare normalmente. Non vi sono tentativi di annullare la democrazia, ma piuttosto di trasformarla portandola cerso delle forme più oligarchiche. Questo progetto è stato intrapreso dai due partiti dominanti ed è il risultato di un consenso politico e non di un acuto antagonismo. Inoltre, non c'è alcun fallimento dei partiti e delle reti politiche esistente per quel che riguarda il loro lavoro di rappresentanza della classe dominante  (Poulantzas, 1974, p. 122-123 ; Belandis, 2004, p. 71-88).

Tuttavia, sembra comunque difficile negare l'indurimento autoritario dello Stato in tutte le sfere di attività, dai poteri giuridici alle rappresentanze politiche, dalle modalità di mantenimento dell'ordine alla costruzione di piattaforme di cittadini e dalla ristrutturazione istituzionale allo schiacciamento dell'opposizione sociale. Queste tendenze antidemocratiche sono persistenti e sistematiche.

Sembrerebbe che ci troviamo di fronte ad una forma-Stato ibrida. Questo ci porta ad affrontare lo statalismo autoritario.

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Lo statalismo autoritario - I e II fase
Il termine statalismo autoritario (SA) venne elaborato da Nicos Poulantzas alla fine degli anni 1970, per dar conto dei cambiamenti in seno allo Stato provvidenza keynesiano che mirava a contrastava la crisi. La tendenza generale di questa mutazione - e le caratteristiche che specificano la forma SA - consiste in un controllo statale esteso ed intensificato della vita sociale, combinato ad una restrizione delle libertà democratiche e, in maniera più generale, della capacità della popolazione di influenzare il potere statale. Lo statalismo autoritario è una forma normale dello Stato capitalista, che, tuttavia, incorpora, combina e rende permanenti molteplici elementi autoritari (Poulantzas, 1978, p. 203-204, p. 209).

Nella prima fase (inizio degli anni 1970), lo SA è caratterizzato da un trasferimento di potere dal legislativo verso l'esecutivo e dalla sua concentrazione nei vertici più altri di quest'ultimo di modo che le funzioni di governo si trovano ad essere monopolizzate dal presidente o dal gabinetto. Il declino del legislativo è in parte responsabile dell'erosione di un quadro giuridico stabile, astratto ed universale cosi come della proliferazione di leggi ad hoc e post hoc  e delle prerogative esecutive. Col declino dei parlamenti, l'elaborazione della strategia e la decisione politica avviene sempre più in seno ad una rete di potere parallela e nascosta, formata da più forum che trascendono i diversi rami statali ed aggirano i canali formali della rappresentanza in seno allo Stato. Inoltre, il ruolo dei partiti politici viene invertito: le piattaforme in cui i membri della società potevano suggerire e perfino imporre alle istanze dirigenti delle politiche, si trasformano in cinghie di trasmissione che trasmettono le decisioni dei dirigenti ai membri della società. Questa inversione si combina con l'avvento dei media di massa che diventano il meccanismo ideologico predominante. Nella misura in cui avviene il declino di parlamenti e partiti, si assiste ad un'inflazione dell'amministrazione che si impone come il luogo chiave dell'elaborazione delle politiche e dell'antagonismo sociale. La burocratizzazione della politica implica un cambiamento della legittimità statale che ora si fonda su una base burocratico, a detrimento del concetto "d'interesse generale". Infine, la coercizione si indurisce. Il potere poliziesco ha ora per oggetto innanzitutto la "mentalità" dell'individuo e "l'obiettivo del controllo che oscilla dall'atto criminale alla situazione criminogena, dal caso patologico all'ambiente patogeno". La prevenzione diventa così una strategia di mantenimento dell'ordine. Inoltre, viene costituito un arsenale giuridico, marziale ed amministrativo al fine di impedire le lotte popolari. Rimane "nascosto" e "in attesa" e viene mobilitato solo contro le manifestazioni di acuto antagonismo (Poulantzas 1976b, p. 321-322, 1978, p. 186, p. 210, p. 217-241 ; vedi anche Jessop 1985, p. 285-287, 2011, p. 48-51).

Il periodo degli anni 1980 e 1990 è segnato da un contrattacco capitalista continuo, guidato dalla finanza e che viene esercitato sulla base di una piattaforma ideologico-politica neoliberista. L'autoritarismo statale rimane la piattaforma dominante ma viene regolato in maniera significativa al fine di accogliere e promuovere l'equilibrio delle forze sociale in via di mutamento: entra nella seconda fase. La strategia principale dello Stato si costruisce ora intorno all'idea del "Workfare" [*3]. Sulla base di una concettualizzazione del lavoratore inteso come costo di produzione (anziché come una fonte di rivendicazioni), viene posta in essere una drastica concentrazione di ricchezza sociale attraverso la stagnazione dei salari e delle pensioni, lo smantellamento della protezione giuridica degli occupati, la flessibilità temporanea e part-time, la tassazione regressiva e la restrizione della protezione sociale. I sindacati vengono esclusi dai forum politici, e come unico interlocutore dello Stato rimane il capitale. In tale contesto, da garante dell'aiuto sociale e come istigatore della domanda generale, lo Stato si trasforma in coordinatore di un'economia privatizzata ed in un esecutore della deregolamentazione.

Inoltre, la scala nazionale cessa di costituire l'ambito predominante della strategia politica ed economica. Di conseguenza, lo Stato deve iniziare, orchestrare, legittimare e rispondere agli sviluppi in seno ed al di là dei diversi livelli di attività socio-politica (locale, regionale, nazionale ed internazionale). Il coordinamento della politica a livello ed entro le sue sfere viene assunto da dei meccanismi di governance pubblici-privati (la "rete parallela") a scapito delle catene di comando gerarchico (Jessop, 2002). In tal modo si modifica il mantenimento dell'ordine. Sempre più determinato da degli organi di governance, la sua missione diventa quella di salvaguardare il capitale presente nello spazio pubblico (Garland, 2002). Infine, questa fase è caratterizzata dal ritiro del "diritto di Stato". Ciò significa la rimozione delle protezioni legali per i cittadini e per i lavoratori a fronte del "workfarismo" galoppante (Handler, 2004, p. 48-54, p. 58-59, p. 76-78 ; Sommerlad, 2004, 2008) e si esprime nell'accresciuta capacità del grande capitale transnazionale di produrre la sua propria legge, ed a instituire ed a regolare i suoi affari (Teubner, 1997 ; Scheurman, 1999, 2001 ; Likosky 2003).

La sicurezza interna - lo statalismo atutoriario, III fase
Al volgere del secolo, questo accordo entra in crisi. Nei paesi del centro capitalista, la strategia neoliberista è stata sottoposta ad una severa pressione popolare (Kelin, 2002, p. 3-40) in quanto il modo di accumulazione basato sugli investimenti diretti all'estero e le fusioni che sono stati il motore dell'economia per tutto il corso degli anni 1990 avevano raggiunto il punto di esaurimento. Il mercato azionario fa un tonfo ed un mercato crivellato di debiti si dirige verso un collasso globale (Panitch, 2000, p. 27-30 ; Brenner, 2009).

Nel corso di questa sequenza, negli Stati Uniti, i settori dell'armamento e dell'energia si impadroniscono della Casa Bianca e cercano di evitare il crollo attuando un modo alternativo di accumulazione basato sulla stagflazione. Questo modo, al di là della dissolutezza intracapitalista che lo caratterizza, implicava un attacco frontale agli interessi materiali della popolazione (Nitzan & Bichler, 2009, p. 362-397). L'11 settembre venne utilizzato per galvanizzare il sostegno sia della popolazione che delle frazioni capitaliste rivali a favore di un insieme di politiche alla base della nuova strategia di accumulazione. Per attenuare gli effetti negativi di questo modo di accumulazione sulla popolazione, quest'ultima venne spinta verso un'accresciuta dipendenza dal consumo a credito.

Questo riallineamento è il risultato delle mutazioni della forma-Stato e segnala un terza fase dello SA. Questo nuovo momento consiste in una radicale intensificazione dell'esclusione politica della popolazione, combinata ad una drastica espansione del controllo coercitivo statale sulla società. Esso si cristallizza attorno a diverse grandi tendenze. Il ritmo deliberativo e la logica del potere legislativo viene severamente interrotta (in particolare, col voto di leggi fondamentali come il Patriot Act del 2001 o l'EESA del 2008), funzionando spesso come un comitato speciale dell'esecutivo. Ne risultano delle leggi vaghe, flessibili e mal definite che innalzano sistematicamente i limiti del potere esecutivo sia nel contesto delle investigazioni criminali che in quello della politica economica. La magistratura perde il controllo sulla polizia e smette di supervisionare le inchieste. Il rispetto delle procedure viene compromesso e l'onere della prova si inverte a favore della colpevolezza per associazione. La categoria criminale al centro dell'antiterrorismo (il "terrorismo interno"), soggettiva e determinata dalla motivazione politica dell'attore, costituisce un elemento cruciale di questo sconvolgimento. Inoltre, nel diritto criminale si assiste alla svolta preventiva che cerca di perseguire il crimine che non ha avuto luogo.

Quest'evoluzione non solo fa a brandelli lo stato di diritto ma conferma anche la fine della logica e della funzione specifica del sistema giuridico. Il diritto diventa un semplice strumento utilizzato dall'amministrazione nel perseguimento di questi obiettivi politici. In tal senso, il regime pseudo-legale e dominato dall'esecutivo di Guantanamo costituisce il culmine del deragliamento sistematico del sistema legale. Questo regime sembra estendersi all'insieme della comunità cittadina (Paye, 2007, ch. 5-6 ; Buckel et al., 2011, p. 164-165 ; Boukalas, 2014, p. 54-57). La svolta preventiva, combinata ad un disaccoppiamento dell'indagine criminale dal sospetto, significa che tutti possono essere sospettati di crimini non commessi.

L'esercizio del potere poliziesco si basa sempre più sull'intelligence che diviene totale e che cerca di coprire tutte le interazioni fra gli individui (Donohue, 2008, p. 285 ; Treverton, 2011, p. 233-266 ; Boukalas, 2012a, p. 134-167). La sorveglianza generalizzata delle comunicazioni e dell'utilizzo di Internet da parte di tutta la popolazione non è un "abuso" ma un'occorrenza sistemica. Inoltre, il meccanismo di potere poliziesco si ristruttura. L'FBI si trasforma da agenzia poliziesca in agenzia di intelligence, mentre l'apparato di intelligence, sempre più nevralgico, viene centralizzato e passa sotto il controllo diretto del presidente. Similmente, attraverso l'istituzione del dipartimento della sicurezza interna, il vasto apparato di polizia sub-nazionale (a livello di Stati e a livello locale) viene inserito nella rete di intelligence e viene posto sotto il controllo federale (Boukalas, 2014, ch. 8-9).

La natura politica del terrorismo fa dell'attività politica popolare un obiettivo primario sia per l'apparato di polizia nazionale che per quello sub-nazionale. Tale attività viene pesantemente sorvegliata, sottoposta a molestie senza fine, infiltrata e repressa. La sua penalizzazione si intensifica costantemente e vengono estesi i poteri polizieschi volti al suo controllo. Dopo i partiti ed i sindacati, per la politica popolare viene chiusa anche la strada.

