Contro la sinistra del Capitale
- di Guillaume Deloison -
L'idea stessa di rivoluzione, sembra essersi dissolta nell'aria, così come ogni critica radicale del capitalismo. Naturalmente, viene generalmente ammesso che ci sarebbero numerosi dettagli da cambiare per quanto riguarda l'ordine del mondo. Ma uscire dal capitalismo, e basta? E poi per sostituirlo con che cosa? Chiunque ponga questa domanda, rischia di passare per un nostalgico del totalitarismo del passato, oppure per un ingenuo sognatore. Ma, sulla base di quella che è la nostra situazione ecologica e sociale, appare decisamente necessario portare avanti una critica radicale del capitalismo, mostrarne il suo carattere distruttivo, che è allo stesso tempo anche storicamente limitato.
Contrariamente a quanto è stato ritenuto implicitamente da Adam Smith, David Ricardo, e perfino da quasi tutti i marxisti, le categorie capitalistiche della merce, del valore, del lavoro, non sono affatto naturali ed eterne. Tali categorie esistano specificamente solo grazie al modo di produzione attuale. Il valore considera solo la quantità di lavoro contenuta nelle merci, vale a dire, la quantità di tempo necessario alla loro produzione. Tempo che può essere visto solamente secondo il modo standardizzato della produzione capitalista: come pura astrazione. Un ora, quella della fabbrica, è la stessa ora dappertutto, ovunque. Il capitalismo si caratterizza a livello profondo per il fatto che la società tutt'intera è dominata da questi fattori anonimi ed impersonali. É ciò che Marx chiama «feticismo della merce», e che non è affatto riducibile ad una semplice «mistificazione» della realtà capitalista.
Piuttosto che mettere in discussione il valore di mercato, il lavoro, ecc., in quanto principio regolatore della produzione e della vita sociale, il movimento operaio ed i suoi teorici si battevano solamente per una sua «ridistribuzione» più giusta. Accettando quella che è la struttura stessa della produzione capitalista, si preoccupavano essenzialmente di riuscire ad ottenere le migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, il marxismo è quindi divenuto, nonostante un po' di retorica, una teoria dell'integrazione effettiva del proletariato, di coloro che, nella società del valore, posseggono solo la forza lavoro. Per un lungo periodo di tempo, si è potuto vedere che gli alti salari, o il diritto a sindacalizzarsi, non erano poi del tutto incompatibili con il profitto capitalista, anzi, al contrario! Le «conquiste» del movimento operaio non sono state solo strappate al capitale suo malgrado, ma ne hanno anche costituito la sua forma più efficace di sviluppo. Ciò è particolarmente vero per quel che riguarda le varianti socialdemocratiche del movimento operaio. Laddove le varianti leniniste avevano preso il potere, come in Russia, e più tardi anche in altri paesi alla periferia del mercato mondiale, si è potuto assistere ad una «modernizzazione di recupero»: ben lungi dal voler abolire la merce, il lavoro, il valore ed il denaro, si trattava, al contrario, proprio di volerli introdurre in quelli che erano dei paesi agricoli.
È il lavoro, e solo il lavoro, che dà il loro «valore» alle merci, e che quindi forma in questo modo il capitale. Il capitale non è il contrario del lavoro, ma è bensì la sua forma accumulata; il lavoro vivente ed il lavoro morto sono due «stati di aggregazione» della medesima sostanza del lavoro. Il lavoratore non si trova affatto al di fuori della società capitalista, ma ne costituisce uno dei suoi due poli. Una «rivoluzione dei lavoratori contro il capitalismo» è perciò un'impossibilità logica; quella che può avere luogo è solo una rivoluzione contro l'assoggettamento della società e degli individui alla logica della valorizzazione e del lavoro, una rivoluzione contro la subordinazione del concreto all'astrazione del modo di produzione capitalista.
