domenica 13 ottobre 2024

Sangue e sporcizia da ogni poro !!

Dal «padre di tutte le cose» all'Economia Politica delle Armi da Fuoco
- di Frederick Harry Pitts -

«Dietro l'onnipresente compulsione moderna a guadagnare denaro, c'è la logica dei cannoni tonanti» (Kurz, 2011a).

Per la Wertkritik, come per Eraclito, la guerra è davvero «il padre di tutte le cose» (Lohoff, 2013). A tal proposito, come dimostra Lohoff, la Wertkritik si rifà a dei pensatori come Hobbes ed Hegel. Alla base, la soggettività umana si lega alla capacità di oggettivare gli altri: un processo che, in vari tempi e luoghi, assume una veste più o meno violenta. Così facendo, le forme di riconoscimento, diritto e libertà, consolidate nello Stato moderno si ricollegano a una comune capacità umana di violenza, e alla volontà di rischiare la propria vita in combattimento. Laddove la capacità di uccidere o di essere uccisi va continuamente rinnovata - in quanto condizione dell'autocoscienza umana - lo Stato moderno rappresenta invece la sua sospensione e sublimazione; la lotta per la vita o la morte viene dislocata su altri tipi di attività sociale, vale a dire nel lavoro. Ma in ultima analisi, l'instaurazione di una tale pace sociale non fa che mediare, in un'altra forma, il soggiacente contenuto della violenza e della distruzione; un processo che potrà invertire facilmente rotta, allorché si scatenano la decadenza e la deregolamentazione. Teorici del calibro di Lohoff (2013) prendono ispirazione anche dai pensatori militari classici, come Clausewitz, il quale vedeva notoriamente la guerra come «la continuazione della politica con altri mezzi». Ciò però non significa che la politica ponga una soluzione al conflitto, e nemmeno che il fatto di mettere i mezzi della violenza nelle mani dello Stato ne segni la razionalizzazione. La politica non è una forma di ragione che viene imposta alla guerra e alla violenza, ma essa esercita la propria irrazionalità che - piuttosto che estinguere il conflitto - ne agisce invece proprio come scintilla e acceleratore. Essendo guidata da dei fattori ideologici ed emotivi non materiali, la politica manca di limiti, creando una tendenza alla guerra che cerca di raggiungere quel carattere "assoluto" che Clausewitz temeva. Tracciando queste inevitabili connessioni con la guerra, la Wertkritik va contro il senso del pensiero borghese classico. In particolare, mette in discussione l'idea che la società capitalista sia emersa dal - o sia sinonimo di - baratto pacifico, dalla laboriosità imprenditoriale, o da un'etica del lavoro secolarizzata. Per la Wertkritik, l'idea che la guerra, la violenza e il libero mercato siano incompatibili, e che l'estensione del commercio e la sua garanzia di un mondo in pace sia un'illusione generata dal fatto che il capitalismo è stato inizialmente associato al confinamento della violenza e della guerra, viene vista come una questione di Stato. Ma le garanzie di libertà, fraternità e uguaglianza si basano in ultima analisi su quella che è solo una sospensione temporanea e parziale, e una sublimazione della violenza, portata avanti nella commercializzazione della violenza e nella sua irreggimentazione nelle mani dello stato (Lohoff, 2013). Accanto a tali omelie liberali, l'altro obiettivo primario della Wertkritik è l'approccio del marxismo alla guerra e al conflitto, e il loro ruolo nella costituzione del capitalismo. Mentre Marx, nel suo capolavoro, Il Capitale (Marx, 1990), ha enfatizzato le radici violente del capitalismo, e altre tradizioni di studiosi hanno notato la relazione esistente tra le forme di colonialismo e l'accumulazione primitiva e il capitalismo (Quijano, 2007; Mignolo, 2011), il marxismo, invece, ha spesso omesso di considerare la connessione. Come sostiene Kurz (2011a), il carattere ambiguo e incerto dello sviluppo sociale ed economico precedente all'ascesa del capitalismo, ha fatto sì che molti marxisti si siano semplicemente e supinamente allineati dietro quello che era un resoconto fondamentalmente borghese della storia. Tradizionalmente, il marxismo ha sempre sostenuto un materialismo storico che enfatizza il ruolo svolto dalle forze produttive – tecnologia, tecniche di gestione e così via – nel far avanzare la storia, dalla società agraria a quella industriale. La ragione per cui i marxisti hanno sempre trovato difficile affrontare le origini del capitalismo, che «sgocciolavano dalla testa ai piedi, e da ogni poro, sangue e sporcizia», come ha detto Marx (1990, p. 926), è ciò perché questo non si adattava bene alla visione di uno sviluppo storico, che passa senza soluzione di continuità per le diverse fasi, successive e necessarie, e che porterebbero all'emancipazione umana; una prospettiva, questa, ripresa in blocco paro pari dalle nozioni liberali di progresso. Ancora oggi, simili seducenti critiche radicali alla società capitalista, a partire da questa visione, non spiegano da dove siano sorte tutte queste forze di sviluppo. Ad esempio, non basta indicare semplicemente l'avvento dell'energia a vapore, vista come catalizzatore della rivoluzione industriale. Proprio allo stesso modo in cui Marx dispiega progressivamente gli strati di determinazione storica nel Capitale, in primo luogo bisogna scavare negli imperativi politici, sociali ed economici che hanno guidato lo sviluppo di queste forze.