Inoltre, si assiste ad un cambiamento nel modo di legittimare il potere dello Stato, che ora si basa sulle competenze (supposte) in materia di sicurezza. Contrariamente alle competenze economiche, condivise in una certa qual misura dal pubblico e che possono di conseguenza essere oggetto di dibattito, le competenze in materia di sicurezza sono segrete, e fanno della legittimità una questione di fede (Boukalas, 2012a, p. 291-292). In questo quadro, il rapporto sicurezza-popolazione viene ad essere rimodellato. Ora diventa soprattutto coercitivo. La concettualizzazione di ogni cittadino in quanto sospetto di crimini non commessi iscrive l'insieme del rapporti Stato/popolazione in un meta-rapporto di polizia. Questo significa un'importanza crescente della polizia in seno ai meccanismi statali nel momento in cui la sua politicizzazione aumenta: prende di mira la mobilitazione politica popolare, è controllata dai vertici dell'esecutivo e definisce i rapporti Stato/popolazione. Inoltre, lo Stato attua delle piattaforme di partecipazione dei cittadini alla sicurezza interna (il programma Citizen Corps) all'interno delle quali il partecipante è condizionato a lavorare all'interno di rigide gerarchie (dove si trova sempre al gradino più basso della scala), senza salario, senza assicurazione o protezione e senza diritti sociali (Boukalas, 2012b).

In questo Stato di sicurezza interna, il workfarismo - l'attacco agli interessi materiali della popolazione - non accenna a diminuire. Il volontario della sicurezza interna è condizionato in quanto soggetto del workfare ed il lavoratore viene concettualizzato come una minaccia potenziale, cosa che permette di svalutarlo ulteriormente. In effetti, il periodo dell'emergere della sicurezza interna coincide con un'ondata di attacchi agli interessi materiali della popolazione. Viceversa, la rete di potere parallela Stato-capitale (ad esempio, "i comitati consultivi") viene legalizzata e riconosciuta come struttura di elaborazione politica principale. È protetta dal controllo popolare (e perfino parlamentare). Tuttavia, la creazione di tali reti rimane prerogativa dell'esecutivo. Un margine di azione più grande viene concesso per proteggere alcuni capitali dai procedimenti penali, designandoli come "infrastrutture critiche", e per distribuire contratti e fondi di salvataggio, come meglio preferiscono, ai soggetti privati da loro selezionati (Legge sulla sicurezza interna del 2003; 2008 EESA).
Sembra che la nuda vita sia meravigliosa per il capitale.

Non solo assistiamo ad una recrudescenza di statalismo alla vecchia maniera che assorbe la macchina del governo ma avviene anche che torna ad essere predominante la scala nazionale. Le strategie securitarie ed economiche vengono attuate avendo come orizzonte ultimo la scala nazionale, anche se implicano un'attività che la supera. Presa nel suo insieme, la sicurezza interna costituisce una riconfigurazione della forma-Stato che autorizza un'azione esecutiva ultra rapida ed arbitraria sia in materia economica che securitaria e che istituisce una mega macchina per prevenire, reprimere e schiacciare l'antagonismo sociale. La sicurezza interna è la blindatura dello Stato capitalista di fronte alla crisi attuale e quella a venire. Essa garantisce una gestione sotto sicurezza della crisi esacerbandone le condizioni che la causano: l'esclusione politica e lo spossessamento materiale della società.

Viceversa, il capitale dominante fa dello Stato quasi un suo affare privato. Inoltre, la presente configurazione del meccanismo statale sembra perfettamente in grado di regolare l'antagonismo intracapitalista. Questo si manifesta nel transfert fluido del dominio dal settore degli armamenti e dell'energia verso quello della finanza a partire dal 2008. Questo spostamento implica un cambiamento nella predominanza dei meccanismi statali che passano dal dipartimento della Giustizia e dal Pentagono al Tesoro e alla FED. Di conseguenza, sembrerebbe che la natura ibrida dello SA prenda ora la forma di un doppio edificio politico: uno Stato democratico normale per il capitale dominante, e uno Stato eccezionale-dittatoriale per tutto il resto. Prendendo in considerazione il significato sociale delle forme eccezionali, vediamo che il dilagare del "potere sovrano" è anche il segno del carattere limitato ed instabile dell'egemonia sociale.

Conclusione
A partire da due diverse traiettorie, la nostra percezione della sicurezza interna sembra arrivare a due conclusioni simili: uno stato di eccezione permanente per Agamben ed un doppio edificio politico che gestisce la crisi permanente (quella attuale e quella attesa) dal punto di vista dell'ASR (Approccio Strategico Relazionale). Questa convergenza è impressionante ed implica una comprensione simile dell'attualità del potere politico. Tuttavia, a parte il fatto di condividere un interesse comune e segnato dall'attuale configurazione del potere, questa similarità è fuorviante. Per cominciare, in Agamben non esiste alcuna nozione di potere "contemporaneo". Essenzialmente il potere è sempre lo stesso - un effetto del rapporto strutturale fra la nuda vita ed il sovrano. Quel che varia è il grado con cui il potere si rivela, e questo d'ora in poi raggiungerà proporzioni apocalittiche. Al contrario l'ASR è attento a distinguere le forme di potere nella loro rispettiva temporalità, come abbiamo visto attraverso il nostro esame dei tipi, forme e fasi dello Stato. Agamben cerca di definire la natura eterna del potere mentre l'ASR cerca di comprendere le congiunture storiche. Qui sta la differenza fra le due prospettive.

La reintroduzione della storia significa anche il ritorno del sociale come campo analitico. Mentre in Agamben il concetto di sociale brilla in maniera spettacolare per la sua assenza, per l'ASR costituisce il fondamento epistemologico. Così il sovrano qui si è dissolto nello Stato e nel diritto concepiti come dei rapporti sociali creati da delle dinamiche sociali. Inoltre, re-istituire la storia e la società come oggetto di analisi implica il ritorno della politica e dell'antagonismo sociale. Dimenticato nella struttura del potere sovrano e della nuda vita, l'antagonismo sociale costituisce la dinamica chiave che l'ASR cerca di catturare. Questo si manifesta nello spostamento analitico della "eccezione" verso la crisi affrontata in quanto dinamica sociale e nell'esposizione delle forze sociali (il capitale dominante ed i suoi settori, i movimenti popolari) visti come attori chiave nella riconfigurazione del "potere". Ne viene fuori che lo Stato Autoritario costituisce un segno di debolezza del presente ordine sociale.

Infine, mentre l'approccio agambeniano sembra condannato a rimbalzare da un livello di astrazione assai elevato al particolarismo, liberando delle corrispondenze sparse fra l'essenza eterna del potere ed alcune micro-pratiche ed alcuni artefatti, l'ASR ci invita ad esplorare lo spazio che si trova fra l'elevata astrazione e la particolarità. Concentrandosi sul contesto delle dinamiche socio-storiche, si mostra capace di decifrare le convergenze delle "linee generali di forza" espresse (nella misura in cui sono distinguibili) negli orientamenti strategici del potere dello Stato. Ci permette così una ricca comprensione dei modi le cui motivazioni, le cui pratiche, le cui strategie e significati si combinano al fine di produrre delle congiunture specifiche.

Si potrebbe certamente difendere l'argomento secondo il quale lo statalismo autoritario è un'esemplificazione dello stato di eccezione cui non si oppone, ma che piuttosto lo afferma. Ma, nella misura in cui ci confrontiamo con dei fenomeni sociali attuali e non con le rivelazioni degli arcani della divinità del potere, questo è davvero importante? L'approccio strategico relazionale pone la società ed i suoi rapporti dinamici al centro dell'analisi anziché nel non-luogo situato fra la nuda vita e Behemot. Questo dovrebbe bastare a distinguere la teoria sociale dalla teologia politica.

- Christos Boukalas - Articolo apparso inizialmente col titolo « No exceptions: authoritarian statism. Agamben, Poulantzas and homeland security », in Critical Studies on Terrorism, 7 ; 1, p. 112-130. - Pubblicato su Periode il 27 giugno 2016 -

fonte: Periode

NOTE:

[*1] - Creato il 27 novembre 2001 dal Homeland Security Act (Legge sulla sicurezza interna), il Dipartimento degli Stati Uniti per la Sicurezza Interna ha 8 funzioni principali fra cui la prevenzione degli atti di terrorismo  appare al primo posto. Esso raggruppa sotto una medesima tutela amministrativa 22 agenzie federali fino ad allora distribuite nei vari dipartimenti ed agenzie dell'Amministrazione. La "sicurezza interna" qui si riferisce al dipartimento della Sicurezza interna ed all'insieme di dispositivi, conoscenze e processi di controllo ad essa collegati.

[*2] - Per una rassegna critica di queste posizioni, vedi Neocleous (2006).

[*3] - Il termine difficilmente traducibile di "workfare" designa sia un insieme di programmi sociali che l'ideologia che li legittima. Kinsky definisce il workfare nella seguente maniera: "I programmi di workrare pongono come principio che i beneficiari dell'aiuto sociale devono lavorare per ricevere un'indennità mensile". Il workfare "mira a limitare il numero di destinatari dell'aiuto sociale o al più a condizionarne accesso con un lavoro svalorizzato, rendendolo più un programma anti-assistenza che una struttura di assistenza. Inoltre, il ricorso al lavoro dei destinatari del workfare ha contribuito notevolmente alle imprese di flessibilità e di degradazione delle condizioni di lavoro del salariato americano. Lungi dal gettare un ponte fra il welfare ed il lavoratore salariato, il workfare attacca simultaneamente entrambe le istituzioni dello stao sociale" (Kinsky, 2009, p.1) (N.D.T).

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venerdì 8 luglio 2016

Sotto la torre di Babele

Babele1

Il secolo XX è stato, in buona parte, il secolo della linguistica generale, che ha prodotto sostanziali avanzamenti nello studio del linguaggio. Basta citare con Saussure linguisti come Hjelmslev, per cui la lingua è una forma-contenuto, o Sapir, che, crocianamente, mette l’accento sull’estetica, ovvero sul carattere metaforico del linguaggio. Con essi la linguistica ha conquistato la propria autonomia scientifica. Ma dal secondo dopoguerra in poi c’è stato, soprattutto nel mondo anglosassone, un ritorno a concezioni premoderne di stampo razionalistico, che hanno riportato lo studio del linguaggio nell’alveo della psicologia e in un certo senso della metafisica. Prima gli “universali” di Greenberg e poi l’antilinguistica di Chomsky hanno creato un clima concettuale aprioristico e sterile.
L’idea che tutte le lingue hanno la stessa struttura ad un livello più o meno astratto è diventata per molti un articolo di fede ed alcune riviste specializzate lo diffondono con impegno anche fuori degli Stati Uniti. Si è aggiunta una proliferazione di teorie grammaticali costruite su basi puramente logiche e prive di effettivi riscontri nella realtà delle lingue.
Questo mentalismo “anglocentrico”, mascherato da universalismo, è in evidente contrasto con l’ampliamento dell’orizzonte scientifico a cui si è assistito negli ultimi tempi . Il nostro patrimonio di conoscenze sulle lingue del mondo si è arricchito enormemente, e l’effetto Babele, ossia la legge di difformità che sembra governare il linguaggio, è apparso come un “fenomeno vitale manifesto”. La scoperta di lingue lontanissime dal nostro orizzonte mentale come quelle della Nuova Guinea e del Sudamerica tropicale ha fatto emergere, in modo talora vistoso, la relatività dei nostri concetti linguistici, ancorati alla grammatica greco-latina.
A fronte di ciò la linguistica è chiamata ad abbandonare quella che Firth chiamava la “fallacia universalistica” e a recuperare il proprio spirito empirico, rendendo effettivo il richiamo di Saussure allo studio delle lingue particolari.
Questo libro offre un quadro della situazione attuale, in cui la linguistica autentica convive con quella di second’ordine e le speculazioni più azzardate con la descrizione delle lingue più “esotiche”.

