lunedì 14 ottobre 2024

Guerra Civile Mondiale

L'era post-statalista
- di  Frederick Harry Pitts -

«Nelle guerre dell'ordine mondiale dell'Occidente, per la prima volta nella storia militare, i missili sono più costosi degli obiettivi». (Ernst Lohoff, 2013)

Dal 1648 al 1989, gli stati di guerra e di pace sono sempre stati temporalmente chiari, distinti e limitati. Ma, nell'era "post-statalista" che è seguita, continueranno sempre più a confondersi. Con la supremazia degli Stati Uniti, stabilitasi alla fine della Guerra Fredda, è arrivato l'emergere di guerre post-stataliste "a bassa intensità", nelle quali un numero qualsiasi di attori ha potuto impegnarsi sul terreno militare, fermandosi in sicurezza, prima della minaccia di distruzione totale su cui si basava l'era statalista e le sue tecnologie. Mentre lo stato bellico ha visto una grande spesa per la corsa agli armamenti, al fine di garantire la capacità di distruggere i combattenti nemici, nell'era post-statalista, le cosiddette "nuove guerre" sono state invece combattute "a buon mercato", con budget bassi e mezzi modesti (Lohoff, 2013). Nello spazio apertosi, quest'era post-statalista - un'economia di guerra basata sulla riproduzione del potenziale produttivo della società nel suo complesso - è diventata, in molte parti instabili del mondo, una sorta di "economia del saccheggio", basata sulla riproduzione di specifici "attori militari"(Lohoff, 2013). Piuttosto che la distruzione dei combattenti, la guerra ha spesso preso la forma di un intervento sulla vita dei non combattenti, intervenendo sia nella circolazione delle merci sia nella vita quotidiana in senso più ampio. Mentre nell'era della guerra statalizzata, le infrastrutture e le linee di rifornimento sono sempre state prese di mira in quanto corollario della ricerca della distruzione degli eserciti nemici, nel nuovo paradigma post-statalista, gli attacchi alla vita civile e alle istituzioni sono diventati gradualmente sempre più centrali. Nel nucleo capitalista, nel frattempo, il processo di neo-liberalizzazione, pur trasformando il ruolo dello Stato in riferimento ad altri settori dell'economia e della società, non ha eliminato il monopolio statale della violenza e dei mezzi militari. In effetti, per gli Stati Uniti e per i loro alleati, la fine della Guerra Fredda li ha consolidati, non solo a livello nazionale, ma in tutto il mondo. Ciò ha messo in discussione la distinzione "westfaliana" tra violenza "statalista interna" e violenza internazionale, dal momento che l'Occidente esercitava sempre più quel tipo di "potere di polizia" che esprimeva un monopolio della violenza, così come veniva solitamente esercitato all'interno degli Stati, proiettato verso l'esterno del mondo, sotto forma di capacità di arrestare e perseguire che veniva applicata invece su tutta la scena globale (Lohoff, 2013). Il mondo post-Guerra Fredda vedeva ancora la stragrande maggioranza della spesa per la ricerca, negli Stati Uniti e altrove, incanalata in progetti e istituzioni militari. Ciò ha prodotto dei sostituti tecnologici per il lavoro distruttivo immediato che veniva svolto dalle forze di spedizione convenzionali, sferrando poi, nello stesso periodo, il colpo finale al soldato cittadino, nello stesso modo in cui le nuove tecnologie hanno eroso i posti di lavoro e le condizioni dei lavoratori. Forme di violenza sempre più astratte e automatizzate, hanno segnato il culmine del processo attraverso il quale le armi a lunga gittata - dalla prua lunga al bombardiere B-52 - avevano reso, attraverso successive fasi di meccanizzazione, il combattimento corpo a corpo un ricordo del passato. La forma di guerra a distanza, grazie ad armi che queste innovazioni offrivano, vedeva i nemici come una sorta di "biomassa" passiva, annientata da altrettanto passivi "lavoratori della distruzione". Come avveniva in altri luoghi emergenti di lavoro digitalizzato, l'astrazione del lavoro associata alla "economia politica delle armi da fuoco" ha continuato a ritmo sostenuto. In un contributo contemporaneo, Lohoff (2023c) colloca l'attuale conflitto in Israele e Palestina, all'interno di questo quadro post-statalista, il quale deve il suo carattere specifico proprio ad Hamas, in quanto progetto politico e militare. In una fase iniziale del lungo conflitto, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina aveva mantenuto un calcolo "clausewitziano" della violenza, vista come estensione delle lotte politiche con altri mezzi, nel quale queste ultime erano state esaurite. Per Hamas, tuttavia, l'eccessiva violenza antisemita non costituisce solo la forma che viene assunta dalla lotta, ma anche il suo contenuto. Si tratta di un fine in sé, che è esso stesso infinito, nella misura in cui cerca di risolvere, non la creazione di uno Stato palestinese, come ha fatto l'OLP, quanto piuttosto l'annientamento di Israele, così come la presenza del popolo ebraico in Medio Oriente più in generale. Caratterizzata dalla centralità della violenza spettacolare, questa campagna è temporalmente infinita, dal momento che, per i suoi esponenti, i suoi grandiosi obiettivi non verranno mai portati a termine in maniera soddisfacente (Lohoff, 2023c). Da questo punto di vista, più che di un progetto coerente di costruzione dello Stato, secondo Lohoff, Hamas rappresenta proprio quella (geo)politica "post-statale" teorizzata da Kurz. Nel suo dominio sul popolo di Gaza, Hamas non replica nessuna delle funzioni tradizionali di uno Stato moderno, lasciando alle organizzazioni umanitarie internazionali la mediazione della riproduzione sociale, liberando così tempo e risorse da dedicare ad attività terroristiche, all'interno contro coloro che sono sotto il suo controllo, ed esternamente contro le comunità al di là del confine, in Israele. In questo modo, sostiene Lohoff, Hamas tiene "in ostaggio" la popolazione dello Stato palestinese collassato, e lo fa al fine di promuovere gli interessi della sua ricca organizzazione criminale, insieme a quelle dei suoi alleati e benefattori, nella regione più ampia. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, Hamas fa parte della rete di alleati dell'Iran in Medio Oriente e altrove. Allo stesso modo, in Libano – un paese con cui non condivide un solo confine – l'Iran ha costruito una forza per procura, Hezbollah, che si ingrassa a partire dal caos e dalla sfortuna che si abbatte sullo Stato collassato cui si attacca come un sanguisuga mentre persegue il suo unico obiettivo di confronto con Israele, rappresentando proprio quell'archetipo "post-statalista" che viene descritto da Kurz.

