venerdì 4 ottobre 2024

M&C, GZ e il Presidente Petro

La teoria del valore di Marx: collasso, IA e Petro
- di Michael Roberts

Un sito, Marxism and Collapse (M&C) ha condotto un "dialogo" con un modello di Intelligenza Artificiale chiamato Genesis Zero (GZ) il quale include «un'espansione e una confutazione» della teoria del valore di Marx. La voce umana (M&C) pone delle domande e spinge il modello di intelligenza artificiale (GZ) a discutere le inadeguatezze della teoria del valore di Marx, e a raggiungere una nuova e migliore teoria. Il sito web Marxism and Collapse può essere trovato qui, e qui si trova la loro "dichiarazione di programmatica". Mentre, le parti principali della discussione sulla Teoria del Valore di Marx, Genesis Zero - Gustavo Petro, si trovano qui.

M&C sostiene che nell'analisi di Marx c'è una debolezza fondamentale secondo cui, in una merce, la cosa riguarda il duplice carattere del valore d'uso e del valore di scambio. L'addestratore umano di M&C fornisce delle domande guida in modo da far sì che GZ, di conseguenza, risponda che nella teoria di Marx c'è davvero una debolezza: vale a dire, che essa lascia fuori la natura in quanto fonte di valore. Quindi, GZ concorda sul fatto che abbiamo bisogno di modificare la teoria del valore di Marx, trasformandola in una teoria "generale" del valore che incorpori in sé il valore della "natura". Questo dibattito è stato distribuito principalmente in America Latina e in Spagna (ad esempio, nel giornale colombiano Desde Abajo), e ciò sebbene le precedenti versioni inglesi siano state ampiamente distribuite anche in diversi paesi di lingua inglese. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro è entrato in questo dialogo, cosa che ha suscitato un notevole interesse. Petro non è solo il presidente della Colombia, ma è anche molto interessato alla teoria marxista, in relazione alla crisi ambientale e ai danni generati dal capitalismo a livello globale e in Colombia. Ed egli è desideroso di trovare un modo per poter applicare la legge del valore alla misurazione del danno ecologico e ambientale recato alla natura che viene causato dal capitale. Dal dialogo, si conclude che bisogna modificare la legge del valore di Marx in modo che essa incorpori la natura, la quale secondo lui è assente nella teoria del valore di Marx. Petro ha utilizzato le idee espresse in questo dialogo in diverse presentazioni orali.Prendiamo in considerazione l'idea che la teoria del valore di Marx sia inadeguata, incompleta e persino falsa poiché non considera la natura come fonte di creazione del valore. Però, ritengo invece che questa idea sia superflua, e che essa serva solo a indebolire la teoria del valore di Marx in quella che è la sua penetrante e convincente critica del capitalismo. Marx inizia il Capitale con questa prima frase: «La ricchezza di quelle società in cui prevale il modo di produzione capitalistico si presenta come un'immensa accumulazione di merci». Si noti l'uso della parola "ricchezza"; non valore, bensì ricchezza. Marx sta dicendo che tutti i beni e tutti i servizi che gli esseri umani usano, rappresentano una misura della ricchezza. Il valore di questa ricchezza è una faccenda diversa, e tale valore esiste solo nel modo di produzione capitalistico… Nel mio recente libro (con Guglielmo Carchedi), intitolato "Il capitalismo nel XXI secolo" (p. 10-13), ci occupiamo brevemente della natura come fonte di valore. Marx dice che la natura è una fonte di VALORE D'USO – dato che essa è, dopo tutto, materia materiale. La natura è la materia che consente agli uomini di usufruire dell'utilizzo di un bene (aria, acqua, calore, luce, riparo, ecc.) senza l'intervento della forza lavoro umana. Ma sebbene la natura possa avere un valore d'uso, essa non ha valore nell'ambito del modo di produzione capitalistico. Il valore viene creato quando la natura viene modificata dalla forza lavoro umana per creare una merce di proprietà del capitale che possa poi essere venduta (si spera con un profitto) sul mercato. La distruzione ambientale delle foreste da parte della produzione capitalista (esplorazione, estrazione, disboscamento e bonifica dei fossili, ecc.) comporta una perdita della “ricchezza” dei valori d'uso, ma non significa una perdita di valore (valore di scambio) per il capitale. Come socialisti, vogliamo considerare l'impatto sulla natura e sull'ambiente, ma il capitale non è interessato alla natura, a meno che la forza lavoro non venga esercitata direttamente sulla natura per creare nuovi valori d'uso che possono essere venduti sul mercato. Quindi, sotto il capitalismo, non è necessario valorizzare la natura. E poiché la legge del valore di Marx si applica solo al modo di produzione capitalistico, allora non è necessario "correggere" la legge di Marx. Infatti, una delle caratteristiche della duplice natura del valore in una merce nella produzione capitalistica è la contraddizione tra i valori d'uso (i bisogni dell'umanità e la ricchezza della natura) e il valore di scambio (la mercificazione del lavoro umano e della natura per mezzo di prodotti da vendere per il profitto). Questa contraddizione finirebbe con il socialismo/comunismo, dove la produzione sarebbe diretta al consumatore e per i soli valori di uso sociale (o ricchezza). Non ci sarebbero merci, valori e prezzi e quindi il lavoro umano sarebbe in armonia con la natura. Pertanto, non ci sarebbe più alcuna legge del valore, e quindi non sarebbe più necessario né "generalizzarla" né modificarla. Ciò malgrado, nel dialogo, l'umano M&C vuole estendere la teoria del valore di Marx, per includere la natura. Quindi ha fatto così in modo che il modello GZ/AI sviluppasse una vaga legge di valore “generalizzata”. La formula di Marx per il valore delle merci è composta da: c (il valore delle macchine e delle materie prime utilizzate nella produzione) + v (la quota del nuovo valore creato nella produzione che va al lavoro umano) + s (la quota del nuovo valore di cui si appropria il capitale). Quindi valore totale = c+v+s. Secondo M&C, questo sarebbe inadeguato e pertanto GZ propone una formula estesa per il valore totale di una merce, che includa il contributo della natura (n). E così presenta inizialmente questa formula come c+v+s+n.