(dal risvolto di copertina di: Lucio D'Arcangelo, "Il genio della lingua", Solfanelli, pp. 96, euro 9)

lingua

Salvate la lingua italiana dagli italiani
- di Renato Besana -

È antichissimo il mito d'una lingua primigenia dalla quale tutte le altre discendono: risale alla biblica torre di Babele, il cui fantasma continua ad aleggiare nella ricerca scientifica che, muovendo da presupposti che poco hanno a che fare con il sacro, si sforza di rintracciare un’origine comune nella varietà - questa sì babelica - degli idiomi parlati nel mondo.
Nonostante gli sforzi, la ricerca mai è riuscita ad andare oltre la teoria, magari seducente, ma che mai ha trovato riscontri. Di questo si occupa Lucio D'Arcangelo nel suo Il genio della lingua (Solfanelli, pp. 96, euro 9), per testimoniare l'unicità che caratterizza culture e tradizioni diverse. Ogni lingua, avverte, è un'arte collettiva dell'espressione, costituisce un punto di vista, ponendosi quale pensiero prefilosofico. Costituisce dunque un caso a sé, da indagare per come si presenta.
La linguistica del XX secolo, al contrario, è stata soprattutto generalista. Grazie agli «universali» di Greenberg e soprattutto all’antilinguistica di Chomsky ,si è diffuso un pregiudizio che si è ben presto trasformato in articolo di fede, secondo il quale tutte le lingue, a un livello profondo, avrebbero l'identica struttura. Si tratta d’un miraggio, una sorta di mentalismo anglocentrico che le ricerche più recenti, condotte sul campo soprattutto in Nuova Guinea e in America latina, non hanno mancato di smentire. L'assoluta difformità non attiene soltanto alle parole e ai suoni che le compongono, tra loro incomparabili, ma anche alla sintassi.
In alcune lingue, per esempio, non esiste il soggetto, spersonalizzando così l'azione descritta nella frase; in altre - senza spingersi troppo lontano, in quelle finniche - manca la relazione tra verbo e oggetto. Più ci si addentra nello studio, più emergono differenze radicali, di cui D'Arcangelo dà conto con ricchezza di citazioni che al lettore non specialistico dischiudono prospettive inattese e sorprendenti: le nostre certezze, fondate sulla grammatica greco-latina, ci appaiono friabili, relative.
Un intero capitolo, dal titolo La bella lingua, è dedicato all'italiano. La distribuzione equilibrata delle vocali, la cui corretta pronuncia non è indispensabile alla comprensione di quel che si dice, la chiarezza fonica e l'assenza di parole che terminano con una consonante le conferiscono una natura dolce, armoniosa, musicale, come annotava Jean Jacques Rousseau, ben diversa, per esempio, dallo stile pointilliste del cinese o dalla scioltezza dell'inglese, composto secondo Alberto Savinio da parole-comete, che si dissolvono in un pulviscolo sonoro.
L'italiano, sottratto dalle esigenze immediate della comunicazione, diventò in tutt’Europa la lingua d'arte per eccellenza, che racchiude in sé il senso di una superiore civiltà. Annota con una punta di malinconia D'Arcangelo: «La lingua italiana non ha avuto eguale fortuna in Italia. La mancanza di un adeguato apprezzamento da parte delle classi dirigenti, soprattutto dagli anni Settanta del Novecento, è dovuta a due fattori concomitanti: da una parte lo storico legame della nostra lingua con la coscienza nazionale, indebolita dalla seconda guerra mondiale, e dall'altra proprio quel carattere elevato, di lingua di cultura, che le viene universalmente riconosciuto». Insomma, bisogna salvare l'italiano dagli italiani.

- Renato Besana - pubblicato su Libero del 28 giugno 2016 -

giovedì 7 luglio 2016

Spegnete quella luce, voglio dormire!

alarm

La luce dell'Illuminismo
- Il simbolismo della modernità e l'espulsione della notte -
di Robert Kurz

Ancora oggi, dopo più di 200 anni, continuiamo ad essere abbagliati dalla luce bellissima dell'Illuminismo borghese. La storia della modernizzazione si compiace delle sue metafore luminose. Il sole radioso della ragione deve penetrare le tenebre della superstizione e far vedere il disordine del mondo, di modo che finalmente la società possa essere configurata secondo criteri razionali. L'oscurità non appare come l'altra faccia della verità, ma come il regno negativo del demonio. Già nel Rinascimento, gli umanisti polemizzavano contro i loro avversari tacciandoli di "oscurantismo", "Più luce!", reclamava Goethe nel 1832, alla fine di suoi giorni sul suo letto di morte. Alla maniera classica, usciva di scena in grande stile.

I romantici si sono battuti contro questa luce fredda della ragione e in breve si sono votati alla religione. Invece della razionalità astratta, proponevano un irrazionalismo non meno astratto. Così, al posto delle metafore della luce, si dilettavano con le metafore dell'oscurità. Novalis scriveva un "Inno alla Notte". Ora, questa mera inversione del simbolismo illuminista in realtà non affrontava il problema. Incapaci a superare la dubbia unilateralità degli illuministi, i romantici non facevano altro che occupare il polo opposto della modernizzazione e si rendevano di fatto "oscurantisti" di un modo di pensare reazionario e clericale.

Ma il simbolismo della modernità può essere criticato anche per ragioni diametralmente opposte: in quanto paradossale irragionevolezza della ragione capitalista. Dal momento che è sicuramente singolare il fatto che le metafore illuministe della luce puzzassero, per così dire, di misticismo bruciacchiato. Il concetto di una fonte luminosa di una brillantezza soprannaturale, come suggerisce l'idea della ragione moderna, ricorda la descrizione del regno dei cieli trasfuso dalla fiamma divina, ed il concetto di "illuminazione" proviene dai sistemi religiosi dell'Estremo Oriente. Sebbene la luce della ragione illuminista sia terrena, essa ha assunto un carattere estremamente trascendentale. Il balenare celeste di un Dio perfettamente imperscrutabile viene soltanto secolarizzato nella banalità mostruosa del fine in sé capitalista, il cui rapporto cabalistico con la materia terrena consiste nell'accumulazione assurda di valore economico. Tutto questo non è ragione, ma suprema follia; e quel che brilla è il fulgore dell'assurdo, che ferisce e offusca la vista.

La ragione irrazionale dell'Illuminismo vuole totalizzare la luce. Questa luce, tuttavia, nel regno del pensiero non è un mero simbolo, ma possiede innanzitutto un forte significato socio-economico. Era fatale, a tal proposito, che il marxismo ed il movimento storico dei lavoratori intendessero sé stessi come i legittimi eredi dell'Illuminismo e delle sue metafore di luce. Nella "Internazionale", l'inno del marxismo, si parla di meraviglioso futuro socialista: "Allora splenderà per sempre il sol". Un caricaturista tedesco prese alla lettera questa frase e mostrò, nel suo "regno della libertà", alcuni uomini sudati in piedi sotto il sole cocente che sospirano: "Sono tre anni che splende senza mai tramontare".

Tutto questo non è solo una battuta. In un certo senso, la modernizzazione ha effettivamente "trasformato la notte in giorno". In Inghilterra - che com'è noto ha precorso l'industrializzazione - l'illuminazione a gas venne introdotta già agli inizi del 19° secolo e ben presto si diffuse in tutta Europa. Alla fine dello stesso secolo, le lampade a gas cedettero il posto alla luce elettrica. È stato scientificamente dimostrato da tempo che la mancanza di distinzione fra giorno e notte, sotto la fredda luce dei soli artificiali, influenza il ritmo biologico umana e causa danni psichici e fisici. Perché allora questa illuminazione globale forzata, che oggi ha raggiunto ogni angolo della Terra?

Karl Marx - egli stesso un erede dell'Illuminismo - dichiara a ragione che l'attivismo instancabile della produzione capitalista è "esagerato". Tuttavia questa mancanza di misura non può tollerare per principio che una parte di tempo rimanga "al buio". In quanto il tempo della oscurità è anche il tempo del riposo, della passività, della contemplazione. Al contrario, il capitalismo richiede l'ampliamento della sua attività al limite dello sforzo fisico e biologico. Questi limiti sono temporalmente limitati dalla rotazione della Terra intorno al suo asse, ossia, alle 24 ore del giorno astronomico, che possiede un lato chiaro (girato verso il sole) ed un lato oscuro. Il capitalismo propende a totalizzare il lato assolato e ad impossessarsi del giorno astronomico nel suo insieme. Il lato annottato turba quest'impulso. La produzione, circolazione e distribuzione delle merci deve "bucare la notte", perché il "tempo è denaro". Il concetto di "lavoro astratto" nella moderna produzione di merci corrisponde non solo al suo prolungamento assoluto, ma anche alla sua astrazione astronomica. Un tale processo è analogo all'alterazione della misura dello spazio. Il sistema metrico venne introdotto nel 1795 dal regime della rivoluzione francese e si diffuse con altrettanta rapidità dell'illuminazione a gas. In Germania, la transizione a questo sistema ebbe luogo nel 1872. Le misure dello spazio basate sul corpo umano (piede, cubito, ecc.), che erano differenziate quanto lo erano le culture umane, vennero sostituite dal metro astronomico astratto corrispondente alla quarantamilionesima parte del perimetro della Terra. Quest'unificazione astratta delle misure dello spazio rispecchiava l'immagine meccanica del mondo della fisica newtoniana, che a sua volta era servita da esempio alla moderna economia meccanica della scienza del mercato, così come l'aveva analizzata e promossa Adam Smith (1732-1790), il fondatore dell'economia. L'immagine dell'universo e della natura come un'unica grande macchina coincideva con la macchina universale economica del capitale, e le misure astronomiche diventavano una forma comune di macchina universale fisica ed economica. Questo non si applica solamente allo spazio, ma anche al tempo. Al metro astronomico, la misura dello spazio astratto, corrisponde l'ora astronomica, la misura del tempo astratto; e queste sono anche le misure della produzione capitalista di merci.

Solo con il tempo astratto, per il giorno del "lavoro astratto" è stato possibile proseguire dentro la notte e divorare il tempo del riposo. Il tempo astratto può disconnettersi dalle relazioni e dagli oggetti concreti. La maggior parte degli antichi orologi, come la clessidra e l'orologio ad acqua, non indicavano "che ora fosse"; prima, servivano a misurare processi concreti, al fine di designare il "tempo appropriato". Si potrebbe forse paragonarlo ad un contaminuti che ci avverte per dirci quando è cotto l'uovo. Qui, la quantità di tempo non è astratta, ma attiene ad una specifica qualità. Il tempo astronomico del "lavoro astratto", al contrario, non si riferisce ad alcuna qualità. La differenza è visibile ad esempio anche quando leggiamo nei documenti medievali che la giornata lavorativa dei servi della gleba doveva durare "dall'alba a mezzogiorno". Cioè, la giornata di lavoro era inferiore a quella odierna non solo in termini assoluti, ma anche relativi, variando a seconda della stagione e in inverno era minore che in estate. L'ora astronomica astratta, invece, ha permesso di fissare l'inizio della giornata "alle 6", senza considerare né le stagioni dell'anno né i ritmi del corpo.