«La totale razionalizzazione, e la piena economizzazione delle relazioni sociali crea una serra in cui prospera il suo opposto immanente: l'irrazionalità, sempre già carica di violenza». (Ernst Lohoff, 2013)

La crisi del 2008, sostiene Kurz (Kurz, 2013b), ha posto in rilievo alcuni degli elementi stabilizzanti e destabilizzanti della cosiddetta era "post-statista". La preoccupazione comune a tutta la Wertkritik, è che ci si sia concentrati sull'aspettativa che lo sviluppo tecnologico porterà il capitalismo a sovra-produrre merci, che pertanto così diminuiscono di valore. Molti commentatori di sinistra, hanno visto la finanziarizzazione come se essa fosse il risultato di un capitale sovra-accumulato, che, a corto di altri percorsi produttivi per gli investimenti, cerca di tornare in un'economia caratterizzata da un settore dei servizi gonfio, e da una sovraccapacità manifatturiera causata da delle potenze emergenti guidate dalle esportazioni. Ma, secondo Kurz, l'idea che la crisi fosse stata causata da una battaglia di blocchi imperialisti – che contrapponeva la Cina all'egemonia in declino degli Stati Uniti – appariva come bloccata in quella che rimaneva una mentalità assai più adatta alla storia così com'era stata prima che ci fosse la "rottura epocale" del 1989. Mentre, durante gli anni della Guerra Fredda, il mondo era realmente diviso in blocchi politici in competizione - in quelle che erano le loro guerre per procura - l'egemonia degli Stati Uniti, definitivamente stabilita nel 1989, non rappresentava più il dominio imperiale di un tipo di Capitale specificamente nazionale. Piuttosto, il Capitale statunitense ha mediato le catene globali del valore, nel loro complesso, e pertanto ha definito qual era il carattere comune del capitalismo contemporaneo, in tutto il mondo, Cina inclusa. Ciò significava che la crisi andava collocata anche al livello della "interdipendenza del capitale mondiale", anziché all'interno di quelle che sarebbero state delle dinamiche competitive tra potenze in competizione (Kurz, 2013b). Fino al 2008 - sostiene Kurz - il complesso militare-industriale degli Stati Uniti aveva sostenuto il suo ruolo egemonico, garantendo la crescita interna e l'occupazione, e proiettando all'estero il potere della "polizia" americana, agendo e intervenendo in qualsiasi parte del mondo, in nome della stabilità. Tutto ciò, è stato esemplificato in quelle "guerre di ordinamento mondiale" che l'Occidente ha intrapreso contro il terrorismo religioso, e contro gli Stati canaglia negli anni Novanta e Duemila, alla ricerca di una sorta di "gestione precaria della crisi planetaria". Questo potere ha contribuito a coniare quello che Kurz ha chiamato un "dollaro delle armi", distribuito in obbligazioni; il che significava che l'eccesso di ricchezza del mondo fluiva nelle casse degli Stati Uniti premiando il complesso militare-industriale con dei nuovi investimenti. La centralità del dollaro, ha fatto sì che nel 2008 Wall Street si trovasse nell'occhio del ciclone. Ma, con il sostegno del governo, questo ha anche permesso, ai consumi privati e alle imprese degli Stati Uniti, di evitare una crisi ancora peggiore, assorbendo una parte, se non tutta, della produzione di sovrapproduzione globale, sulla scia dell'espansione della capacità manifatturiera che aveva seguito l'ascesa della globalizzazione, e la terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). La Finanza, è stata identificata come se fosse essa la colpevole della crisi - come ha fatto anche gran parte della sinistra, dopo il 2008 - criticando soltanto la distribuzione e la circolazione del valore nella società capitalistica, allo stesso tempo in cui si giustificano le condizioni in cui si crea.   