Ma come si misura n?
Non in ore di lavoro umano, visto che la teoria estesa dice che non è coinvolto alcun lavoro umano. Che dire allora delle unità fisiche di alberi, animali, fiumi ecc.? Ciò non ha alcun senso, visto che la formula di Marx viene misurata in ore di lavoro. Combinare le ore con le unità fisiche è come misurare le mele con le pere. Forse n potrebbe essere misurato in termini monetari, cioè, affitti per la terra. Ma nella teoria marxista la rendita è già una parte del plusvalore, ed è già contabilizzata in s, quindi non c'è bisogno di n. Allora, forse n potrebbe essere misurato come se fosse uno stock di beni fisici utilizzati nella produzione, ma nella teoria del valore di Marx le materie prime sono già incluse in c. Allora, questa estensione non torna. Ciononostante, il dialogo va avanti. M&C chiede a GZ di unirsi a lui/lei in un "attacco combinato" alla teoria del valore di Marx, e ancora una volta il modello di intelligenza artificiale lo accontenta come se fosse un burattino addestrato. In ogni momento, il modello di intelligenza artificiale si trova sempre d'accordo con le domande dell'essere umano (in realtà più simili a vere e proprie dichiarazioni); non è mai in disaccordo. Secondo M&C, e come viene cortesemente concordato dal modello GZ/AI, una corretta teoria del valore non dovrebbe basarsi solo sul lavoro umano, ma includere anche le foreste, gli animali (lavoro animale), e non solo basandosi sulle ore di tempo di lavoro umano "astratto", ma anche sul "lavoro concreto" (competenze umane e animali specifiche). L'uomo M&C e l'intelligenza artificiale GZ ora escogitano perciò una formula ancora più sofisticata per poter così includere nel valore totale anche la natura. Così, il valore totale è ora composto da: Tempo di lavoro umano (diciamo 300); più un po' di valore aggiunto dal lavoro speciale "concreto", che comprende anche il "lavoro animale" (api o cavalli al lavoro, diciamo 75); più la natura (materie prime, diciamo 300); più un po' di specifica natura concreta "di migliore qualità" come foreste migliori (diciamo 50). Quindi il valore totale o il prezzo = 750. Si sostiene che una tale misura del valore differisce dal valore totale di Marx, il quale invece includerebbe solo il tempo di lavoro umano (300). Il modello esteso, ora assume che 100 di quel tempo di lavoro debba andare alla sussistenza della forza lavoro umana. Quindi, mentre nella teoria del valore di Marx il plusvalore sarebbe (300-100) o 200, ecco che nella nuova teoria del valore generalizzato sarebbe 750-100, o 650; pertanto, in questo modo viene creato molto più valore e molto più plusvalore. E più sfruttamento!

  Ma la formula estesa è difettosa. In primo luogo, la teoria estesa esclude il valore trasferito dai macchinari utilizzati nella produzione (c). Considera solo il nuovo valore creato. Il valore totale nella produzione è c+v+s, ricordate. Questa differenza è importante perché gran parte del valore extra identificato nella formula estesa è già incorporato nella misura del valore di Marx. Il "lavoro animale" non è l'equivalente del lavoro umano. Nel modo di produzione capitalistico, i cavalli, le api e gli schiavi sono trattati come macchine, o come materie prime. Quindi il loro contributo è già incluso nelle materie prime o nelle macchine utilizzate nella produzione, cioè in (c). Il valore della merce, nella teoria del valore di Marx, include quindi già il lavoro umano, la natura come materie prime consumate, e gli "animali" come macchine consumate anch'esse nella produzione. Non c'è bisogno di inventare nuove forme di valore. Ed ecco che questo porta così alla domanda se le macchine creino o meno nuovo valore. È questa la domanda che sta a cuore al Presidente Petro. È una vecchia questione, se le macchine creano valore (ivi compresa l'intelligenza artificiale). La risposta di Marx fu quella che il valore viene creato solo dalla forza lavoro umana. Le macchine hanno un valore (ma è solo il valore creato dalla precedente forza lavoro umana, per produrle). Hanno un valore d'uso (aumentano la produttività del lavoro), ma non creano nuovo valore. Come diceva Marx, se il lavoro umano smettesse di funzionare, lo farebbero anche le macchine. Anche l'intelligenza artificiale ha bisogno dell'input umano (formazione, dati, suggerimenti, ecc.), come possiamo facilmente vedere nel "dialogo" di M&C con GZ. Se ci fossero solo macchine che fabbricano macchine, e che producono, senza alcun lavoro, non ci sarebbe valore (e neppure un modo di produzione capitalistico, perché non ci sarebbe nemmeno lo sfruttamento del lavoro umano). Ma siamo assai lontani da questo. Inoltre, l'intelligenza umana è creativa e fantasiosa, vale a dire, pensa a cose che ancora non esistono; mentre le macchine/l'intelligenza artificiale non lo fanno – ancora una volta questo viene dimostrato proprio dal modello GZ, che si limita a rigurgitare le domande principali di M&C e le sputa nelle risposte che il formatore M&C vuole avere. Nella teoria economica di Marx, il lavoro astratto è l'unica fonte di valore e di plusvalore. Tuttavia, nel caso di un'economia in cui i robot costruiscono robot, e non c'è coinvolto alcun lavoro umano, di certo il valore verrebbe ancora creato.