Una simile critica del lavoro deriva necessariamente dal concetto marxiano di lavoro astratto, dal lavoro inteso come astrazione, che Marx considerava come la sua scoperta più importante, anche se non ne faceva derivare tutte le conseguenze. Nel movimento operaio, di questo non ne è rimasto nulla; al contrario, il lavoro viene esaltato, e la critica principale che viene rivolta alla borghesia è quella secondo cui essa non lavora più. La rivoluzione, così come viene intesa dal marxismo tradizionale, si dovrà limitare a restituire a coloro che lavorano la proprietà dei mezzi di produzione. I lavoratori continuerebbero poi a lavorare ed a produrre del valore, rappresentato nel denaro, ecc.... ma tutto questo però sotto «controllo operaio».
Nessun programma di emancipazione, quindi, può più basarsi sul lavoro: innanzitutto, perché il lavoro non è mai stato identico all'attività produttiva umana, al «metabolismo con la natura» (Marx). Si è dovuto standardizzare ogni gesto e ogni secondo, fino al massimo grado, in modo che il tempo fosse ridotto ad una semplice quantità di lavoro in generale. C'è stato bisogno di una tecnica specifica, storicamente determinata perché il lavoro divenisse un'astrazione che potesse così ricoprire tante differenti attività, un'astrazione che riduce tutto ad una semplice quantità della medesima sostanza sociale senza contenuto, mirante unicamente alla sua accumulazione. La produzione non mira alla soddisfazione dei bisogni, ma serve una dinamica cieca che consuma le energie umane e le risorse naturali. La valorizzazione del valore si impone nei confronti degli attori sociali ed agli stessi capitalisti. Credere nell'esistenza di una «grande regia» occulta che sia dalla parte dei capitalisti, è piuttosto una maniera di rassicurare sé stessi. Le verità è assai più tragica: nessuno controlla questo meccanismo che sacrifica il mondo concreto ad un'astrazione che viene feticizzata, adorata. Per la stessa ragione, anche una critica moraleggiante del capitalismo è del tutto inutile. Le lotte sociali classiche ruotano intorno alla ripartizione del plusvalore; l'esistenza del valore, viene già presupposta in quanto «bene» neutro, del quale bisogna semplicemente appropriarsi. Il valore non potrà essere abolito, senza abolire il lavoro che lo crea - ecco perché una contestazione del capitalismo fatta nel nome del lavoro non ha alcun senso. Si sbaglia anche opponendo il «buon» lavoro concreto al «cattivo» lavoro astratto: se ci si limitasse ad eliminare da tutti i lavori ciò che essi hanno in comune - il dispendio del tempo di lavoro - quel che resterebbe non sarebbe il lavoro «concreto» (categoria che è essa stessa un'astrazione), ma resterebbe una molteplicità di attività, ciascuna delle quali è legata ad uno scopo determinato - come avveniva nelle società pre-capitaliste, le quali effettivamente non conoscevano il termine «lavoro» nel senso moderno.