Ecco perché l'epoca del capitalismo è anche l'epoca delle "sveglie", degli orologi che, con un suono stridente, colgono gli uomini nel sonno per costringerli a scaraventarsi nei luoghi di lavoro illuminati dalla luce artificiale. Ed una volta anticipato alla notte l'inizio della giornata, non c'è niente di più ovvio che portare la fine della giornata dentro la notte. Questa mutazione possiede perfino un suo lato estetico. Allo stesso modo in cui l'ambiente viene in un certo qual modo "smaterializzato" dalla razionalità imprenditoriale, dal momento che la materia e le sue correlazioni devono sottomettersi ai criteri di redditività, essa viene anche privata della sua dimensione e proporzione per mezzo di questa stessa razionalità. Quando a volte alcuni vecchi edifici ci sembrano in qualche modo più belli e confortevoli degli edifici moderni, e quando affermiamo che, rispetto agli attuali edifici "funzionali", ci impressionano in quanto irregolari, ciò si riferisce al fatto che le sue misure sono adeguate alle misure corporee e alle loro forme, come quelle del paesaggio. Al contrario, l'architettura moderna fa uso di misurazioni astronomiche dello spazio e di forme "decontestualizzate" "staccate" dall'ambiente circostante. Lo stesso vale per il tempo. Anche la moderna architettura del tempo viene ad essere deprivata di proporzione e contesto. Non è solo lo spazio ad essere diventato più brutto, ma anche il tempo.

Nel 18° secolo e all'inizio del 19°, sia il prolungamento assoluto quanto quello relativo della giornata di lavoro, attraverso l'introduzione dell'ora astronomica astratta, sono stati vissuti come una tortura. Per molto tempo, si è svolta una lotta disperata contro il lavoro notturno legato all'industrializzazione. Lavorare prima dell'alba e dopo il tramonto era, per così dire, immorale. Quando nel Medioevo si facevano lavorare degli artigiani di notte per ragioni di scadenza, ricevevano lauti pasti e salari principeschi. Il lavoro notturno era una rara eccezione. E a quanto pare una delle "grandi" conquiste del capitalismo é stata quella di aver fatto diventare la tortura del tempo una regola generale dell'attività umana.

Con la graduale riduzione della giornata assoluta di lavoro dei primordi del capitalismo, non è cambiato nulla. Al contrario, il cosiddetto lavoro a turni si è sempre più esteso nel 20° secolo. Per mezzo di due o anche di tre turni, le macchine vengono mantenute in funzionamento quasi ininterrotto, con brevi pause per lo scambio del personale, la manutenzione e la pulizia. Anche negozi e magazzini devono estendere al massimo il loro orario, rasentando il limite delle 24 ore. In Germania, quest'anno, abbiamo un dibattito sull'orario legale di chiusura del commercio, che fino a poco tempo fa era fissato al livello delle 18:30. E dal 1° novembre 1996 si è prolungata fino alle 20:00. In molti paesi, come negli Stati Uniti, non vi è alcun orario di chiusura definito per legge, e numerose strutture recano il cartello: "Aperto 24 ore". Da quando la tecnologia microelettronica di comunicazione ha globalizzato il flusso monetario, la giornata finanziaria si muove ininterrottamente da un emisfero all'altro. "I mercati finanziari non dormono mai", dice la pubblicità di una banca giapponese.

È la luce della ragione illuminista che illumina i turni di notte. Nella misura in cui la concorrenza si fa totale, l'imperativo esterno e sociale si trasforma in coercizione interiore dell'individuo. Il sonno diventa un nemico altrettanto sordido della notte, poiché quando si dorme si perdono opportunità e si abbassa irrimediabilmente la guardia rispetto all'attacco alieno. In un'economia di mercato, il sonno dell'individuo diventa sempre più corto e leggero, come quello di un animale selvaggio, e questo in maniera direttamente proporzionale al suo desiderio di "successo". Il tormento del lavoro notturno meccanico, imposto da altri, si manifesta a livello di amministrazione come rifiuto "volontario" del sonno. Esistono anche seminari nei quali è previsto l'esercizio di tecniche di minimizzazione del sonno. In tutta serietà, gli allievi dell'amministrazione oggi affermano: "L'imprenditore ideale non dorme mai", esattamente come i mercati finanziari!

Ora, la sottomissione dell'uomo al "lavoro astratto" e la sua misura astronomica del tempo è impossibile senza un controllo totale. Un controllo universale richiede anche osservazione universale, e l'osservazione è possibile solo alla luce: più o meno come la polizia, che durante gli interrogatori, dirige un fascio di luce sulla faccia del delinquente. Non a caso il termine "Illuminismo", in tedesco "Aufklärung", possiede una seconda accezione militare che vuol dire "riconoscimento del nemico". Ed una società in cui ciascuno diventa il nemico degli altri e di sé stesso, poiché a tutti tocca servire il medesimo Dio secolarizzato del capitale, diventa per necessità logica un sistema di osservazione ed auto-osservazione totale.

In un universo meccanico, anche l'uomo dev'essere macchina e ricevere il trattamento dei macchinari. La luce dell'Illuminismo è servito a questo, rendendolo trasparente. Il filosofo francese Michel Foucault mostra nel suo libro "Sorvegliare e punire" (1975) come questa "visibilità" totale è diventata una trappola storica. All'inizio del 19° secolo, il capitalismo praticava l'osservazione totale per mezzo di una "pedagogia penitenziaria" secondo i modelli sviluppati dal filosofo utilitarista e liberale Jeremy Bentham (1748-1832), attraverso un sagace sistema di organizzazione, punizione e perfino di architettura per carceri, fabbriche, uffici, ospedali, scuole e riformatori.

La sfera pubblica del mercato non è propriamente l'ambito della libera comunicazione, bensì una sfera di osservazione e controllo. Questo ci ricorda l'utopia negativa "1984" di George Orwell. Se questo controllo, nelle dittature totalitarie, veniva esercitato esternamente dall'apparato burocratico dello Stato e della polizia, nelle democrazie si è trasformato in auto-controllo introiettato, completato dai media commerciali, in cui i riflettori dei campi di concentramento si sono trasformati nelle luminarie di una gigantesca fiera di vendita al dettaglio. Qui non si discute liberamente, ma si irradia luce senza pietà. Nella democrazia commerciale, un simile sistema si è affinato al punto che gli individui obbediscono da sé soli agli imperativi capitalisti e seguono la strada loro tracciata come dei robot programmati.

In contrasto con la propria pretesa sociale, il marxismo è stato un protagonista del "lavoro astratto", nella misura in cui ha ceduto al pensiero meccanicistico dell'Illuminismo ed al suo perfido simbolismo della luce. Tutto ciò che c'era di dispotico nel marxismo deriva dal liberalismo illuminista. D'altra parte, i romantici, interessati a rendere giustizia alla faccia oscura della verità, non si allearono però con l'emancipazione sociale, ma con la reazione politica. Solo una volta liberata da questo carcere reazionario, la notte, il sonno ed il sogno potranno diventare le parole d'ordine emancipatrici della critica sociale.
La resistenza al mercato totale forse comincerà quando gli uomini si attribuiranno inopinatamente il diritto di dormire almeno una volta a sazietà.

- Robert Kurz - Pubblicato su Folha de São Paulo del 12.01.1997 -

fonte: EXIT!

mercoledì 6 luglio 2016

L’eccedenza e l’esperto

surplus

I quattro volti del surplus
- di Christophe Darmangeat -

Chiunque abbia qualche familiarità con il ragionamento materialista sull'evoluzione sociale sa (o crede di sapere) che il sorgere della differenziazione sociale, e quindi dello sfruttamento, è legato all'apparire di un "surplus", di un'eccedenza, assente nelle società dei cacciatori-raccoglitori e che si è poco a poco sviluppato con l'agricoltura. In realtà, quest'idea molto vecchia (ne troviamo le prime formulazioni già nel 18° secolo) si basa su una serie di supposizioni che non sono poi così evidenti come appaiono a prima vista. In questo post, non affronterò il cuore di questi ragionamenti; in quanto, prima di arrivarci, bisogna cominciare a mettersi d'accordo su cosa sia il "surplus" in questione. Infatti, a pensarci, ci si rende rapidamente conto che la parola può assumere almeno quattro significati assai differenti fra di loro. È questo il problema con le parole che ci sono familiari: si finisce per dimenticare che contengono del non detto, che può variare da un contesto all'altro e ne può cambiare totalmente il significato. Circostanzialmente, un surplus è un'eccedenza: è quindi il risultato di una differenza fra due quantità. Tutto sta a sapere quali...

Surplus fisiologico e surplus sociale
Una prima definizione di surplus consiste nel riferire la produzione di una società ai suoi bisogni psicologici. Si dirà perciò che una società non genera alcun surplus se essa si trova al limite della sopravvivenza, e che invece in caso contrario ne produce uno. È questo surplus "psicologico" ad essere al centro dei ragionamenti della corrente cosiddetta del materialismo culturale, la cui figura più importante è Marvin Harris.
Ora, questa definizione differisce in maniera abbastanza significativa da quella che viene comunemente utilizzata dalla corrente marxista, e che riferisce la produzione a tutto ciò che ritorna ai produttori. Il surplus in questo caso serve a permetterci di affrontare direttamente il fenomeno dello sfruttamento: è il frutto del plus-lavoro, quella frazione di lavoro dei produttori che viene loro estorta dalla classe dominante, e che nel capitalismo assume la forma del plus-valore. Chiamiamo questo surplus il surplus "sociale".
È chiaro che il surplus fisiologico ed il surplus sociale sono due cose del tutto differenti. Né l'uno è una condizione dell'altro. Per cominciare, si può benissimo avere un surplus fisiologico senza avere alcun surplus sociale: basti pensare ad una tribù di cacciatori o di pescatori egualitari, che si trovano in un ambiente relativamente favorevole, e dove perciò ciascuno mangerà ampiamente a sazietà senza che nessun sfruttatore estorca del pluslavoro a chiunque. In questo caso, esisterebbe un surplus fisiologico senza che esista alcun surplus sociale. Inversamente, si potrebbe pensare che non possa esistere un surplus sociale maggiore del surplus fisiologico: una classe dominante non potrebbe prelevare durevolmente del pluslavoro degli sfruttati senza lasciare loro almeno di che sopravvivere e riprodursi. Eppure, una simile configurazione è possibile: perché si realizzi occorre che la classe sfruttatrice non permetta che venga assicurata agli sfruttati la loro stessa riproduzione. Chiaramente, per far questo, è sufficiente che si procuri la mano d'opera in un'altra società, e si possa dispensare così gli sfruttati dal fondare e mantenere una famiglia. Secondo l'eccellente trattato di  Marcel Mazoyer e Laurence Roudart sulla "Storia dell'agricoltura del mondo", è una configurazione di questo tipo che ha prevalso nell'antica Roma, dove la produttività agricola  è rimasta assai bassa. Ed è la fine dell'approvvigionamento di schiavi nelle società conquistate che, alla fine, fa suonare la campana a morto per l'Impero.