Era questo, l'argomento di Dmitriev nel 1898, in quella che era allora la sua critica della teoria del valore di Marx. Diceva che, in un sistema completamente automatizzato, un certo input di macchine può creare una maggiore produzione di macchine (o di altre merci). In questo caso, il profitto e il saggio del profitto sarebbero determinati esclusivamente dalla tecnologia utilizzata (produttività) e non dal lavoro (astratto). Se 10 macchine producono 12 macchine, il profitto è di 2 macchine e il tasso di profitto è 2/10 = 20%. Ma il valore ridotto al solo valore, d'uso non ha nulla a che fare con la nozione di valore di Marx, che è l'espressione monetaria del lavoro astratto speso dai lavoratori. Se le macchine potessero creare "valore", questo valore sarebbe un valore d'uso, piuttosto che il valore cin quanto risultato del lavoro astratto degli esseri umani. Ma, se le macchine possono creare "valore", allora questo possono farlo anche un'infinità di altri fattori (animali, forze della natura, macchie solari, ecc.) e la determinazione del valore diventa allora impossibile. E se si suppone che le macchine potessero trasferire il loro valore d'uso al prodotto, ciò si scontrerebbe immediatamente con il problema dell'aggregazione del valore di diversi valori d'uso – ad esempio mele più pere, come nella formula estesa presentata da GZ sopra. Per Marx, le macchine possono essere valutate, ma non creano (nuovo) valore. Piuttosto, il lavoro concreto trasferisce il valore delle macchine (e, più in generale, dei mezzi di produzione) al prodotto. Aumentano la produttività umana, e quindi la produzione per unità di capitale investito, diminuendo la quantità di lavoro vivo necessaria per la produzione di una certa produzione. Dato che solo il lavoro crea valore, la sostituzione dei mezzi di produzione con il lavoro vivo diminuisce la quantità di valore creato per unità di capitale investito. La critica di Dmitriev confonde quella che sotto il capitalismo è la duplice natura del valore: valore d'uso e valore di scambio. C'è il valore d'uso (cose e servizi di cui le persone hanno bisogno); e il valore di scambio (il valore misurato in tempo di lavoro e sottratto al lavoro umano dai proprietari del capitale, e realizzato mediante vendita sul mercato). In ogni merce prodotta secondo il modo di produzione capitalistico, c'è sia un valore d'uso che un valore di scambio. Sotto il capitalismo, non si può avere l'uno senza l'altro. Ma è il valore di scambio che governa l'investimento capitalistico e il processo di produzione, e non il valore d'uso. Il valore (così come definito) è specifico del capitalismo. Certo, il lavoro vivo può creare cose e fare servizi (valori d'uso). Ma il valore è la sostanza del modo capitalistico di produrre le cose. Il capitale (i proprietari) controlla i mezzi di produzione creati dal lavoro, e dopo li metterà a disposizione solo per appropriarsi del valore creato dal lavoro. Il capitale non crea valore da sé solo. Quindi, nel nostro ipotetico mondo onnicomprensivo di robot/IA, la produttività (dei valori d'uso) tenderebbe all'infinito mentre la redditività (plusvalore rispetto al valore del capitale) tenderebbe a zero. L'essenza dell'accumulazione capitalistica, sta nel fatto che per aumentare i profitti e accumulare più capitale, i capitalisti vogliono introdurre macchine che possano aumentare la produttività di ogni dipendente, e ridurre i costi rispetto ai concorrenti. Questo è il grande ruolo rivoluzionario del capitalismo nello sviluppo delle forze produttive a disposizione della società. Ma in tutto questo, c'è una contraddizione. Nel tentativo di aumentare la produttività del lavoro con l'introduzione della tecnologia, viene messo in atto un processo di riduzione del lavoro. Le nuove tecnologie sostituiscono il lavoro. Sì, per compensare la cosa, l'aumento della produttività potrebbe portare a un aumento della produzione e aprire nuovi settori all'occupazione. Ma nel tempo, una "distorsione del capitale", o riduzione del lavoro, significa che viene creato sempre meno nuovo valore (poiché il lavoro è l'unico contenuto del valore) rispetto al costo del capitale investito. Quindi, con l'aumento della produttività c'è una tendenza alla diminuzione della redditività. A sua volta, alla fine, ciò porta a una crisi della produzione che arresta, o addirittura inverte il guadagno di produzione derivante dalla nuova tecnologia. Ciò è dovuto esclusivamente al fatto che nel nostro moderno modo di produzione (capitalistico) l'investimento e la produzione dipendono dalla redditività del capitale.

La questione chiave è la legge di Marx della tendenza alla caduta del saggio del profitto. Una composizione organica crescente del capitale porta a un calo del tasso di profitto complessivo, generando crisi ricorrenti. Se i robot e l'intelligenza artificiale sostituiranno il lavoro umano a un ritmo accelerato, ciò non potrà altro che intensificare questa tendenza. Ben prima di arrivare a un mondo robotico, il capitalismo sperimenterà periodi sempre crescenti di crisi e di stagnazione. Quindi possiamo vedere che mentre la teoria del valore di Marx spiega perché la redditività del capitale tenderà a diminuire, e quindi a generare crisi regolari e ricorrenti della produzione e degli investimenti, invece la cosiddetta teoria della "natura estesa" del valore di M&C e GZ finisce per mostrare solo una quantità sempre crescente di plusvalore per il capitale, senza che ne derivino crisi all'interno del modo di produzione capitalista. La crisi potrebbe essere solo ambientale. Il modo di produzione capitalistico, non avrebbe alcuna contraddizione interna e integrata tra profitto e bisogno sociale umano. Il capitalismo cerca di trasformare i "doni gratuiti della natura" in profitto. Così facendo, esaurisce e degrada le risorse naturali, la flora e la fauna, organiche e inorganiche. Tuttavia, c'è una costante battaglia da parte del capitale per controllare la natura e per abbassare l'aumento dei prezzi delle "materie prime" man mano che le risorse naturali si esauriscono e non si rinnovano, aggiungendo un altro fattore alla tendenza del tasso di profitto a scendere (vedi sopra, il libro, "Capitalism in the 21° secolo", pp. 15-18, che in realtà misura il colpo assestato alla redditività da tutto questo). Nessuno di questi argomenti è menzionato nel dialogo M&C-GZ, dove si continua a cercare di elaborare una teoria del valore ancora più generalizzata che apparentemente include il valore intrinseco (valore d'uso?) più il valore trasformativo (il lavoro umano applicato) più il valore ecologico (l'impatto della natura) e il valore sociale (benessere della comunità). Ora abbiamo una teoria del valore che non fornisce un'analisi critica della contraddizione tra valore e ricchezza, valore d'uso e valore di scambio, o tra profitto e bisogno sociale come fa la teoria del valore di Marx, ma invece ecco una sorta di teoria del "valore di tutto", sotto il capitalismo o meno. Questo, a mio parere, rende ridondante la teoria del valore e libera il capitalismo dalla sua contraddizione e dalla sua crisi. Il dialogo parla del “feticismo del lavoro” di Marx, che esclude la natura come fonte di valore, dell'“approccio idealista” di Marx, che esclude la natura, e dell'“approccio antropomorfico” di Marx, che esclude la natura.  I sostenitori di Marx sarebbero antiscientifici anche perché non riescono a sviluppare la teoria del valore mediante “un'analisi più sfumata” (dice GZ) che includa la natura. Un approccio scientifico non si fermerebbe a una “strenua difesa di ogni singola sillaba scritta da Marx”, ma progredirebbe, proprio come Einstein ha fatto con la relatività generale per modificare la fisica classica di Newton, o la meccanica quantistica, che ora ha modificato la relatività generale. M&C coglie poi l'occasione per individuare i peggiori colpevoli nell'aderire alla teoria del valore di Marx.  Ci sono «esponenti contemporanei che vedono la natura come mero ‘serbatoio di risorse’ o al massimo come matrice passiva subordinata all'attività lavorativa umana come ‘unico’ generatore di valore, legato alla creazione di ricchezza reale ma escluso dal processo di valutazione capitalistico nel suo complesso, come l'economista britannico Michael Roberts e l'intellettuale marxista Rolando Astarita.  Inoltre, possiamo citare le posizioni dei commentatori accademici trotskisti argentini Esteban Mercatante e Juan Dal Maso, che si oppongono a qualsiasi espansione teorica dell'ortodossia marxista per dare un posto più importante alla natura nell'analisi economica».  Anche l'ecologista socialista John Bellamy Foster viene attaccato come un altro difensore dell'ortodossia marxista. Il modello GZ sostiene cortesemente M&C e va oltre, rivendicando una falsa coscienza da parte di questi ortodossi marxisti contemporanei. «Il rifiuto di considerare il ruolo della natura nella creazione di valore come teoricamente legittimo può derivare da una riluttanza a deviare dalla dottrina marxista stabilita piuttosto che da un'analisi completa della creazione di valore». Quindi siamo indottrinati e non scientifici. Grazie GZ (o più appropriatamente, M&C).