Per fare questo - suggerisce Kurz - dobbiamo concentrarci non sulle forze produttive all'inizio della modernità capitalista, quanto piuttosto sulle forze della distruzione, vale a dire, sull'invenzione delle armi da fuoco. Come suggerisce Kurz (2011a, 2011b), la storia si svolge - e da questo sorge il processo lavorativo capitalistico - attraverso l'imposizione progressiva della nuova economia politica delle armi da fuoco, sulla vecchia. Le guerre pre-capitaliste erano affari limitati, rituali e sportivi, essendo in gran parte volte all'edificazione o all'avanzamento delle classi aristocratiche. Nel Medioevo, la vita quotidiana per lo più non era in gran parte influenzata dal fatto che i propri superiori sociali fossero o meno in guerra. Ma alla fine del 1400, e nel 1500, tutto questo cambiò a partire da macchine militari sempre più sofisticate che venivano messe in servizio per combattere le "guerre assolute" clausewitziane, condotte come un'estensione delle dispute politiche. Ciò ha scatenato un'esplosione delle spese militari, e le precedenti economie di saccheggio e bottino sono state sostituite da quelle della tassazione, del finanziamento degli eserciti permanenti, e della produzione di potenza di fuoco. Come spiega Kurz (2011a), le «guerre per la costruzione dello Stato» della prima età moderna, che, attraverso la produzione di "marine oceaniche", hanno visto gli Stati impegnarsi in un'espansione colonialista, hanno istituzionalizzato quelle che sono diventate strutture di potere durature, le quali hanno poi dato vita alla politica vista come una sfera di attività specifica e relativamente autonoma, che rappresentava il complemento amministrativo di un'economia sempre più dinamica. In questa rivoluzione militare, è stata decisiva quella che Kurz chiama «economia politica delle armi da fuoco» (2011b). Le armi da fuoco, neutralizzarono il potere della cavalleria feudale, e quindi rimodellarono la società a immagine di quelli che erano nuovi e più intraprendenti poteri di classe. Le esigenze di una produzione di cannoni e moschetti, richiedevano che si passasse da delle piccole officine, a maggiori economie di scala in quella che divenne ben presto una nascente industria bellica. La maggiore potenza distruttiva che essa rappresentava richiedeva nuove infrastrutture come le fortezze. La competizione tra le imprese e tra gli Stati ha spinto l'innovazione tecnologica nei mezzi di distruzione, spinta a sua volta dalla corsa agli armamenti e dalla ricerca di nuove e maggiori quote di mercato. Come sostiene Kurz (2011a), le «migliori possibilità sociali sono state sempre più "sacrificate" alla macchina militare sotto forma di personale e conoscenza». Nonostante i progressi nell'equipaggiamento militare, nel XVIII secolo, le guerre combattute dagli Stati assolutisti furono limitate nella loro capacità di cercare la distruzione totale dei nemici da parte dei mercenari, e quindi dal carattere costoso e inaffidabile degli eserciti a loro disposizione. Ma tuttavia, e sempre più, le crescenti dimensioni e complessità delle armi ben presto significarono che i soldati non erano più autosufficienti nella loro fornitura, diventando invece sempre più dipendenti dalla fornitura proveniente da depositi centralizzati sotto il controllo dei nascenti poteri statali. Kurz (2011a) descrive il modo in cui si è sviluppata una sfera militare separata - distinta dalla vita civile e dalla società civile - con un esercito permanente più o meno professionalizzato. L'ascesa del cittadino soldato di leva, spinto non da interessi mercenari, ma da una fanatica devozione allo Stato-nazione, permise a personaggi come Napoleone di rompere quelli che fino a quel momento erano stati gli schemi del comando militare, sconfiggendo in tal modo i nemici in delle battaglie decisive. Sono stati questi eserciti permanenti, suggerisce Kurz (2011a), ad aver costituito quella prima parte della società che è passata, da relazioni dirette e personali tra le persone, alle relazioni indirette e impersonali mediate dal mercato, dal denaro e dallo Stato moderno. L'universalizzazione del cittadino in uniforme, ha incorporato i gruppi precedentemente esclusi, trattandoli come soggetti uguali agli occhi della legge. Nelle società precedenti, dove i mezzi di violenza venivano distribuiti solo tra i padroni sociali - sostiene Lohoff - era il loro potere a comandare una società di «lealtà e dipendenza». C'è voluta la concentrazione dei mezzi di violenza nelle mani dello Stato, per spianare la strada a una società di diritto universale e di uguaglianza tra individui formalmente liberi.