Altre due definizioni
Queste due definizioni di surplus rappresentano già da sé sole un'abbondante fonte di confusione. Ma ce ne sono - almeno - altre due.
La prima viene utilizzata quanto la teoria viene chiamata a spiegare non lo sfruttamento, ma la divisione del lavoro. Prendiamo il caso semplice (e, storicamente di gran lunga il più frequente) in cui la prima produzione specializzata diversa dai beni alimentari, sia la metallurgia. Si dirà allora che affinché esista un settore metallurgico, bisogna che i produttori di beni alimentari producano più di quello che consumano: si tratta di un surplus. Notiamo che un tale surplus, per definizione, ne presuppone un altro: reciprocamente, bisogna che i metallurgici producano più martelli, pinze, asce, chiodi o ferri di cavallo di quanto essi ne utilizzano. In genere, l'attenzione si focalizza sul settore alimentare, senza che si sia ben certo che ci siano delle buone ragioni per questo.
Ho qualche problema a trovare un aggettivo per questo tipo di surplus. La meno peggio che mi viene in mente è quella di surplus tecnico, ma sono consapevole che non sia troppo buona come scelta. Inoltre, questo surplus, anch'esso, è del tutto indipendente dai due precedenti. Combinandoli due a due, ci si accorge che si può sempre immaginare una situazione in cui uno esiste senza che ci sia l'altro.
Infine, una quarta definizione di surplus introduce nell'equazione un concetto temporale: il surplus, è l'eccedenza della produzione sul consumo ad un momento dato - concretamente, si suppone che questo surplus non giochi un ruolo se non per il fatto che viene conservato in vista di un utilizzo futuro. Quindi, qui, il surplus è la scorta.
Ancora una volta, non è difficile vedere che le scorte, di per sé, non costituiscono né un surplus psicologico, né un surplus tecnico, né un surplus sociale. Precisiamo quest'ultimo punto: ci può stare benissimo (almeno in teoria) che una società le cui risorse siano stagionali costituisca ogni anno delle scorte per la stagione morta, senza che esista allo stesso tempo né sfruttamento, né classe dominante - e quindi, senza che esista un surplus sociale. Inversamente (e sempre in teoria) si può assolutamente immaginare una classe dominante che prelevi un plusprodotto in una società che non costituisce nessuna scorta significativa. Siamo chiari: sono convinto che in realtà, esiste un rapporto (indiretto) fra scorte e surplus sociale. Ma si tratta precisamente di un rapporto (indiretto, ripeto), e non di un'identità. In altre parole: non si può dire niente di pertinente sulla stratificazione sociale se si affronta il problema muniti di un concetto onnicomprensivo di surplus che ricopre tutt'insieme due, tre, perfino quattro definizioni. Ora, si ha spesso a che fare con simili confusioni. Fra i tanti, citerò un passaggio dal libro di Jared Diamond, "Armi, acciaio e malattie", un libro per certi aspetti assai interessante, ma in cui avvengono continuamente cambiamenti di significato fra scorte e surplus sociale:

« Nel momento in cui ad alcuni cacciatori-raccoglitori nomadi si presenta l'occasione di raccogliere dei viveri in più rispetto a quelli che possono consumare in qualche giorno, questa manna gli è di poca utilità in quanto non possono conservarla. Viceversa, le scorte alimentari sono essenziali per nutrire degli esperti che non producono alimenti e, certamente, delle intere città. Di conseguenza, le società nomadi dei cacciatori-raccoglitori hanno pochi, se non nessuno, di questi esperti a tempo pieno che stanno emergendo nelle società sedentarie.
I re ed i burocrati sono due tipi di esperti di questo genere. Le società di cacciatori-raccoglitori sono relativamente egualitarie, mancando di burocrati a tempo pieno e di capi ereditari, e posseggono una modesta organizzazione politica a livello di gruppo o di tribù. E ciò per il fatto che tutti i cacciatori-raccoglitori validi sono obbligati a dedicare una buona parte del loro tempo alla ricerca di nutrimento. Al contrario, nel momento in cui è possibile costituire scorte di alimenti, una élite politica può prendere il controllo dei viveri prodotti dagli altri, affermare il suo diritto a prelevare delle imposte, sottrarsi alla necessità di nutrire e consacrarsi interamente all'attività politica. Così, le società agricole di piccola taglia sono spesso organizzate sotto un capo, visto che i regni si limitano alle grandi società agricole. (...) In ambienti particolarmente ricchi, come la costa nordovest del Pacifico in America del Nord e la costa dell'Equatore, alcuni cacciatori-raccoglitori hanno anche sviluppato delle società sedentarie, delle scorte alimentari e si sono organizzate sotto un capo senza impegnarsi ulteriormente sulla strada della formazione di un regno.
La costituzione di una scorta alimentare attraverso la tassazione permette di far vivere altri esperti a tempo pieno. Permette in particolare di nutrire i soldati di mestiere, che sono importanti per le guerre di conquista. (...) Le scorte alimentari possono anche nutrire i preti, che forniscono una giustificazione religiosa alle guerre di conquista; gli artigiani, soprattutto dei fabbri che producano spade, fucili, ed altre tecniche; e gli scribi, che preservano molte più informazioni di quante sia possibile memorizzarne correttamente
» (pp.89-90).

continua...

- Christophe Darmangeat - 28 giugno 2016 -

fonte: Blog de Christophe Darmangeat

martedì 5 luglio 2016

Da un feticcio all’altro

jappe

Per farla finita con la dittatura del valore
- di Anselm Jappe -

«Contrariamente a quel che dicono i suoi avversari, che l'accusano di "determinismo", di "oggettivismo" o di "fatalismo", la critica del valore non parla affatto di ferree leggi che sottraggono all'individuo ogni possibilità di intervento. Durante i passaggi storici da una forma feticista ad un'altra, l'influenza esercitata da tali forme si indebolisce. Così, la decadenza della società di mercato fa sì che allo stesso tempo si riduca il condizionamento deterministico che tale società è in grado di esercitare [...] Fra società schiavista, feudale, capitalista e comunista non vi è alcuna successione necessaria [...] Quel che Marx dimostra, è che, una volta che il valore è diventato la forma predominante di socializzazione, a questo deve seguire un percorso inevitabile che si conclude con la sua auto-dissoluzione.
Ma non vi era alcuna necessità che apparisse il capitalismo, né che ora esso lasci il posto al socialismo.
È soprattutto per le prime generazioni di marxisti che la crisi del capitalismo e l'avvento del socialismo sono strettamente legati, quasi fossero l'identica cosa: il capitalismo sparirà perché ci saranno delle masse popolari che vorranno instaurare il socialismo.
La critica del valore, che ritiene che la crisi significhi l'autodistruzione del capitalismo,  è assai meno ottimista in proposito: la fine del capitalismo non implica nessun passaggio garantito verso una società migliore. Al contrario, quello che sta già accadendo in molte situazioni e che rischia di essere il risultato finale su scala globale, è la caduta nella barbarie.
A minacciarci, più che il grande Stato totalitario, è l'anomia. La società di mercato va decomponendosi da una parte, in isole di benessere (molto relative) circondate di filo spinato, e dall'altra il resto del mondo che a gradi differenti collassa in guerre di bande intorno a quelle poche cose che hanno in sé ancora del valore. La disintegrazione della Jugoslavia è stato un avvertimento per gli altri paesi arretrati che avevano creduto di poter partecipare al festino della società di mercato.
L'ultima parola dell'economia di mercato è stata quella che ha dichiarato che l'umanità è diventata inutile per la valorizzazione.

Il totalitarismo del mercato si è rivelato ancora più forte del totalitarismo dello Stato. Ma l'implosione del capitalismo lascia un vuoro che potrebbe permettere l'emergere di un'altra forma di vita sociale. Contro il progredire della barbarie, oggi si piò affermare qualcosa che assomigli al punto di vista dell'umanità, al di là delle classi - ma senza dimenticare che alcune parti dell'umanità sono più interessate di altre al mantenimento della logica del valore.
Non c'è mai stato nella storia un periodo in cui la volontà cosciente degli uomini abbia avuto così tanta importanza come avverrà nel corso della lunga agonia della società di mercato. Non c'è bisogno che quest'agonia venga annunciata, dal momento che si sta già svolgendo sotto i nostri occhi [...]. Oggi, è più urgente che mai trovare delle alternative alla società presente. Bisogna "reinserire" effettivamente l'economia nella società, come vorrebbe Polanyi - ma non come integrazione di un'economia rimasta di mercato in una società che si pretende più grande, ma come superamento della divisione fra produzione e consumo e come abolizione della "economia" e del "lavoro", dello Stato e del mercato».

- Anselm Jappe - da  Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Denoël, 2003, pp. 277-279. -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme


 

lunedì 4 luglio 2016

Un appello all'insurrezione

khomri

Legge  el-Khomri: Per un movimento di lotta al'altezza dello scandalo
- di Benoit Bohy-Bunel -

Se i diritti dei lavoratori vengono messi in discussione, il movimento di contestazione sociale che denuncia questa sfida deve confrontarsi con un problema di ordine teorico e strategico.

Cosa significa? Le leggi come la legge El Khomri sono soprattutto ricche di insegnamenti. Il sistema che mette al primo posto finalità quali la "crescita", la "produttività", la "competitività", se garantisce che una legalità che permetta il suo funzionamento non esclude la negazione degli interessi vitali della classe lavoratrice (quella che pure rende possibile, in senso stretto, la creazione del valore), in questo stesso momento fa un'esplicita confessione. In un certo qual modo, ed in maniera paradossale, questo sistema si auto-denuncia. Proclama, spudoratamente, che quel che considera "virtuoso" corrisponde, nei fatti, ad un occultamento del vissuto qualitativo concreto di tutti coloro che fanno "funzionare" la macchina, vale a dire che esso corrisponde a ciò che è scandaloso in sé.

Questa confessione è un'occasione: la classe che detiene il capitale, e lo Stato che ne difende gli interessi, ci offrono il bastone con cui batterli. Un cinismo così chiaro ci fa definitivamente vedere come il sistema non abbia assolutamente niente di "sano" (cosa che il mito dei "Trenta gloriosi" tendeva a farci dimenticare). Un dimostrazione così radicale di disprezzo istituzionalizzato è un appello all'insurrezione.

Qual è il senso di una "provocazione"? Colui che provoca si aspetta una reazione proporzionata alla grandezza della provocazione. La legge El Khomri è una provocazione finale, che richiede una risposta a misura dello scandalo. In questo contesto, non si tratta di ridurla ad un'ennesima riforma rispetto cui si vorrebbe semplicemente esigere che venga "riscritta", o anche perfino "abolita". Si tratta piuttosto di compiere un salto qualitativo. Il sistema del valore accumulato mostra il suo vero volto, e bisogna saper cogliere quest'occasione.

L'inconscio degli agenti della manutenzione del sistema repubblicano è una vasta zona di rovine tutta da esplorare. Lì ci sono ideali di gioventù abbandonati, le rinunce, gli abbandoni. In questa zona regna sovrano un "bispensiero" (Orwell) che deve formulare - in modalità "fàtica" - delle prescrizioni tecnocratiche disincarnate delle quali è stato completamente dimenticato il significato propriamente "umano". La loro connessione sociale si riduce all'analisi quantitativa delle "curve" o dei "grafici", dei "sondaggi" o delle "statistiche", che non hanno più nulla di tangibile. In tutto questo patetico marasma , emerge allora una parola: la "virtù" di questo sistema - ci dicono - corrisponde alla necessità di calpestare coloro che ne permettono il suo funzionamento. E improvvisamente, ci viene offerta, indirettamente ma sicuramente, un'amara verità che avremmo preferito non vedere: il sistema in questione non ha, e non ha mai avuto nemmeno per un attimo, come finalità quella di avere considerazione e riconoscenza per i suoi membri che lavorano.

