giovedì 17 ottobre 2024

Il fronte culturale del capitalismo !!??

Tutto ciò che luccica: possiamo tornare all'età dell'oro?
La teorizzazione che fa la Wertkrik, del capitalismo contemporaneo, visto come spinto, da delle forze di distruzione che si dispiegano, a una danza autoritaria di morte, ci consente di interpretare in maniera più selettiva quelle che sono tutte le diverse determinanti poste per il suo sviluppo, in un momento di "poli-crisi". La crisi finanziaria e l'ascesa del populismo, insieme, sono state viste come l'inaugurazione di un capitalismo "post-neoliberista" (Davies & Gane, 2021). Mentre, la pandemia di COVID-19 veniva invece vista quasi come un rafforzamento delle tendenze esistenti che spingevano a un maggiore intervento dello Stato nell'economia. Nel frattempo, la crisi ambientale sembra che ora abbia costretto a un riequilibrio - tra Stati e mercati - in modo da poter così rimediare ai fallimenti, registrati dalle aziende, nella lotta al cambiamento climatico. Tutti questi mutamenti, sono sempre stati accolti con entusiasmo da tutto lo spettro politico. Alcuni commentatori “post-liberali” prevedono oggi che questa agenda possa rappresentare una sorta di “nuovo sviluppismo con cui aggiornare sia gli ‘stati di sviluppo’ aziendali della ‘ricostruzione nazionale’ del dopoguerra in Occidente, sia le economie ad alta tecnologia dell'Asia orientale”(Lind, 2020). Altri, sembrano convergere sulla valutazione di questo compromesso da “età dell'oro” della metà del XX secolo, visto come archetipo di un capitalismo ben funzionante (si veda Pitts e Thomas 2024). Anche le visioni più futuristiche e orientate al futuro del capitalismo e delle sue alternative portano con sé questo tipo di fardello nostalgico; che va dalla missione dell'economia dello Stato imprenditoriale promossa da Mazzucato (2013, 2021) che cita come modello gli sbarchi sulla Luna, guidati dallo shock dello Sputnik; e arriva fino ai sogni luccicanti della sinistra radicale del piacere e dello svago resi possibili dalla tecnologia, basati su un'abbondanza rossa debitrice del "socialismo reale" del XX secolo (Bastani, 2019).
Ma la Wertkritik viene a ricordarci quale sia stata la condizione per cui ci è stata negata questa "età dell'oro” della metà del XX secolo; e che tutte queste visioni cercano in qualche modo di ricreare. Come ci dice Kurz, l'età dell'oro è stata un'aberrazione che si è prodotta in quelle che erano delle condizioni altamente specifiche e contingenti, attraversate dalla minaccia del totalitarismo e dell'annichilimento, oltre che da concessioni e progressi sociali e materiali fatti sotto la costrizione di un mondo spezzato in due e separato in singole economie nazionali. Dato che ora la situazione odierna viene letta come se si trattasse di una “guerra fredda” razionalista e realista, sembra che alcuni siano colpiti dalla sensazione che staremmo ricomponendo le condizioni per raggiungere dei nuovi compromessi, a partire dal fatto che i mercati si stanno ritirando all'interno delle frontiere in modo de-globalizzante. Ma così facendo, si scambia una guerra civile mondiale, che attraversa il contesto interno e quello internazionale, per una guerra fredda tra due blocchi nettamente separati con le proprie sfere d'influenza. Quello che il concetto di “guerra civile mondiale” coglie, è il fatto che i conflitti e le competizioni geopolitiche contemporanee sono caratterizzate da un'interconnessione assai maggiore rispetto a quella della Guerra Fredda del XX secolo, con la sua politica militare e di sicurezza intrecciata molto più strettamente con quelle che sono le preoccupazioni interne, sia sociali che economiche (Leonard, 2021; Pakes & Pitts 2023).   