Infine, di cosa tratta tutto questo dialogo? Sembra che M&C sia convinta che Marx ed Engels abbiano ignorato il ruolo o il valore della natura, in contrapposizione agli esseri umani sul nostro pianeta. Ma questa è una parodia delle opinioni di Marx&Engels. Permettetemi di citare Engels dalla sua opera giovanile, "Umrisse" (che si trova nel mio libro, Engels 200 p. 88): «Fare della terra un oggetto di mercanteggiamento – la terra che è il nostro unico e il nostro tutto, la prima condizione della nostra esistenza – è stato l'ultimo passo per fare di noi stessi un oggetto di mercanzia. Era ed è fino ad oggi un'immoralità superata solo dall'immoralità dell'autoalienazione. E l'appropriazione originaria – la monopolizzazione della terra da parte di pochi, l'esclusione del resto da ciò che è la condizione della loro vita – non cede nulla in immoralità al successivo mercanteggiamento della terra. Una volta che la terra viene mercificata dal capitale, è soggetta a un degrado tanto quanto il lavoro». E poi dal suo grande libro, la "Dialettica della natura": «Così, ad ogni passo, ci viene ricordato che non governiamo affatto la natura come fa un conquistatore su un popolo straniero, come fosse qualcuno che sta al di fuori della natura, ma che noi, con carne, sangue e cervello, apparteniamo alla natura, ed esistiamo in mezzo ad essa, e che tutta la nostra padronanza di essa consiste nel fatto che abbiamo il vantaggio di essere su tutti gli altri esseri in grado di conoscere e applicare correttamente le sue leggi». E continua: «Gli uomini non solo sentono, ma anche conoscono la loro unità con la natura, e così tanto più impossibile diventerà l'idea insensata e antinaturale di una contraddizione tra mente e materia, uomo e natura, anima e corpo. ...» Non sono Marx ed Engels a ignorare il ruolo e il valore della natura, sono i capitalisti, almeno lo hanno fatto fino a quando essa non li ha colpiti sul viso, con il cambiamento climatico. Per Marx ed Engels, la possibilità di porre fine alla contraddizione dialettica tra uomo e natura, e di raggiungere un certo livello di armonia ed equilibrio ecologico, sarebbe possibile solo con l'abolizione del modo di produzione capitalistico. Questa conclusione sembra sia stata persa dai nostri marxisti del collasso.

- Michael Roberts - Pubblicato il 3/10/2024 su The Next Recession -

giovedì 3 ottobre 2024

Il prezzo di Israele ?!!???

La teoria Khazariana: un ponte tra antisionismo, antisemitismo e ideologie estremiste
-Ebrei ashkenaziti, discendenti diretti dei Khazari, un popolo dell'Asia centrale convertito all'ebraismo nel Medioevo? Questo è ciò che sostiene una teoria che mette in discussione il legame tra l'antica Palestina e coloro che, in seguito, sarebbero venuti a popolarla in gran numero.-
- di Stephanie Courouble -

Al centro dei dibattiti contemporanei sull'antisionismo, sta riemergendo con rinnovato vigore il mito giudeo-khazariano. Questa vecchia ma persistente teoria sostiene che la stragrande maggioranza degli ebrei ashkenaziti – che costituiscono una parte significativa della popolazione israeliana – non sono discendenti diretti degli antichi israeliti, ma piuttosto, in larga misura, discendenti dei Khazari. Si dice, che questo popolo turco dell'Asia centrale abbia abbracciato l'ebraismo tra il VII e il X secolo. Secondo questa affermazione, gli ebrei ashkenaziti, essendo convertiti ai cazari e non "ebrei originali", non avrebbero quindi alcun diritto legittimo su Israele, la culla dell'ebraismo. Questa teoria, mettendo in discussione la continuità storica del popolo ebraico, mira a delegittimare lo Stato di Israele e le sue fondamenta su basi storiche e religiose. Il mito giudeo-khazariano è strumentalizzato sia dall'estrema destra che dall'estrema sinistra dello spettro politico, sebbene questi due estremi abbiano spesso obiettivi opposti; entrambi convergono nella loro contestazione della legittimità degli ebrei nella terra di Israele. La teoria Khazariana funge quindi da ponte tra correnti ideologiche estremiste divergenti, un'unione di estremi che è diventata particolarmente evidente dal 7 ottobre 2023 e dalla guerra Israele-Hamas.