Un individuo che ammette che la sua "virtù" consiste nell'occultamento-distruzione degli altri si auto-accusa: la sua provocazione richiede una reazione proporzionata. Analogamente, un sistema che rende possibili delle leggi come la El Khomri ci invita alla sua radicale messa in discussione, alla sua radicale distruzione. Inconsciamente, gli agenti della manutenzione del sistema repubblicano, proponendo o sostenendo dei progetti che negano in maniera così scandalosa l'essere umano, sanno di suscitare una reazione proporzionata: sono guidati, loro malgrado, da una logica irreversibile, che è la logica dell'auto-superamento del capitalismo, verso una società post-capitalista.

Bisognerebbe quindi avere la capacità di essere all'altezza dello scandalo. In questo movimento di lotta contro la legge El Khomri, ci sono due opzioni da prendere in considerazione: o noi rivendichiamo esclusivamente la soppressione della legge (e in questo modo, se vinciamo su questo terreno, potremo tornare alle nostre "normali" attività, potremo continuare a sopravvivere in un sistema che ha esibito in maniera così fiera il suo intrinseco nichilismo); oppure possiamo approfittare di quest'occasione per promuovere, in maniera più generale, la distruzione radicale del sistema, ed il passaggio a nuove forme sociali ed economiche.

Ovviamente, le due opzioni non si escludono a vicenda. In primo luogo, in un contesto che non è ancora rivoluzionario, vanno difesi i diritti dei lavoratori se questi sono minacciati, nella misura in cui, fintanto che il capitalismo non è stato distrutto, bisogna pur vivere, e bisogna farlo nelle migliori condizioni possibili. Ma deve anche essere possibile - e credo perfino necessario - tenere insieme i due obiettivi: mentre difendiamo i diritti dei salariati, mentre tentiamo di ridurre le disuguaglianze a livello di distribuzione delle merci e del valore, mentre cerchiamo di evitare che la politica dei politici produca dei guasti irrimediabili, potremmo anche preparare l'avvento di una società nella quale saranno aboliti il lavoro, la proprietà privata dei mezzi di produzione, la merce, il valore, e lo Stato. Così l'attuale focalizzazione sulla legge El Khomri (che non è un pretesto, ma è piuttosto un detonatore) non finirebbe per esser priva di un orizzonte rivoluzionario, e di un progetto post-capitalista.

Essere all'«altezza» della confessione scandalosa che ci è stata fatta, essere all'altezza di una provocazione che ha rivelato il sistema nel suo essere amorale e nichilista, potrebbe essere questo: sostenere una lotta più radicale, mettere fondamentalmente in discussione le regole del gioco economico e sociale, al di là di ogni inessenziale riaggiustamento cosmetico.

La legge El Khomri ci rivela l'essenza del lavoro in regime capitalista. Ricordiamoci di questa lezione. Qual è questa lezione? Il lavoro, innanzitutto, è in crisi. La rivoluzione micro-informatica ha reso sempre meno indispensabile il lavoro vivente. Il ricorso massiccio all'automazione della produzione , che consente vantaggi concorrenziali, ha prodotto l'inutilità relativa di un buon numero di lavoratori. Più esattamente, quest'inutilità è solo relativa in quanto, fondamentalmente, il sistema capitalista ha bisogno, sotto banco, di lavoro vivente sfruttato, affinché si accumuli, e affinché venga mantenuto il valore, essendo la forza lavoro la sola "merce" in grago di creare più valore di quanto essa costi. Di fronte a tale contraddizione, il capitalismo fa i conti con una radicale ed irreversibile svalorizzazione del valore. Il lavoro, diventato inutile, ha cominciato ad affermare la sua necessità irriducibile. La traduzione politica di questa tensione inerente al capitalismo non è il riconoscimento finale del lavoratori, ma è piuttosto la loro irrimediabile precarizzazione, per mezzo di una legislazione appropriata: in quanto l'estrazione di plusvalore deve essere più "aggressiva", più "efficace", nella misura in cui il sistema fa i conti con la potenzialità della propria auto-distruzione.

Un'altro insegnamento: il lavoro non vale in quanto produce un concreto valore d'uso, in grado di avere una concreta e virtuosa utilità sociale, ma vale solo in quanto consente una "crescita" quantitativamente ed astrattivamente concepita. Con la legge El Khomri, ciò che emerge è l'idea del "lavoro in generale", di lavoro "tout court": poco importa quale sia la vostra attività, il modo in cui voi vi riconoscete in essa, ed il modo in cui essa serve al bene comune; ciò che importa, è innanzitutto il fatto che questa attività sia salariata e produttrice di valore astratto. Poiché la "crescita" che preoccupa così tanto i politici non è altro che una sfida disincarnata, al di là di qualsiasi progetto ragionevole o autenticamente umano.

La legge El Khomri ci rivela l'essenza dello Stato repubblicano in regime capitalista. Ricordiamoci di questa lezione. Qual è questa lezione? Lo Stato non è altro che il manager del capitalismo. Le sue finalità (produttività, competitività) possono essere tutte ridotte al concetto di profitto (profitto che riguarda un'infima minoranza della popolazione). Il modo in cui definisce la sua gestione del complesso sociale si riferisce ad un modo di privilegiare sistematicamente un insieme di interessi privati che negano il benessere comune. Il "bispensiero" di cui lo Stato è portatore consiste nel far passare alcuni problemi mal definiti (crescita) per delle questioni che riguardano un qualche "interesse generale" astratto ed immediatamente seducente. Ma ogni universale astratto, tuttavia, recupera nella sua tendenza totalitaria un particolare concreto, facendolo passare falsamente per il tutto, laddove non è altro che una parte non rappresentativa di questo tutto. Con delle leggi come la El Khomri, lo Stato repubblicano ha reso una confessione: la libertà per lui non è e non è mai stata nient'altro che la libertà di fare impresa (o di consumare); ma questa libertà è il contrario della libertà politica in senso stretto, la quale è una libertà positiva in azioni ed in parole; per lo Stato, l'uguaglianza è un'uguaglianza quantitativa che attiene alla sfera della circolazione delle merci; ma quest'uguaglianza si basa sul principio inegualitario per eccellenza (lo sfruttamento). Prendere atto di tale confessione, significa prendere atto di un fatto importante: lo stesso Stato che afferma la necessità di difendere i principi democratici si trova sul punto di affermare che esso stesso richiede la sua propria abolizione, nella misura in cui difende l'opposto della democrazia. È tale la conseguenza del "bispensiero" in ambiente democratico: sono i "rappresentanti" al potere che esigono, pur se inconsciamente, di essere rovesciati, e chiedono che venga loro fatta smettere tutta questa mascherata. Se fossero conseguenti, e se comprendessero realmente ciò che significa la loro difesa della "democrazia", sarebbero loro stessi a non voler più governare, e riconoscerebbero la legittimità di ogni movimento di disobbedienza civile. Su questo punto, perciò, ascoltiamoli e facciamoli essere coerenti con il loro desiderio inconscio: abbattiamo il loro sistema, visto che sembrano desiderarlo così tanto (per quanto non sappiano di desiderarlo...).

Sarebbe assurdo voler salvare quello che viene chiamato "economia reale" attaccando la legge El Khomri. Poiché quello che in ambito capitalista si chiama ideologicamente "economia reale" è in realtà il regno dell'astrazione, è la negazione di ogni qualità e di ogni progetto cosciente. L'«economia reale», è il movimento tautologico ed autoreferenziale DMD' (Denaro - Merce - Ancora più denaro). Il capitalista compra dei fattori di produzione (DM), poi vede il suo valore di partenza aumentare (A') nella misura in cui il lavoratore ha svolto un pluslavoro. In questo processo, è il denaro in quanto astrazione quantitativa che si trova all'inizio e alla fine del movimento. Conta solo l'astrazione in quanto astrazione. Il fatto che i prodotti del lavoro abbiano una certa utilità sociale (o siano inutili) non conta assolutamente niente; il fatto che il lavoratore si "riconosca" nel suo lavoro, o nella sua funzione sociale, non conta assolutamente niente, dal momento che non è altro che un agente del valore, un'aliquota parte di un tutto numericamente definito. Perciò, la crescita promessa dallo Stato manager del capitalismo, questa crescita che attiene ad una qualche "economia reale" concepita in maniera confusa, in realtà non è altro che la negazione dell'esistenza di una dimensione concreta e cosciente (ossia reale) nelle sfere della produzione e della circolazione. Se il movimento che si oppone alla legge El Khomri non rimette in discussione queste regole del gioco (denaro per denaro, in assenza di ogni controllo cosciente delle sfere economiche e sociali), se si limita solo a rendere "più virtuoso" il sistema salariale, o la valorizzazione delle merci, non potremo porci all'altezza dello scandalo e della confessione (auto-denuncia) di cui siamo stati testimoni.

Alcuni "pensatori ufficiali" del movimento parigino non sono all'altezza dello scandalo. Lordon, focalizzandosi troppo spesso sulla denuncia del sistema "pernicioso" della finanza, mostra come qualche aggiustamento cosmetico (dare più potere allo Stato, regolare i flussi finanziari, ecc.) lo renderebbe molto soddisfatto. Ma la finanza non è altro che la manifestazione superficiale delle follie provocate dalla cosiddetta "economia reale" (DMD'). Deplorare le "devastazioni" della finanza in maniera indignata è sterile ed inefficace (e può anche sfociare in un rancido antisemitismo). La finanza produce dei disastri solo perché "l'economia reale" è in sé folle e assurda (è im mondo a testa in giù, un sistema che inverte i fini ed i mezzi). La finanza produce quel che produce solo perché essa dipende da una sfera produttiva che è in sé folle ed assurda: il sistema del lavoro astratto, del valore, del denaro, della merce. Ma allora, quel che bisogna fare è attaccare immediatamente il problema alla radice, e cominciare a decostruire queste categorie che sono state naturalizzate dagli economisti "borghesi" (cosa che Lordon, sempre inconseguente, non fa seriamente).

Un movimento di lotta radicale non deve appropriarsi delle categorie stabilite dal sistema che combatte, per mirare semplicemente alla loro "purificazione". Ma deve creare un nuovo punto di vista. Perché è in seno alla logica di tali categorie che si trova il punto critico: ad esempio,la logica del valore come fine in sé, inseparabile dalla categoria del lavoro come astrazione, produce una totale assenza di controllo da parte dei responsabili della produzione; questa è in sé una putrefazione del sistema, e non è "modificando" dall'interno tali categorie che si potrà uscire dalla stagnazione che deploriamo (ciò pone, ad esempio, in maniera assai precisa, un problema ecologico di prim'ordine: l'auto-movimento del valore, che rende impossibile ogni limitazione cosciente della produzione, ci spinge verso una fuga in avanti disastrosa, ecologicamente parlando). I comunisti "tradizionali", nell'impegnarsi nel movimento, oggi vorrebbero far passare il loro piccolo messaggio: si tratterebbe di rivendicare una distribuzione più "egualitaria" delle categorie capitaliste (valore, merce, denaro, valore). Inutile dire che si tratterebbe di imborghesire il proletariato (che poi, non sarebbe più in grado di continuare a lottare). Riappropriandoci in questo modo delle categorie capitaliste, faremmo vivere lo spirito capitalista in maniera pericolosa, ossia quello spirito secondo il quale nella sfera economica non è possibile alcun controllo umano. Troppi "comunisti" oggi fanno vivere lo spirito del capitalismo (Mélenchon, NPA, Friot, ecc.). Essere all'altezza dello scandalo e della confessione che costituisce la legge El Khormi, quindi dovrebbe significare criticare radicalmente le categorie di base del capitalismo, piuttosto che rivendicarne la loro "purificazione", nella misura in cui il loro carattere fondamentalmente distruttivo ed incosciente dovrebbe essere rivelato.