Il monopolio della violenza posseduto dallo Stato, costituisce quindi la precondizione del «dominio politico adeguato alla società delle merci»; un'uguaglianza astratta che si é imposta all'interno dei confini della nazione in quanto «spazio geografico astratto» (Lohoff, 2013). Furono queste le condizioni che produssero soldati professionalizzati e che divennero, di fatto, i primi lavoratori salariati, i quali, per la loro riproduzione non dipendevano dalla famiglia, ma dal denaro e dal consumo di merci. Il loro lavoro prefigurava il lavoro astratto e svuotato del capitalismo industriale, e questo nella misura in cui la lotta ora non riguardava più una motivazione intrinseca legata agli ideali o alla parentela, quanto piuttosto all'ordine, proveniente dallo Stato, di uccidere in generale. Kurz sostiene (Kurz, 2011a) che lo status di cittadini-soldati, emergenti come i primi lavoratori salariati, ha innescato, nel tempo, tutte le conseguenze legate al lavoro astratto: immiserimento dei soldati e degrado del loro lavoro; la loro separazione dai mezzi indipendenti di produzione e di acquisizione delle condizioni di vita; insieme all'irrompere dell'onnipresente possibilità della disoccupazione, nella sua veste moderna. I primi soggetti della storia a essere "disoccupati", in questo modo formale, allorché scoppiò la pace tra le due guerre e i soldati si vennero a trovare ai margini, sorvegliati come se fossero un problema sociale, e in quanto popolazione in eccesso. Nel frattempo, mentre i loro incarichi diventavano l'archetipo della classe operaia, i comandanti militari diventavano a loro volta l'archetipo della classe capitalista, impadronendosi del bottino di guerra e cercando di investire e accumulare a partire da quei bottini; e infine, i loro capitani si trasformavano negli archetipi dei manager. In quanto tale - per Kurz - è stata la guerra a incubare le nuove forme di soggettività di classe caratteristiche della società capitalistica, insieme alle tecniche di gestione e ai rapporti di lavoro attraverso i quali tali forme si esprimono. La scala e la diffusione della produzione necessaria per poter armare e sostenere gli eserciti permanenti, richiedeva l'approvvigionamento di quella che era diventata un'«economia di guerra permanente», che eclissasse i modi di vita agrari della vecchia società (Kurz, 2011b). Anche l'ascesa della finanza, che serviva a colmare i buchi nelle casse dello Stato, finanziando le guerre in cambio di pagamenti, Kurz l'attribuisce alla rivoluzione militare. Tuttavia, i finanzieri di guerra non sarebbero stati sufficienti, in sé e per sé, a finanziare l'«economia politica delle armi da fuoco». Dal XV al XVIII secolo, per sbarcare il lunario, venne messo in atto un forte aumento delle tasse. Precedentemente, le tasse erano sempre state riscosse in un modo un po' "rilassato", nei confronti dei fattori naturali, come la resa agricola. Ma le tasse che dovevano sostenere l'economia politica delle armi da fuoco dovevano essere raccolte con la forza da parte dei nascenti Stati assolutisti, ed essere soggette a un rapporto completamente astratto e mediato con la produzione di ricchezza. Le guerre del XVIII e del XIX secolo videro così concentrarsi il controllo nelle mani di uno Stato sovrano, il quale comandava all'estero un apparato specializzato di violenza, sostenuto a sua volta dalle tasse dei non combattenti in patria. Le tasse erano il prezzo della non partecipazione alla guerra, e del mantenimento della stabilità nella sfera nazionale interna; ma servivano anche a collegare sempre più le fortune della produzione di merci in patria alle fortune degli eserciti all'estero. Gli Stati finanziavano le guerre attraverso sistemi di tassazione che costringevano i cittadini e le imprese a fare soldi in modo da riuscire così a pagare quanto dovuto, accumulando un vasto potere amministrativo e burocratico indispensabile a porre in atto le riscossioni. In questo modo - suggerisce Kurz (Kurz, 2011b) - la necessità che aveva lo Stato di aumentare le tasse, per finanziare le spese militari, ha liberato dai vincoli esistenti non solo lo Stato moderno, ma anche tutta un'economia basata sulla produzione e sullo scambio monetario di merci alla ricerca di un valore espanso. Come sottolinea Kurz, la società agraria aveva fornito una ben scarsa base finanziaria per riuscire a realizzare il suo ruolo di «potere governante anonimo» (Kurz, 2011a). I progressi nella produttività, hanno generato un surplus, ma la logica dell'investimento produttivo e dell'accumulazione non ha governato il modo in cui questo surplus è stato goduto, o speso. Così, la conseguenza della rivoluzione militare e dell'«economia politica delle armi da fuoco» è stata quella di "sradicare" dalla società uno «spazio funzionale separato per le imprese»; un "soggetto autonomo", anche se con le sue capacità produttive e industriali spesso coordinate dallo Stato (Kurz, 2016). La "astrazione" di questo apparato dai semplici "bisogni materiali" della società ha messo in luce il potere del denaro in quanto filo conduttore della sussistenza e dell'esistenza sociale (Kurz, 2011a).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

2 – Continua  -

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