Un regno poco conosciuto
I Khazari, etnia nomade vicina ai Turchi e originaria dell'Asia centrale, fondarono un impero che prosperò a partire dal VII secolo al X secolo, che si estende tra il Mar Nero e il Mar Caspio. La loro storia è segnata da alleanze altalenanti e ripetuti scontri con l'Impero bizantino, oltre che da lotte contro gli arabi, fino al loro graduale declino in seguito alla conquista russa nel X secolo. La presenza tangibile del vasto regno Khazariano ha lasciato poche tracce, scatenando a lungo il dibattito sulla sua stessa esistenza. Le corrispondenze scoperte tra Spagna e Khazaria nel XVII e XVIII secolo, inizialmente non furono sufficienti per attestare la sua realtà, a causa dei dilemmi posti dalla loro autenticazione e datazione. Tuttavia, le testimonianze provenienti da fonti arabe, ebraiche e cinesi confermano ormai in modo inequivocabile l'esistenza di questo regno, nonostante la scarsità di documenti scritti e prove archeologiche. Gli studi sui Khazariani sono stati ostacolati da vari ostacoli politici, come lo stalinismo, che hanno esacerbato la difficoltà di ricostruire la loro storia e alimentato la proliferazione di teorie speculative. Tra questi c'è l'idea che tutti i sudditi del regno cazaro fossero ebrei. L'origine Khazariana degli ebrei ashkenaziti è stata oggetto di dibattito fin dall'inizio del XIX secolo, segnato dal primo accenno di un legame tra loro e i Cazari. Isaac Baer Levinsohn, rabbino ucraino dell'inizio del XIX secolo, fu tra i primi a proporre che gli ebrei russi discendessero dai Cazari. Questa idea è stata successivamente sviluppata da molti altri, tra cui il famoso Ernest Renan nel XIX secolo, che sosteneva che la conversione dei Cazari all'ebraismo aveva svolto un ruolo significativo nell'origine delle popolazioni ebraiche dell'Europa orientale. Nel corso del tempo, la teoria Khazariana è stata adottata e reinterpretata da vari attori, tra cui romanzieri ebrei che vedevano il regno Khazariano come un simbolo della resistenza ebraica contro lo stereotipo della passività. Tuttavia, questa teoria è spesso criticata come riduttiva dalla ricerca accademica contemporanea. Sebbene l'ipotesi della conversione dell'élite Khazariana all'ebraismo sia per lo più accettata, la maggior parte degli storici sottolinea che la popolazione Khazariana era religiosamente diversificata, e comprendeva cristiani e musulmani. La questione del futuro dei Cazari e dei loro discendenti dopo la caduta del regno, e in particolare l'affermazione che gli ebrei ashkenaziti fossero i loro discendenti convertiti, è ancora dibattuta, anche se respinta da tutti gli storici e Khazarologi. L'avvento della genetica moderna, a cui è stato chiesto di pronunciarsi su questa origine, ha riacceso il dibattito senza però fornire conclusioni definitive, spesso contestate dagli storici. Sebbene gli ebrei si fossero stabiliti nella regione, la presenza preesistente e la dispersione delle comunità ebraiche ashkenazite in Europa e in Iran contraddice l'idea di un'origine esclusivamente Khazariana comune a tutti gli ebrei dell'Europa orientale.

Sradicare l'identità ebraica dalla sua storia
Il mistero che circonda la storia dei Khazariani ha favorito la diffusione delle più stravaganti teorie cospirative, antisemite e antisioniste. Questa affermazione serve non solo a negare l'identità ebraica sradicandola dalla sua storia e tradizione, ma anche a screditare la legittimità della presenza ebraica in Israele. Il mito, propagato ad esempio dall'americano Mercury, giornale americano antisemita e neonazista, attraverso articoli come "Gli ebrei che non esistono", nell'autunno del 1967, continua a influenzare certi ambienti. Oggi, viene ripreso da vari siti che sostengono l'esistenza di una presunta "mafia giudeo-Khazariana" che controlla il mondo in segreto con l'ambizione di imporre un "nuovo ordine mondiale satanico". In questa delirante narrazione antisemita, gli ebrei non sono ritratti come discendenti semiti delle stirpi reali di Davide e Salomone, ma piuttosto come discendenti di una "razza" percepita come barbara e crudele. Questa caratterizzazione fallace li pone, secondo i discorsi accusatori, non come vittime ma come gli istigatori di tutti i conflitti mondiali, invertendo così il loro ruolo da vittime ad aggressori. Questa teoria viene anche usata per affermare che gli ebrei ashkenaziti non discendono dagli ebrei o dai giudei, ma provengono dal regno dei Cazari, in breve, usurpatori. Così, i "veri ebrei" sarebbero quelli che riconoscono Cristo come il Messia, un'idea che risuona particolarmente all'interno di certe fazioni dell'estrema destra cristiana americana. In Francia, figure come Alain Soral e il suo movimento sostengono anche che gli ebrei ashkenaziti, provenienti dall'Europa, non sono semiti ma cazari, descrivendo falsamente queste comunità come truffatori senza radici autentiche in Israele. Il mito giudeo-Khazariano, che distorce la storia ebraica e ne nega l'identità, è stato anche usato per sfidare la legittimità della presenza ebraica in Israele. Questa narrazione è spesso sfruttata dagli antisionisti nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Secondo questa teoria, gli ebrei ashkenaziti sono impostori senza alcun diritto legittimo sulla terra palestinese, considerata semitica. Alcuni estremisti si spingono fino a sostenere che i "veri ebrei" della Terra Santa sono in realtà i palestinesi. Pertanto, gli ebrei sarebbero stati i colonizzatori della Palestina, e non i legittimi discendenti della tribù di Giuda.