Da parte sua, Bernard Friot propone appunto un sistema di valorizzazione e di lavoro salariato che verrebbe "purificato". Non mette in discussione il sistema del valore o del lavoro salariato, ma al contrario tende ad ampliarlo. Inoltre, mantenendo una logica statalista, nella sua folle ed irrealizzabile utopia, dimentica che la logica dello Stato, storicamente, è quella degli Stati-nazione. Non c'è statalizzazione senza nazionalismo. E, d'altra parte, non c'è nazionalismo al di fuori del quadro del libero scambio. Gli Stati-nazioni si sono costituiti nel quadro di un'economia di mercato che tende a globalizzarsi e nella quale gli Stati, partner o concorrenti, devono soddisfare alle ingiunzioni relative all'accumulazione del valore. È propriamente impossibile, in tal senso, proporre di rimettere in discussione delle regole del gioco capitalista  in un quadro statale, cioè a dire nazionalista. Sta proprio in questo la trappola di ogni "comunismo riformista", se si può usare tale termine: in ultima analisi, vengono ammesse le regole del gioco produttivista, e ci si accontenta di modificare superficialmente un sistema che d'allora in poi vedrà consolidare sotterraneamente le proprie aberrazioni e le proprie follie. Inoltre, Bernard Friot, riabilitando perfino una rancida meritocrazia inegualitaria (la maggior parte dei diplomati saranno quelli che verranno pagati meglio, nel quadro della sua concezione di "salario a vita"), non si ricorda nemmeno delle lezioni di Bourdieu, sebbene sul terreno dell'egualitarismo neanche queste tenevano la strada. Non possono essere simili individui, bene installati in un'istituzione che non vede in loro un gran pericolo, a portare un discorso alternativo che sia all'altezza dei problemi sollevati dal movimento di lotta sociale contro la legge El Khomri.

Non potremmo neanche rivendicare l'avvento di un nuovo Stato-Provvidenza. Lo Stato Provvidenza promulga delle leggi che rendono più vivibile l'alienazione del lavoro, ma accresce anche la servitù collegata alla schiavitù moderna. Inoltre, lo Stato Provvidenza avrà la tendenza a purificare la logica del valore, ossia a consolidare il sistema economico rispetto al quale non è possibile alcun controllo umano. Assai spesso, lo Stato Provvidenza è paradossalmente un'occasione per i capitalisti (i quali, inconsciamente, hanno la tendenza a distruggere il loro proprio sistema). Peggio ancora, lo Stato Provvidenza, oltre al fatto che non può mai essere durevole, secondo un meccanismo ciclico inesorabile, tende a ritardare la crisi e a far dimenticare le aberrazioni e le follie che si sviluppano a livello sotterraneo. Non possiamo sperare in un ritorno ai Trenta gloriosi: dal momento che i Trenta gloriosi, meccanicamene, non possono evitare la crisi del 2007.

Delle semplici riforme politiche, formulate nel linguaggio della politica (nel linguaggio del potere separato del pensiero e del pensiero separato del potere) non sono per niente utili. Questo genere di progetto è perfino pernicioso, nella misura in cui tende a ridurre il punto critico ad uno pseudo-problema di sovranità cittadinista, laddove il problema si pone invece a livello di rapporti di produzione. Mélenchon, con la sua sesta repubblica, la sua nuova costituzione, è inadeguato, oltre al fatto che sviluppa un rancido populismo, un comunismo-capitalista, ed un nazionalismo mascherato: focalizzandosi sulla sovrastruttura politica, suppone che la politica politicista sarebbe il terreno sul quale si porrebbero i problemi principali della lotta; dimentica che il sistema cui appartiene non potrebbe mai avere il minimo "impatto" sulla ristrutturazione radicale delle condizioni economiche; occultando completamente le basi di qualsiasi materialismo storico, produce un discorso astratto inefficiente che si dissolve nella chiacchiera spettacolare in cui si scambiano a buon prezzo varie merci ideologiche indifferenziate.

Etienne Chouard, la cui povertà intellettuale non ha bisogno di essere dimostrata, da buon confusionista rossobruno mescola populismo, nazionalismo e socialismo, in un imbroglio incongruente. Come un pollo decapitato, forse ha letto Arendt, e grazie a lei ha riscoperto le "virtù" dichiarate della polis ateniese. Le sue idee, che si contano sulle dita di una mano, non solo ignorano il materialismo storico, ma sono inoltre del tutto astruse: conta solamente l'atto di apparire per manifestare la sua piccola originalità. Perché invece non rileggere Arendt, che formula assai più chiaramente questo genere di idee (e senza un background fascista), anziché diffondere questo genere di sciocchezza pericolose, che non aiutano in niente a fare avanzare la lotta? Questi momenti di contestazione sono troppo importanti per continuare a dare la parola a simili pericolosi clown. A partire da ciò che è in grado di soddisfare la mente, si può misurare il peso della sua perdita!

Facciamo quindi tacere coloro che vorrebbero essere i "pensatori ufficiali" del movimento che sta nascendo. Se si tratta di un movimento autonomo, se si tratta dell'apertura di una breccia, di un'alternativa radicale, non dovremmo avere bisogno di intellettuali specializzati, o mediatizzati, che appartengono al vecchio mondo, e che consolidano un rapporto di maestro ed allievo, da "fan" a "star", da proletari simbolici a "people" (rapporto spettacolare per eccellenza, che si oppone ad ogni forma di emancipazione).

Qui, non ho fatto altro che parlare a mio nome. E, se ho detto "noi", è perché ho creduto, nel dialogo con altri compagni, che ci potevano essere delle preoccupazioni comuni. Nondimeno assumo le mie osservazioni in prima persona, e ritengo che questo "noi" attiene ad una comunità che vorrei, piuttosto che ad una realtà fissa e definitiva.

Personalmente, vorrei essere all'altezza dello scandalo e della confessione che la legge El Khomri ha rivelato. Ciò per me significa: inserirmi nella lotta rivendicando l'abolizione del lavoro, del valore, della merce, del denaro, e dello Stato, per preparare una società dove regnino l'auto-organizzazione e la democrazia diretta.

- Benoit Bohy-Bunel - Pubblicato il 13 aprile 2016 sul blog benoitbohybunel -

fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

domenica 3 luglio 2016

I nemici del lavoro

aline

E se guadagnarsi la vita significasse perderla?
- Intervento di Aline sulla critica radicale del lavoro -
Paris, Place de la République, 4 maggio 2016

Quando molti soffrono perché non hanno un posto di lavoro o lottano per migliorare le condizioni ed il diritto al lavoro, non è certo facile venire a dire che siamo per la fine del lavoro, per la sua abolizione.

Pertanto voglio precisare da quale punto di vista sto parlando, provengo dal mondo operaio, mia madre prima era una prostituta, mio fratello è morto nella fabbrica AZF (non nell'esplosione) a 46 anni, mio padre, meccanico, è morto a 44 anni e mia madre, diventata parrucchiera, è morta a 62 anni, io sono la sola della mia famiglia, prima di mia figlia, ad aver studiato. Ed anch'io mi sono sentita coinvolta nella glorificazione delle lotte operaie prima di comprendere che chiedere più "potere d'acquisto" significa continuare a mantenere in buone condizioni la catena che lega i nostri piedi ed il nostro cuore!

In seguito, abbiamo cercato di distinguere fra il Lavoro (salariato o artigiano) e l'Attività. Per questo, abbiamo ripreso la definizione di Marx che ci dice che il lavoro è un'invenzione sociale che non è né naturale né trans-storica. Fino a prima della rivoluzione francese, un giorno su tre era festa, anche per i contadini. Piccoli richiami storici, come per esempio quello che dopo la prima metà del 18° secolo il lavoro non è stato più un mezzo per soddisfare i bisogni ma è diventato un fine in sé.

Abbiamo perciò dimostrato che il lavoro è il cuore del capitalismo in quanto produce plusvalore a partire dal fatto che non paga all'operaio tutta la sua giornata lavorativa (lavoro non pagato, ovvero plus-lavoro ovvero lavoro astratto) ma soltanto una parte (lavoro concreto). Il lavoro astratto è quel dispendio di energia (la forza lavoro) che si spende nel tempo. Di qui il fatto che il contenuto del lavoro importa ben poco dal momento che è la forza-tempo che si traduce in denaro. Più i capitalisti riducono la parte che viene pagata in salario all'operaio (ed il costo che viene destinato alla sua sopravvivenza, la massa salariale) più il plusvalore aumenta con l'allungamento della giornata lavorativa e con l'abbassamento dei salari!

Cito Marx (ne «L'Ideologia tedesca»):

« I proletari devono abolire la loro condizione di esistenza, devono abolire il lavoro. È questo il motivo per cui si trovano in diretta opposizione allo Stato... devono rovesciare lo Stato »

Tutto questo lo si sente risuonare nelle nostre orecchie nel corso di "Nuit Debout"? Io non credo.

Oso anche fare una citazione dal Capitale di Marx (20 anni di lavoro!):

« La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni piú antiche della produzione sociale. Il capitale si produce soltanto laddove il detentore dei mezzi di produzione e di sussistenza incontra sul mercato il lavoratore libero che viene a vendere la sua forza lavoro.
Ciò che caratterizza l'epoca capitalista, è perciò il fatto che la forza lavoro acquisisce per il lavoratore stesso la forma di una merce che gli appartiene, ed il suo lavoro, di conseguenza, acquisisce la forma di lavoro salariato
»

È stato audace, ne convengo, ma se si è compreso questo non si può fare altro che andare verso la fine del lavoro salariato , e nel corso del dibattito sono state proposte delle tappe molto ricche (cooperative, comunità autonome, decrescita, eventualmente un salario universale, anche se questo non mette in discussione le categorie del capitalismo...)

Infine, concludo con le ultime pagine del «Manifesto contro il lavoro» della rivista Krisis, troppo lungo da leggere qui. Ci saranno altri tre interventi nel fine settimana dell'8 maggio da parte del gruppo «Critique de la Valeur» che approfondiranno il mio intervento.

