Il secolo XX è stato, in buona parte, il secolo della linguistica generale, che ha prodotto sostanziali avanzamenti nello studio del linguaggio. Basta citare con Saussure linguisti come Hjelmslev, per cui la lingua è una forma-contenuto, o Sapir, che, crocianamente, mette l’accento sull’estetica, ovvero sul carattere metaforico del linguaggio. Con essi la linguistica ha conquistato la propria autonomia scientifica. Ma dal secondo dopoguerra in poi c’è stato, soprattutto nel mondo anglosassone, un ritorno a concezioni premoderne di stampo razionalistico, che hanno riportato lo studio del linguaggio nell’alveo della psicologia e in un certo senso della metafisica. Prima gli “universali” di Greenberg e poi l’antilinguistica di Chomsky hanno creato un clima concettuale aprioristico e sterile.
L’idea che tutte le lingue hanno la stessa struttura ad un livello più o meno astratto è diventata per molti un articolo di fede ed alcune riviste specializzate lo diffondono con impegno anche fuori degli Stati Uniti. Si è aggiunta una proliferazione di teorie grammaticali costruite su basi puramente logiche e prive di effettivi riscontri nella realtà delle lingue.
Questo mentalismo “anglocentrico”, mascherato da universalismo, è in evidente contrasto con l’ampliamento dell’orizzonte scientifico a cui si è assistito negli ultimi tempi . Il nostro patrimonio di conoscenze sulle lingue del mondo si è arricchito enormemente, e l’effetto Babele, ossia la legge di difformità che sembra governare il linguaggio, è apparso come un “fenomeno vitale manifesto”. La scoperta di lingue lontanissime dal nostro orizzonte mentale come quelle della Nuova Guinea e del Sudamerica tropicale ha fatto emergere, in modo talora vistoso, la relatività dei nostri concetti linguistici, ancorati alla grammatica greco-latina.
A fronte di ciò la linguistica è chiamata ad abbandonare quella che Firth chiamava la “fallacia universalistica” e a recuperare il proprio spirito empirico, rendendo effettivo il richiamo di Saussure allo studio delle lingue particolari.
Questo libro offre un quadro della situazione attuale, in cui la linguistica autentica convive con quella di second’ordine e le speculazioni più azzardate con la descrizione delle lingue più “esotiche”.
(dal risvolto di copertina di: Lucio D'Arcangelo, "Il genio della lingua", Solfanelli, pp. 96, euro 9)
Salvate la lingua italiana dagli italiani
- di Renato Besana -
È antichissimo il mito d'una lingua primigenia dalla quale tutte le altre discendono: risale alla biblica torre di Babele, il cui fantasma continua ad aleggiare nella ricerca scientifica che, muovendo da presupposti che poco hanno a che fare con il sacro, si sforza di rintracciare un’origine comune nella varietà - questa sì babelica - degli idiomi parlati nel mondo.
Nonostante gli sforzi, la ricerca mai è riuscita ad andare oltre la teoria, magari seducente, ma che mai ha trovato riscontri. Di questo si occupa Lucio D'Arcangelo nel suo Il genio della lingua (Solfanelli, pp. 96, euro 9), per testimoniare l'unicità che caratterizza culture e tradizioni diverse. Ogni lingua, avverte, è un'arte collettiva dell'espressione, costituisce un punto di vista, ponendosi quale pensiero prefilosofico. Costituisce dunque un caso a sé, da indagare per come si presenta.
La linguistica del XX secolo, al contrario, è stata soprattutto generalista. Grazie agli «universali» di Greenberg e soprattutto all’antilinguistica di Chomsky ,si è diffuso un pregiudizio che si è ben presto trasformato in articolo di fede, secondo il quale tutte le lingue, a un livello profondo, avrebbero l'identica struttura. Si tratta d’un miraggio, una sorta di mentalismo anglocentrico che le ricerche più recenti, condotte sul campo soprattutto in Nuova Guinea e in America latina, non hanno mancato di smentire. L'assoluta difformità non attiene soltanto alle parole e ai suoni che le compongono, tra loro incomparabili, ma anche alla sintassi.
In alcune lingue, per esempio, non esiste il soggetto, spersonalizzando così l'azione descritta nella frase; in altre - senza spingersi troppo lontano, in quelle finniche - manca la relazione tra verbo e oggetto. Più ci si addentra nello studio, più emergono differenze radicali, di cui D'Arcangelo dà conto con ricchezza di citazioni che al lettore non specialistico dischiudono prospettive inattese e sorprendenti: le nostre certezze, fondate sulla grammatica greco-latina, ci appaiono friabili, relative.
Un intero capitolo, dal titolo La bella lingua, è dedicato all'italiano. La distribuzione equilibrata delle vocali, la cui corretta pronuncia non è indispensabile alla comprensione di quel che si dice, la chiarezza fonica e l'assenza di parole che terminano con una consonante le conferiscono una natura dolce, armoniosa, musicale, come annotava Jean Jacques Rousseau, ben diversa, per esempio, dallo stile pointilliste del cinese o dalla scioltezza dell'inglese, composto secondo Alberto Savinio da parole-comete, che si dissolvono in un pulviscolo sonoro.
L'italiano, sottratto dalle esigenze immediate della comunicazione, diventò in tutt’Europa la lingua d'arte per eccellenza, che racchiude in sé il senso di una superiore civiltà. Annota con una punta di malinconia D'Arcangelo: «La lingua italiana non ha avuto eguale fortuna in Italia. La mancanza di un adeguato apprezzamento da parte delle classi dirigenti, soprattutto dagli anni Settanta del Novecento, è dovuta a due fattori concomitanti: da una parte lo storico legame della nostra lingua con la coscienza nazionale, indebolita dalla seconda guerra mondiale, e dall'altra proprio quel carattere elevato, di lingua di cultura, che le viene universalmente riconosciuto». Insomma, bisogna salvare l'italiano dagli italiani.
- Renato Besana - pubblicato su Libero del 28 giugno 2016 -
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