Negare il legame ebraico con la Palestina
Nel 1953, Alfred M. Lilienthal, un avvocato americano ed ebreo antisionista, pubblicò il suo primo libro intitolato "What Price Israel?" in cui sosteneva che i Khazari erano gli antenati diretti delle comunità ebraiche dell'Europa orientale, un'affermazione che definì un "fatto storico" (p. 222). Si spinge ancora oltre suggerendo che, secondo gli antropologi, l'ascendenza di Hitler potrebbe essere fatta risalire alle Dieci Tribù Perdute di Israele e che Chaim Weizmann potrebbe discendere dai Khazari, questi ultimi essendosi convertiti all'ebraismo senza alcun legame antropologico con la Palestina (p. 223). Conclude avvertendo del potenziale del sionismo di corrompere l'ebraismo. Nel corso del tempo, l'impegno di Lilienthal per la causa palestinese si tingeva di antisemitismo e, alla fine degli anni '70, sostenne una petizione americana, avviata da Mark Weber (un neonazista americano e negazionista dell'Olocausto), in difesa dei diritti del negazionista francese Robert Faurisson a condurre la sua "ricerca". Poi, nell'estate del 1981, Lilienthal contribuì a un articolo sulla rivista dell'Institute for Historical Review (IHR), il primo centro internazionale di negazione dell'Olocausto, in cui nello stesso numero, R. Faurisson contestava l'esistenza delle camere a gas come mezzo di omicidio. Allo stesso tempo, Benjamin Freedman, un uomo d'affari americano che divenne cristiano dopo aver lasciato l'ebraismo, aveva anche un vivo interesse per il regno dei Cazari. Dopo la seconda guerra mondiale, fondò la Lega per la Pace con la Giustizia in Palestina nel 1946, dimostrando il suo impegno per la pace e la giustizia in Palestina. A causa dell'antisionismo, ha reso popolare il mito giudeo-khazariano, in particolare attraverso il suo libro I fatti sono fatti. Pubblicato nel 1954 da Noontide Press, diretto da Willis A. Carto, noto per le sue posizioni antisemite e il successivo finanziamento dell'IHR, questo libro divenne una parte fondamentale della campagna di Freedman contro il sionismo. Durante gli anni '50, Freedman fu anche attivo nei circoli antisemiti e negazionisti dell'Olocausto, finanziando il giornale Common Sense, che presentava Eustace Clarence Mullins, uno scrittore notoriamente antisemita. Nel 1961, Freedman tenne un lungo discorso al Willard Hotel di Washington, D.C., sul "controllo sionista degli Stati Uniti", un discorso che sarebbe stato spesso citato dagli antisemiti nei decenni successivi. Questi ultimi sostengono che Freedman, con il suo background in diplomazia, parla per esperienza dei "complotti diabolici che [avrebbero] contribuito a scatenare guerre in Europa e in Medio Oriente" (discorso al Willard Hotel). Nello stesso anno, il 1961, Freedman pubblicò The Hidden Tyranny, in cui sosteneva che le due guerre mondiali erano una manipolazione sionista e che solo lui deteneva la verità sugli eventi che determinano la storia del mondo. Freedman e la sua teoria dei Khazariani sono spesso citati nei circoli di estrema destra, che spesso sottolineano la sua affiliazione ebraica, ma non menzionano i suoi contatti con neonazisti, negazionisti dell'Olocausto e antisemiti.

Una teoria per europeizzare gli ebrei
L'ipotesi cazaro-ashkenazita attirò l'attenzione di un pubblico molto più ampio con la pubblicazione nel 1976 de La tredicesima tribù. L'impero Khazariano e la sua eredità dal famoso scrittore Arthur Koestler, che rivendicò radicalmente un'eredità Khazariana tra gli Ashkenaziti, inclusa l'argomentazione che gli ebrei non avrebbero potuto raggiungere il numero di otto milioni nell'Europa orientale senza il contributo dei Khazari. Autore ebreo ungherese naturalizzato britannico, già noto per le sue polemiche pubbliche, lo scrittore si fece conoscere negli ambienti di sinistra europei nel corso degli anni Quaranta con il suo libro critico del regime stalinista Buio a mezzogiorno. Legato alla Nuova Sinistra, questo romanziere, sionista degli anni Venti, nega le sue origini ebraiche e adotta un "sionismo pragmatico" credendo che gli ebrei dovessero assimilarsi in Europa o andare a vivere in Israele. Con La tredicesima tribù, A. Koestler visse "la fase finale del suo distacco dall'ebraismo", cercando di rendere gli ebrei ashkenaziti discendenti dei Khazari, e quindi un popolo turco-mongolo, il che gli permise di affermarsi soprattutto come europeo. Il suo libro ha avuto un ampio impatto e ha alimentato il discorso antisionista. Secondo lui, le origini Khazariane degli ebrei ashkenaziti potrebbero porre fine all'antisemitismo, che è alimentato, secondo Koestler, dall'insistenza degli ebrei come "razza eletta". Se questi ebrei non fossero di origine semitica, allora il termine "antisemitismo" perderebbe il suo significato.