Sebbene non sia in atto una resurrezione dell'assetto sociale e industriale fordista-keynesiano, che poi è quello che molte forze politiche cercano, ciò che è in atto è comunque una logica geopolitica che guida lo sviluppo capitalistico in dei modi che oggi - nella maggior parte delle interpretazioni della svolta "post-neoliberista" - non vengono nemmeno presi in considerazione. La presentazione offerta dai policymaker, e l'immaginario popolare di questo modello "neo-keynesiano" di capitalismo, rivendica come motivazione il desiderio di creare una mediazione più dinamica, più inclusiva e green delle forze produttive, in modo da ottenere così una ripresa equa dalla pandemia per riuscire a combattere la crisi climatica (Merchant, 2023). Tuttavia, la verità, meno appetibile, è che l'approccio all'intervento statale e alla politica industriale rappresentato dalla Bidenomics, e da altre iniziative simili nei paesi alleati, è spinto dalla guerra civile mondiale, la quale si esprime attraverso aumenti della spesa per la difesa, e negli sforzi per (ri)localizzare le catene di approvvigionamento in risorse strategiche, minerali e materiali.
Tutto questo, viene comprensibilmente guardato attraverso il prisma di una "nuova guerra fredda", incentrata sull'intensificazione delle relazioni tra un blocco democratico liberale guidato dagli Stati Uniti, e un blocco autoritario rivale organizzato intorno alla Cina e che include la Russia (Anderson, 2023; Luce, 2023). Ma, dal punto di vista del concetto di guerra civile mondiale, sarebbe meglio pensare, non a una divergenza, ma piuttosto, a una convergenza intorno a determinate dinamiche autoritarie che, essendo in gioco sia a livello interno che internazionale, strutturano le relazioni sociali ed economiche del capitalismo contemporaneo. Basta leggere le dichiarazioni degli stessi politici per capire che le audaci strategie industriali alla base della Bideonomics hanno una motivazione geopolitica basata su un “nuovo accordo di Washington” che reagisce a un capitalismo statale di tipo diverso, sperimentato in Cina e che diffonde la propria influenza tramite organismi come i BRICS (un raggruppamento economico e geopolitico costituito da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e la Belt and Road Initiative ( ad es. Ahmed et al., 2020). Attraverso questa divergenza, assistiamo ad aspetti di convergenza, dal momento che anche i Paesi occidentali riconoscono la necessità di replicare questo fenomeno nelle proprie strategie. Il così tanto annunciato passaggio a un capitalismo post-neoliberale, nel quale lo Stato si interesserebbe attivamente alla politica industriale, non è pertanto solo una risposta razionale alle crisi politiche, ecologiche ed economiche contemporanee. Ciò che la Wertkritik mette in luce ed evidenzia, è che sia il marxismo materialista che il liberalismo idealista stanno attribuendo ai cambiamenti del capitalismo, esattamente quello che invece è solo un calcolo deterministico, o razionalistico, basato su una nozione di progresso storico e tecnologico. L'accettazione - sia da parte degli studiosi mainstream , che da quelli cosiddetti critici - di una sorta di ragione economica, o di una razionalità materiale, che guiderebbe le decisioni prese dalle organizzazioni e dalle istituzioni dello Stato, del capitale e della società civile tutte insieme, e la mancanza di capacità di confrontarsi criticamente con il ruolo dello Stato, non sembra essere in grado di riuscire a comprendere un capitalismo plasmato da una guerra revanscista e da una disputa ideologica.