E’ stato questo - per Kurz – ad aver espresso «il disperato desiderio di fuggire tornando ai tempi della prosperità fordista e della regolamentazione keynesiana», rappresentati dall'economia della Guerra Fredda. In assenza di un "Euro delle armi", europeo, in grado di assorbire la sovrapproduzione globale, sostiene Kurz, gli elementi della sinistra post-crisi hanno riposto tutte le loro speranze in una coalizione simile a quella dell'era della Guerra Fredda, per una "riforma mondiale", che riuscisse a unire la Russia di Putin, la Cina autoritaria, il "caudillismo petrolifero" del Venezuela e il "regime islamista antisemita" dell'Iran. Rappresentando questa “riforma” come un'alternativa indesiderabile e non plausibile, Kurz ha previsto invece una guerra civile mondiale derivante dalla "crisi mondiale in maturazione", prodotta dalla sovrapproduzione causata dalla terza rivoluzione industriale (Kurz, 2013b). In definitiva, come ha sostenuto più di recente Trenkle (2022a, 2022b), questa economia capitalista fallimentare ha fornito scarse basi per qualsiasi tentativo di stabilire un ordine post-1989 di libertà democratiche e di mercato. E lo sviluppo neoliberista ha solo aggravato la devastazione della modernizzazione di recupero sotto il socialismo "reale" nel periodo della Guerra Fredda. Tra le rovine, è fiorito l'arricchimento cleptocratico delle cricche dominanti, a spese delle popolazioni su cui governano. Questo appare ovviamente superficialmente simile ai processi di privatizzazione e di neo-liberalizzazione associati all'Occidente, anche se prive di qualsiasi base per l'integrazione sociale e politica, che non sia il fondamentalismo nazionale, etnico e religioso (Lohoff, 2023c). Mentre il "socialismo reale" e il comunismo sovietico avevano fornito copertura a molti paesi che combattevano il colonialismo nel Sud del mondo durante il periodo della Guerra Fredda, il suo crollo ha lasciato un vuoto che è stato colmato da queste ideologie settarie, dirette contro una serie di nemici esterni e interni. Ciò ha generato una disgregazione sociale e politica che, quando i governi occidentali sono intervenuti militarmente per riportare l'ordine, ha finito solo per peggiorare ulteriormente il disfacimento. In risposta a tale disfacimento, suggerisce Lohoff (2022), l'Occidente ha abbandonato il "senso liberal-democratico della sua missione" espresso in quelle "guerre per i diritti umani" che hanno visto gli Stati Uniti e altri tentare di giocare negli anni Novanta e Duemila al "poliziotto mondiale". In questo contesto, per Lohoff (2023b), l'attuale confronto tra le democrazie liberali occidentali e gli Stati autoritari non si presta a una spiegazione basata sulla nozione antiquata di "imperialismo", ma costituisce piuttosto l'espressione di una "guerra civile mondiale" in cui la distinzione tra politica interna ed estera si offusca. Questa guerra, suggerisce Kurz, non sarà combattuta tra "blocchi di potere nazional-imperiali per la ridistribuzione del mondo", come nel XX secolo, ma avverrà all'interno degli interstizi dell'ordine stesso ormai in declino (Kurz, 2013b).

- Frederick Harry Pitts - Pubblicato su European Journal of Social Theory Volume 27, °4 Nov. 2024 -

- 4 – Continua  -

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