L'"invenzione" del popolo ebraico
Le idee di Koestler sono state riprese trent'anni dopo dall'israeliano Shlomo Sand, specialista di storia contemporanea, in How the Jewish People Were Invented, pubblicato nel 2008. S. Sand sostiene che il popolo ebraico fu creato nel diciannovesimo secolo dai sionisti e sviluppa la sua teoria basata sull'espansione ebraica nella diaspora durante l'antichità. Egli confuta la realtà storica di un esilio dalla Palestina: secondo lui, gli ebrei oggi sono discendenti di convertiti, mentre i veri discendenti degli ebrei sono i palestinesi, che si sono certamente convertiti all'Islam nel corso dei secoli ma sono sempre rimasti sul territorio di Israele. Numerosi dibattiti internazionali hanno avuto luogo in seguito alla pubblicazione di questo libro, durante i quali sono state sollevate solide obiezioni da parte di storici specializzati in storia ebraica, cosa che S. Sand, la cui specialità è la storia contemporanea, non era. Ma quest'ultimo persistette comunque nelle sue idee con altre due opere che attestano preoccupazioni politiche chiaramente antisioniste. Anche il suo antisionismo è confermato, poiché durante i suoi viaggi in Francia, lo storico israeliano non esita a tenere conferenze alla libreria Résistances (7 febbraio 2009, 28 marzo 2013), una libreria strutturalmente legata al CAPJPO-Europalestine i cui dirigenti dell'uno sono i leader dell'altro. CAPJPO-EuroPalestine è un'associazione che si batte per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, fondata da Olivia Zémor nel 2002. Alla riunione a sostegno della lista EuroPalestina dell'8 giugno 2004, erano presenti Dieudonné e A. Soral, Jean Bricmont era membro della commissione. Molti relatori sono stati invitati alla libreria Résistances: John Bastardi-Daumont, avvocato di R. Faurisson e, all'epoca, Paul-Éric Blanrue (scrittore francese vicino ai negazionisti dell'Olocausto e all'estrema destra), ha parlato nel 2009; nel 2011 è stata la volta di Gilad Atzmon, un jazzista israeliano antisionista diventato negazionista dell'Olocausto. La teoria giudeo-Khazariana è anche ben ancorata nei movimenti palestinesi. Già nel 1982, in una conferenza negazionista di IHR a Chicago, un ricercatore palestinese, Sami Hadawi, riprendeva la teoria Khazariana con il titolo "Chi sono i palestinesi?". Poi, di recente, nell'agosto 2023, il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha fatto osservazioni antisemite e ha ripetuto il mito davanti al Consiglio rivoluzionario di Fatah del suo partito tenutosi a Ramallah, dove ha affermato che gli ebrei ashkenaziti discendono esclusivamente dai Khazari, «un regno tartaro convertito alla religione ebraica nel nono secolo». Un argomento che, secondo lui, dimostra che non è la loro religione, ma «il loro posto nella società... in relazione all'usura e al denaro», che ha fatto guadagnare agli ebrei d'Europa la discriminazione da parte dei loro concittadini e la tortura della Shoah.

Teorie del complotto e antisemitismo
Nell'era del Web 2.0 e 3.0, l'uso del termine "Khazariani" è diventato molto diffuso, causando preoccupazione. Il termine è spesso usato come sostituto per evitare di menzionare direttamente gli "ebrei", evitando così accuse di antisemitismo. Durante la pandemia, la teoria Khazariana ha guadagnato slancio sui social media, con video che hanno accumulato centinaia di visualizzazioni che propagavano teorie antisemite, sostenendo che i "Giudeo-Khazariani" avrebbero orchestrato il controllo globale tramite vaccini e passaporti sanitari. Più recentemente, il conflitto in Ucraina ha riacceso queste narrazioni, con alcuni che sostengono che i Khazariani stiano cercando di riconquistare il loro ex territorio storico, in parte in Russia, con il sostegno del presidente ucraino Zelensky, lui stesso presunto Khazariano a causa delle sue origini ebraiche. La teoria Khazariana attrae una vasta gamma di seguaci di varia estrazione politica, tra cui intellettuali di estrema sinistra, antisionisti e/o antisemiti, ebrei e non, e si diffonde sia sui social media che su molti siti affiliati a movimenti cristiani neonazisti, filopalestinesi o fondamentalisti. Questa fissazione sulla presunta origine non semitica degli ebrei moderni persiste nelle agende politiche dei suoi sostenitori. Nel contesto della guerra tra Israele e Hamas, il mito giudeo-khazariano è riemerso con forza tra i sostenitori filo-palestinesi, che accusano gli israeliani di colonizzazione illegittima in Israele. Questo mito, suggerendo un'origine non semita degli ebrei moderni, funziona come uno strumento di retorica antiebraica, trascendendo decenni e confini geopolitici. Paragonabile alle tesi negazioniste dell'Olocausto, unisce estremisti di varia estrazione attorno a una comune ostilità nei confronti degli ebrei e di Israele, illustrando come l'antisemitismo sia spesso intrinseco all'antisionismo.

- 16/9/2024 - Stephanie Courouble-Share, storica della negazione dell'Olocausto, dottorato di ricerca in storia contemporanea, ISGAP (New York) / LCSCA (Londra)
fonte: LEDDV - Le Diritte de vivre -

mercoledì 2 ottobre 2024

“Esegiamo” !!!

Abbiamo (davvero) letto bene Engels?
- di Christophe Darmangeat -

Con il titolo di questo post, parafraso quello di un articolo di Florian Gulli, recentemente pubblicato sulla rivista La Pensée, che si propone di tornare al libro di Engels, "L'origine della famiglia, la proprietà privata e lo Stato". Secondo Florian Gulli (colgo l'occasione per salutare l'interesse e il rigore dei suoi scritti, ad esempio sui temi del razzismo o dell'inter-sezionalità), Engels sarebbe stato spesso frainteso su due punti essenziali. Il primo è la situazione delle donne nelle società pre-statali; la seconda riguarda le ragioni del passaggio alla patrilinearità, quella che Engels chiama, dopo Bachofen, la «sconfitta storica del sesso femminile». Florian Gulli si impegna quindi, con citazioni a sostegno, a ripristinare quella che considera l'autentica intenzione di Engels di fronte alle interpretazioni che lo hanno distorto. Mi sembra, però, che mentre corregge degli errori reali, a volte salti un po' troppo dall'altra parte del cavallo, e che la sua lettura a sua volta richieda qualche sfumatura. "Esegesiamo" dunque, limitandoci per mancanza di tempo al primo punto. Le relazioni tra i sessi sono infinitamente sottili e complesse, ed è ovviamente sempre problematico inserirle in poche grandi categorie rigide. Sulla base di una divisione di genere, dei compiti e della vita sociale, si può tuttavia ammettere che esistono tre tipi principali di configurazione: quella in cui gli uomini, nel complesso, dominano le donne ed esercitano su di esse un'autorità de jure o de facto, la quale viene generalmente chiamata "dominazione maschile" o "patriarcato". La situazione opposta, nella quale le donne dominano gli uomini, è invece quella del "matriarcato". Infine, possiamo ammettere anche l'esistenza di situazioni indecidibili, nelle quali, pur occupando ruoli sociali diversi, i due generi coesistono in una qualche forma di equilibrio, senza che nessuno dei due abbia la precedenza sull'altro. La domanda è: secondo Engels, nei tempi primitivi, quale di queste tre configurazioni prevaleva (universalmente)?