Conclusione: il capitalismo e il fronte culturale
Le dinamiche discusse in questa sezione conclusiva non operano necessariamente sulla base della redditività capitalistica, o di ciò che è razionale o ragionevole, e ciò che colpisce nell'analisi presentata fin qui è in che misura l'approccio Wertkritik al rapporto che intercorre tra guerra e capitalismo sia riuscito a ritornare ai temi centrali della teoria critica, concentrandosi in ultima analisi sul fronte culturale della guerra civile mondiale. Attraverso le trasformazioni che essa ha tracciato a livello più materiale ed economico nei decenni precedenti, un elemento di stabilizzazione è stato individuato in una rivolta culturale contro la democrazia liberale, sia esterna che interna all'Occidente stesso. Ciò ha colto che quello che, durante la Guerra Fredda, veniva percepito come se fosse una competizione sistemica tra capitalismi rivali incentrati, rispettivamente, sul mercato e sullo Stato; e così traduceva l'antagonismo fondamentale in un antagonismo tra culture e civiltà. Tuttavia, la consapevolezza della decadenza e del declino dell'Occidente - che accomuna i vari attori geopolitici - non rappresenta un polo di opposizione esterno alla democrazia liberale, quanto piuttosto un antimodernismo reazionario che nasce all'interno della stessa società borghese. Come sostiene Trenkle, «questa narrazione culturalista è emersa in Europa nel 19° secolo... come reazione all'insicurezza generalizzata che era stata prodotta dalle sfrenate dinamiche capitalistiche... Come contro-immagine, le persone avevano costruito delle visioni di culture o religioni, apparentemente antiche, che erano però profondamente radicate... e che avevano bisogno di essere protette... o ravvivate». In quanto tale, l'orientamento apparentemente "anti-occidentale" e il "modello culturalista di tradizioni inventate", che oggi troviamo alla base di tutti i "fondamentalismi nazionalisti, etnicisti e religiosi", sono essi stessi il risultato di queste forze e movimenti che stanno consumando un prodotto che l'Occidente stesso ha creato (Trenkle, 2022c). Questo assalto "culturalista" alla presunta decadenza occidentale, è sotteso dalla dimensione autoritaria della "guerra civile mondiale". Il fatto che l'attacco retorico contro l'Occidente, che accomuna la Russia, la Cina e l'Iran, si rifaccia a conflitti culturali e a critiche già centrali nelle stesse società occidentali, significa che questa guerra civile mondiale non si limita solo ad aprire un solco tra Stati e blocchi sulla scena globale, ma crea divisioni anche all'interno dei singoli paesi che vi partecipano. Tra le altre conseguenze, ciò erode il muro di separazione tra politica interna e politica estera, tipico di quelle che sono state altre fasi di rivalità tra grandi potenze. Questa dinamica - suggerisce Lohoff (2023b) - può essere vista non solo nella re-invasione dell'Ucraina da parte della Russia, e nella guerra per procura dell'Iran con Israele e con gli Stati Uniti, in Medio Oriente, ma anche nella svolta autoritaria osservata all'interno delle democrazie occidentali, come conseguenza dei cambiamenti culturali, delle preferenze degli elettori e delle politiche di sicurezza contro le minacce interne ed esterne percepite.  Il carattere culturale della guerra civile mondiale implica delle risposte alquanto diverse, anche da parte della sinistra, rispetto a quanto suggerirebbe una comprensione più ristretta ed economicistica di una “seconda guerra fredda”. L'“orientamento alla realpolitik” implicito nella prospettiva di una “nuova guerra fredda”, che combina i calcoli razionali di cooperazione allo scontro, fondamentalmente scarta ogni possibilità di una qualsiasi risposta emancipatoria basata su quel poco che resta dell'universalismo negato e incompleto che viene associato ai cosiddetti “valori occidentali”. Trenkle (2022a) sostiene che è questo ciò che mette in discussione l'universalismo, visto come baluardo contro “l'offensiva geopolitica dell'autoritarismo”, soprattutto perché, nel contesto di una guerra civile mondiale, nella quale esistono ben pochi confini netti tra i blocchi, la coalizione contro i  nemici contiene al suo interno anche alleati che difficilmente possono essere considerati esemplari di democrazia, di libertà e di diritti umani. Nel frattempo, vediamo anche un analogo rifiuto di questo percorso emancipatorio da parte della stragrande maggioranza della sinistra contemporanea, la quale segue Karl Liebknecht nel vedere il nemico principale in casa propria, vale a dire, in Occidente piuttosto che in Russia, in Cina o in Iran, per esempio. Ciò è comprensibile, suggerisce Lohoff (2022), nella misura in cui la “società mondiale” capitalista, di cui i Paesi occidentali sono sinonimo, ha visto la ricchezza e il potere distribuiti in maniera altamente diseguale e ingiusta tra le classi e le regioni, quando «solo una parte relativamente piccola della popolazione mondiale può condurre una vita ragionevolmente adeguata e sicura e trovare accesso a ciò che la Carta dei diritti umani promette»(Trenkle, 2022a).