- Aline -

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La lotta contro il lavoro è una lotta antipolitica
Dal momento che la fine del lavoro è anche la fine della politica, un movimento politico per il superamento del lavoro sarebbe solo una contraddizione in termini. I nemici del lavoro portano avanti delle rivendicazioni nei confronti dello Stato, ma non sono un partito politico e non ne costituiranno mai uno. Il fine della politica può essere solo quello della conquista dell'apparato statale per perpetuare la società del lavoro. I nemici del lavoro perciò non vogliono impadronirsi delle leve del potere, bensì distruggerle. La loro lotta non è politica, è antipolitica.
Dal momento che nell'era moderna lo Stato e la politica si confondono con il sistema coercitivo del lavoro, essi devono sparire insieme a quest'ultimo. Tutte le chiacchiere a proposito di una rinascita della politica non sono altro che il tentativo disperato di ricondurre la critica dell'orrore economico ad un azione statale positiva. Ma l'auto-organizzazione e l'auto-determinazione sono l'esatto opposto dello Stato e della politica. La conquista di liberi spazi socio-economici e culturali non avviene seguendo le strade tortuose della politica, strade gerarchiche o false, ma con la costituzione di una contro-società.
La libertà non consiste nel lasciarsi schiacciare dal mercato né dal farsi governare dallo Stato, ma nell'organizzare  per conto nostro i rapporti sociali - senza l'intromissione di dispositivi alienati. Di conseguenza, i nemici del lavoro devono trovare nuove forme di movimento sociale e devono creare delle "teste di ponte" per riprodurre la vita al di là del lavoro. Si tratta di legare le forme di una pratica di contro-società al rifiuto offensivo del lavoro.
I poteri dominanti possono benissimo considerarci dei pazzi perché vogliamo rompere con il loro irrazionale sistema coercitivo! Non abbiamo da perdere altro che la prospettiva di una catastrofe verso la quale ci stanno portando. Al di là del lavoro, c'è tutto un mondo da guadagnare.

Proletari di tutto il mondo, facciamola finita!

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

sabato 2 luglio 2016

Il ratto di Europa

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Intervista del Corriere a Michel Onfray sul Brexit, del 25-6-2016

Se fosse stato un cittadino britannico, lei avrebbe votato Remain o Leave?

«Avrei votato per l’uscita da questa macchina liberale che distrugge tutte le conquiste sociali ottenute da due secoli di lotte sindacali e di progresso sociale. Una macchina che chiamiamo falsamente l’Europa, quando è in effetti un club capitalista che si presenta travestito da grande idea generosa, umanista e progressista. Quel che il capitalismo non è riuscito a fare finché il socialismo totalitario esisteva all’Est, ha potuto farlo grazie alla burocrazia e all’amministrazione di questa Europa del denaro. Il liberalismo si trova paradossalmente imposto in modo autoritario da questa macchina che ha dalla sua parte le élite politiche, mediatiche, industriali, finanziarie, bancarie, mercantili, ma non il popolo che fa le spese di questa dittatura liberale».

Nel campo euro-scettico molte voci, in primis Marine Le Pen, chiedono un referendum anche in Francia e in ogni Paese dell’Ue. Lei è favorevole?

«Fare riferimento a Marine Le Pen mostra che ci si rifiuta di pensare e che si vuole intimidire. Marine Le Pen non è la pietra di paragone rispetto alla quale prendere posizione. Me ne infischio di Marine Le Pen che è la Tsipras francese, stessa cosa con Jean-Luc Mélenchon (leader del Parti de gauche, ndr). Sono a favore di questo referendum, ma vorrei ricordare che in Francia l’abbiamo già avuto, chiesto da Chirac nel 2005: ha avuto esito negativo e Sarkozy dell’Ump e Hollande del Ps hanno disprezzato la scelta del popolo imponendo poi tramite le camere riunite quel che il popolo aveva rifiutato».

Dopo il No del 2005, la Francia torna il Paese chiave?

«La Francia oggi è Hollande e Hollande è un elettrocardiogramma politico piatto. Per ora non ha che un’unica preoccupazione, essere rieletto. Si serve della Francia, non la serve. Se lo riterrà utile da un punto di vista di tattica politica, prenderà delle iniziative. Ma non ha lo stesso peso di Merkel che è l’uomo forte di questa Europa liberale».

Il tema dominante della campagna è stata l’immigrazione. È stato forse un voto soprattutto contro la globalizzazione e l’immigrazione?

«Questa domanda coinvolta e militante assimila il voto contro il liberalismo a un voto contro gli stranieri. L’Europa di cui abbiamo vantato i meriti all’epoca di Maastricht ha fallito: doveva portare la piena occupazione, la fine delle guerre, l’amicizia tra i popoli, il progresso della civiltà; ha prodotto il contrario: messa in concorrenza dei lavoratori, disoccupazione di massa, quattro anni di assedio a Sarajevo, esacerbazione dei nazionalismi, regressioni culturali».

I giovani hanno votato per lo più Remain, mentre gli anziani Leave. Si può parlare di una vittoria della paura contro la speranza?

«Anche questa domanda è militante, partigiana e orientata. Lascia credere che votare contro il liberalismo sia votare contro l’Europa, e anche per la xenofobia, dunque per il razzismo, e quindi significa essere vecchi, dunque antiquati, fuori dal tempo. Si potrebbe aggiungere, perché anche questo fa parte della panoplia che gli euro-beati e gli euro-latri usano contro gli euro-lucidi da loro chiamati euro-scettici, che i pro-Brexit sono anche sotto-istruiti, rurali, ritardati mentali, alcolizzati quando non sono — è stato detto in Francia — assassini di deputati pro-Ue (riferimento all’uccisione della laburista britannica Jo Cox, ndr). Da parte mia parlerei di una vittoria di quanti hanno esperienza e memoria contro coloro che, fabbricati da questa Europa che ha gettato la cultura e la storia alle ortiche, si bevono la propaganda che cola dai media di massa».

Qual è stato il peso del populismo in questo risultato?

«Rifiuto questa terminologia. È populista oggi chiunque abbia deciso di dare la parola al popolo, di rendergli il potere che gli appartiene, di ascoltare quel che dice quando gli si chiede in un referendum quel che pensa. Coloro che ricorrono alle parole populisti e populismo sono di solito dei populicidi, in altre parole degli assassini di popoli. Il termine è del rivoluzionario Gracchus Babeuf… Se non volete ascoltare quel che il popolo vuole dirvi, non chiedetegli cosa pensi. Oppure fate come in Francia, chiedeteglielo e poi non tenetene conto. La democrazia è il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo. E l’Europa liberale è una oligarchia di burocrati al servizio del capitale, non una democrazia: è quel che dicono i popoli quando li si sollecita».

Qual è la portata complessiva di questo voto? Quali conseguenze prevede per l’Occidente?

«Ho appena finito di scrivere un libro di mille pagine che si intitola "Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana". L’Europa è morta, ecco perché gli uomini vogliono farla, ma non hanno capito che l’Europa era finita dall’apertura dei cancelli di Auschwitz. Quel che sta accadendo in Gran Bretagna, sono le prime pietre dell’edificio che cadono. Preparate il requiem».

- Pubblicata sul Corriere del 25 giugno 2016 -

venerdì 1 luglio 2016

Il vivo e il morto

Sweden Soccer Ibrahimovic

Il duello del secolo
- di Jean-Claude Guillebaud  -

Curioso incrocio mediatico: a due settimane di distanza, i media ci hanno invitato ad avere un'idea ed al suo contrario. Giudicate voi. Su "le Monde" dell'8 giugno scorso, su due intere pagine, un prestigioso calciatore, lo svedese Zlatan Ibrahimovic, faceva un elogio talmente vibrante del neoliberismo e del "mercato globale" che il nostro collega Nicolas Beytout, al settimo cielo, gridava al genio. Ora, due settimane prima, il 26 maggio, in un articolo assai acclamato, tre economisti si erano lasciati andare ad un critica in piena regola di quello stesso neoliberismo, e questo lo avevano fatto sull'organo ufficiale del Fondo Monetario Internazionale, la rivista "Finance & Development".Hai visto mai! Titolo della loro filippica: "Il neoliberismo è sopravvalutato?" In questo testo caustico, i tre bestemmiatori non esitavano affatto a denunciare gli effetti catastrofici di certe politiche a lungo sostenute dal FMI: apertura dei mercati del capitale, austerità e privatizzazione ad oltranza. Questo scontro evidenzia una prodigiosa confusione di idee.

Diciamo che si trovano "col culo al di sopra della testa". Riflettendoci sopra, la cosa non è sorprendente. Oggi giorno ci troviamo a fare i conti con una stranezza ideologica così stupefacente che ci ripugna guardarla in faccia. Ossia: la visione del mondo che governa il neoliberismo corrisponde su un gran numero di punti a quella dei Sovietici di un tempo. Dopo la caduta del comunismo, tutto è andato come se, irrigidendosi, il vecchio capitalismo - diventato "neoliberismo" - avesse ripreso per proprio conto i dogmi più criticabili del sistema comunista sconfitto. I cinesi non si sono affatto sbagliati con lo sposare senza scrupolo alcuno il comunismo politico e l'ultra-capitalismo economico.

Un vecchio adagio giuridico ci aiuta a comprendere il fenomeno, sostenendo che, a proposito di una successione, "il morto si impadronisce del vivo nella persona del suo erede più prossimo". Le cose sono andate proprio così dopo la caduta del comunismo nel 1989. Fra i tratti del vincitore (il vivo) e quelli del vinto (il morto) la somiglianza non ha mai smesso di essere evidente, al punto che l'abbiamo davanti agli occhi. Un esempio: il sequestro dell'economia politica attuato dalla matematica, ha permesso di affermare ovunque ed in maniera perentoria che la teoria liberale è "scientifica", e quindi indiscutibile. Così facendo, viene reinventato nuovamente il dogma del "socialismo scientifico" di cui si misura retrospettivamente l'assurdità. La vulgata neoliberista, così come viene ancora insegnata nelle scuole commerciali, si fonda percio' su tale superstizione. Far credere ai futuri diplomati delle scuole che l'economia sia una "scienza" che si impone su ogni persona ragionevole. Non c'è niente di più sbagliato. L'economia politica consiste nell'utilizzare dei mezzi adeguati per realizzare un "progetto", soggettivo ed etico, vale a dire democraticamente scelto. È il contrario di una scienza.

Un altro esempio: il riferimento ossessivo alla globalizzazione ha resuscitato, sotto un altro nome, il famoso "senso della storia", cui i marxisti ci chiedevano prima di obbedire. Di conseguenza, il neoliberismo recita una mirabolante "promessa", quella della prosperità planetaria a venire. Si riprendono così, sotto un'altra forma, i termini in uso nel vecchio mondo comunista: avvenire radioso, un domani che canti ed altri scherzi del genere.

Così come avveniva ieri, queste false promesse invitano i comuni cittadini ad acconsentire ai sacrifici del presente in nome di un ipotetico futuro, che si allontana man mano che andiamo avanti. Tuttavia, i fautori del mercato totale ci ripetono che le sofferenze sociali sono il prezzo da pagare per raggiungere l'equilibrio fra i conti pubblici e la competitività, ossia la felicità. Sotto questo travestimento si nasconde uno slogan altrettanto menzognero di quello dello "avvenire radioso".

La stessa osservazione va fatta riguardo a ciò che io chiamo la perseveranza diabolica. Nel vecchio politichese marxista, si ripeteva, che se le economie dei paesi comunisti non funzionavano, questo era dovuto al fatto che non erano "abbastanza" comunisti. Oggi lo slogan è lo stesso: i fallimenti, le ingiustizie ed il cattivo funzionamento delle economie liberali si spiegherebbe a partire dal fatto che queste ultime non sarebbero "abbastanza" privatizzate e deregolamentate, ecc. Lo stesso ritornello ideologico. Quanto alla confisca del profitto da parte di una minoranza di ultra ricchi, allorché tutti gli altri sono abbandonati alla loro sorte, ciò corrisponde al fenomeno della nomenklatura che, nel vecchio mondo comunista, riservava la ricchezza ad una piccolissima minoranza di burocrati. Il morto si è impadronito del vivo!

- Jean-Claude Guillebaud - Pubblicato il 20 giugno 2016 su TÉLÉOBS -