    Florian Gulli insiste sul fatto che a Engels è stata spesso attribuita la tesi del matriarcato, mentre invece essa non viene difesa ne "L'origine della famiglia...". La parola in sé non appare nel testo (anche se Engels la adotta in almeno un'occasione, in una sua lettera a Joseph Bloch). Per quanto riguarda il contenuto, secondo lui, non c'è alcun passaggio che giustifichi chiaramente l'idea del dominio delle donne nella società. In effetti, Engels parla due volte (solo!) della "predominanza delle donne". La prima volta, aggiunge un'importante precisazione: questa predominanza si esercita "in casa"; nulla significa quindi che si tratti di una predominanza sociale più generale. Il problema nasce pertanto dal secondo passaggio, che riproduco qui: «L'economia domestica comunista - nella quale le donne appartengono per la maggior parte, se non tutte, a una stessa gens, mentre gli uomini sono divisi in diverse gentes - è la base concreta di quella predominanza delle donne che era universalmente diffusa nei tempi primitivi, e di cui costituisce il terzo merito di Bachofen il fatto che sia stata scoperta». Ecco che, pertanto, la restrizione a casa è scomparsa. Si può certamente pensare che rimanga implicita; tuttavia, l'omaggio a Bachofen – che, dal canto suo, ha difeso inequivocabilmente l'idea di una "ginecocrazia", cioè di un matriarcato – introduce a di poco un'ambiguità. Ammettiamo quindi con Florian Gulli che tutto questo non sia molto chiaro, e che queste poche parole si prestano facilmente a interpretazioni divergenti. Tuttavia, esiste un'altra serie di elementi che potrebbe risolvere il dibattito. Florian Gulli ci ricorda che Engels, nel corso del suo libro, sottolinea l'esistenza di «pratiche, precedenti all'epoca della famiglia patriarcale, che sono ben lungi dall'essere egualitarie». Queste pratiche sono di due tipi. Innanzitutto, ci sono divieti, o restrizioni, riguardanti alcune funzioni sociali: ad esempio, l'impossibilità per le donne irochesi di candidarsi a posizioni elettive in quanto capo o comandante militare. C'è poi tutto ciò che rientra in un "doppio standard" giudiziario, e questo soprattutto per quanto riguarda l'adulterio. Il fatto che tutti questi elementi appaiano nel testo di Engels proverebbe perciò che egli aveva riconosciuto l'esistenza della dominazione maschile nei tempi antichi. Di conseguenza, il passaggio dalla matrilinearità alla patrilinearità non segnerebbe la nascita del dominio maschile, ma piuttosto solo il suo aggravamento: «La "grande sconfitta storica del sesso femminile" evocata da Engels difficilmente può essere interpretata in termini di passaggio dal matriarcato al patriarcato, o anche come il passaggio dall'uguaglianza alla disuguaglianza. (...) Non si tratta dell'apparenza di disuguaglianze tra uomini e donne, quanto piuttosto di una radicalizzazione di queste disuguaglianze».

Mi sembra che in questo modo di vedere le cose ci siano due errori. Il primo, riguarda l'interpretazione del divieto di alcune funzioni, il quale potrebbe essere collegato, più in generale, alla divisione sessuale dei compiti e della vita sociale. Simili divieti (e prescrizioni) sono palesemente contrari all'uguaglianza dei sessi, così come essa è concepita nella società contemporanea, ossia, contrari alla scomparsa dei generi. Ma questa separazione sociale dei sessi non è sinonimo di dominio dell'uno sull'altro: ne è solo la condizione. Ed è del tutto possibile pensare che alcune società segnate dal genere, in questo modo, abbiano raggiunto un relativo equilibrio di potere. La proibizione, per le donne irochesi, di determinate funzioni non può pertanto essere presa come prova in sé della loro inferiorità. La cosa diventa molto diversa per quanto attiene ai doppi standard giudiziari: questi elementi denotano chiaramente un'asimmetria, o una dominazione. L'intera questione è se Engels li avesse riconosciuti come tali. Se così fosse, non vediamo cosa gli avrebbe impedito di essere esplicito e di parlare, nero su bianco, di un'antica dominazione maschile. Invece, in almeno due punti, Engels scrive due frasi che contraddicono una tale idea:

    1 - «Tra tutti i selvaggi e i barbari dello stadio inferiore e medio, e anche in parte tra quelli dello stadio superiore, la donna ha una posizione "non solo libera, ma molto stimata"». 2 - «Il matrimonio coniugale (...) appare come l'assoggettamento di un sesso all'altro, come la proclamazione "di un conflitto tra i due sessi, finora sconosciuto in tutta la preistoria"» [la virgolettatura è mia]. Come fece allora Engels a conciliare queste due affermazioni generali con le prove che egli presenta, e che le contraddicono manifestamente? Senza azzardare speculazioni troppo azzardate, possiamo suggerire che egli considerasse quest'ultima affermazione, o come insignificante della dominazione maschile, o come dei semplici semi di quella che sarebbe stata questa dominazione maschile; la quale apparve tardi e ne anticipò la futura affermazione. Così, se anche ci si può chiedere fino a che punto, agli occhi di Engels, la presunta iniziale "predominanza" delle donne in casa si sia poi tradotta nella loro predominanza sociale, sembra tuttavia piuttosto difficile attribuirgli l'idea che le donne fossero già dominate, per quanto leggermente, dagli uomini. E in ogni caso, se questa discussione ha un interesse storico, allora il suo significato non dovrebbe essere tuttavia esagerato oggi: con il progresso della conoscenza, gran parte del ragionamento di Engels è diventato obsoleto, e ora possiede soltanto un interesse storico e metodologico. Quel che è soprattutto importante, è invece sapere in che modo si possa ragionare da marxisti a partire dalle conoscenze attuali; e come credo di sapere, non è certo Florian Gulli che dice che non lo sia!

- Christophe Darmangeat - Pubblicato il 28/9/2024 su "La Hutte des Classes" -