Tuttavia, queste analisi suggeriscono anche la responsabilità - per coloro che sono vistosamente impegnati nell'emancipazione - di riconoscere quanto il mondo diventi pericoloso nel vuoto causato dal ritiro dell'Occidente, rispetto al suo precedente ruolo di garante di alcune di queste forme di libertà e diritto. Lohoff (2022) sostiene che, anche se la promessa della loro realizzazione, nella "società globale" post-Guerra Fredda, è stata "miseramente imbarazzante", sarebbe un errore, per coloro che sono interessati all'emancipazione, perdere di vista la capacità di "autodeterminazione e partecipazione alla ricchezza sociale", che verrebbe scartata insieme a essa. Nel contesto di una guerra civile mondiale che attraversa i paesi che ne fanno parte, e non solo tra di loro, la visione regressiva del mondo dell'emergente "internazionale autoritaria", come la definisce Lohoff, non viene imposta alle democrazie occidentali dall'esterno, ma scaturisce dall'interno dell'ordine che esse hanno costruito, e proprio a causa della sua promessa fallita di libertà e diritti per tutti. Lohoff suggerisce (2023c), pertanto, che la guerra civile mondiale oggi richiede che una sinistra emancipatrice si impegni nella difesa e nell'ulteriore realizzazione del progetto incompleto della democrazia liberale, facendolo in un momento in cui le potenze occidentali e i loro dubbi alleati la promuovono solo a metà. In nessun modo, la sinistra dovrebbe desiderare la sconfitta della democrazia liberale per mano di un'opposizione apparentemente "antimperialista", e che in ultima analisi è di carattere autoritario; o per mano dell'autoritarismo strisciante di alcuni governi e movimenti politici all'interno dello stesso Occidente. Tuttavia, le tendenze alla convergenza non implicano equivalenza, e sia Lohoff che Trenkle sostengono che le libertà incomplete - ma comunque molto reali e accessibili a coloro che vivono nelle democrazie liberali occidentali - "se necessario", devono essere difese ed estese, come dice Trenkle, "anche con la forza" (2022a). Ma il "carattere trans-nazionale" dell'offensiva autoritaria significa che questa lotta non può essere confinata solo alle unità nazionali, tra e contro di loro, ma piuttosto deve procedere anche all'interno. Per Trenkle, ciò implica un'intensificazione delle lotte emancipatorie per la "trasformazione sociale ed ecologica" - contro gli attuali limiti associati all'organizzazione della "produzione di merci e dello Stato" - ricollegando lo sviluppo del resoconto fatto dalla Wertkritik sulla guerra e sul capitale con alcune delle preoccupazioni fondamentali originariamente introdotte nei primi lavori di Kurz – vale a dire, il cablaggio nello sviluppo capitalistico delle forze di distruzione in divenire e la necessità materiale del loro superamento. Questo ci riporta a un'intuizione fondamentale che la Wertkritik offre a coloro che cercano fonti di luce in mezzo all'oscurità (vedi Kurz, 2013c; Lohoff, 2013): la connessione tra la guerra civile mondiale e la "crisi ontologica" che porta alla realizzazione dei soggetti per mezzo della degradazione degli altri in quanto oggetti, la tendenza alla barbarie che tale "crisi ontologica" codifica nella società capitalista e l'incapacità, da parte di qualsiasi forma di "amministrazione planetaria", di evitarla veramente.

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

- 7 – FINE  -

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