Il movimento operaio traeva una certa giustificazione dal fatto che il capitalismo, durante la sua lunga fase di espansione, permetteva effettivamente delle forme di ridistribuzione, con dei risultati che erano perfino notevoli per le classi lavoratrici. I suoi critici, anche se il loro orizzonte non è mai stato quello del superamento del capitalismo, avrebbero perciò potuto vantarsi di aver ottenuto degli importanti successi, che suggerivano che il capitalismo avrebbe potuto essere «addomesticato» in una «democrazia di mercato». Tuttavia, i progressi tecnologici, e soprattutto l'applicazione alla produzione della microelettronica, ha ridotto in maniera continua il ruolo del lavoro vivente, soprattutto a partire dagli anni '60, Ci sono ancora delle imprese specifiche che possono ancora ottenere dei grossi profitti, ma il sistema nel suo insieme ha cominciato a perdere la sua «sostanza». Il capitalismo sega il ramo sul quale sta seduto: la valorizzazione del valore per mezzo dell'utilizzo del lavoro vivente. Ha corso questo rischio fine dall'inizio della rivoluzione industriale e l'introduzione delle macchine nella produzione. Per molto tempo, la diminuzione del valore (e quindi della porzione di plusvalore e di profitto) contenuta in ciascuna merce particolare è stata compensata (perfino sovracompensata) per mezzo dell'estensione assoluta della produzione - riempendo così il mondo di merci, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Ma con la fine della fase fordista si è esaurito l'ultimo modello basato sull'utilizzo massiccio di lavoro vivente. Da allora, le tecnologie, che sono capitale e lavoro morto - e che non creano affatto valore - assicurano l'essenziale della produzione in quasi tutti i campi. La massa assoluta del valore, e quindi del plusvalore, cade a picco. Questo mette in crisi tutta l'intera società basata sul valore - ma mette in crisi anche i lavoratori stessi. Non è più lo sfruttamento, ad essere il problema principale creato dal capitalismo, ma la massa crescente di esseri umani «superflui», vale a dire non necessari alla produzione, e quindi altrettanto incapaci di consumare. Dopo la sua lunga fase di espansione, dopo decenni il capitalismo si trova in contrazione, nonostante la «globalizzazione»: le persone, i settori, le regioni in grado di partecipare ad un ciclo «normale» di produzione e di consumo di valore, assumono sempre più l'aspetto di «isole» in una marea montante di emarginati che non servono nemmeno più ad essere sfruttati. Ed è vano rivendicare per loro del «lavoro», perché la produzione non ne ha affatto bisogno e sarebbe assurdo obbligare delle persone ad eseguire dei lavori inutili come condizione preliminare per la propria sopravvivenza. Bisognerebbe piuttosto rivendicare per ciascuno il diritto a vivere bene, indipendentemente dalla questione di sapere se egli sia riuscito, o meno, a vendere una forza lavoro che spesso nessuno vuole più.
Allora, perché il sistema capitalistico non è ancora completamente collassato? Ciò è stato soprattutto a causa della «finanziarizzazione», vale a dire della fuga nel «capitale fittizio» (Marx). Dopo che l'accumulazione reale è pressoché cessata, è stato il ricorso sempre più massiccio al credito che ha permesso di simulare il proseguimento dell'accumulazione. L'abbandono della convertibilità del dollaro in oro, avvenuto nel 1971, è stata una sorta di data simbolica. Quest'atmosfera di simulazione - si potrebbe dire, di virtualizzazione - si è quindi estesa a tutta la società intera. Ciò spiega l'ampia diffusione in tutti i campi degli approcci cosiddetti «postmoderni». Nella sfera del credito, i profitti futuri - attesi. ma che non arriveranno mai - vengono consumati in anticipo, e tengono in vita l'economia. Com'è noto, questi crediti, insieme alle altre forme di denaro fittizio (valori borsistici, prezzi immobiliari) hanno raggiunto delle dimensioni astronomiche ed alimentano una speculazione gigantesca che può avere delle terribili ripercussioni sull'economia «reale», com'è successo nel 2008. Ma la speculazione, lungi dall'essere la causa delle crisi del capitalismo e della crescente povertà, ha piuttosto aiutato per decenni a rimandare la grande crisi. La causa risiede nel fatto che tutte le merci e tutti i servizi addizionali rappresentano, benché il loro numero aumenti, una quantità sempre minore di valore. Questo implica il fatto che anche una grande percentuale del denaro in circolazione nel mondo è «fittizio», dal momento che non rappresenta del lavoro. Le «misure per lo stimolo» prese dai governi dopo la crisi del 2008 non sono altro che delle acrobazie contabili, dove si va ad aggiungere ancora uno zero a delle cifre che sono già del tutto fantastiche. Non potrà esserci nessuna nuova prosperità capitalistica, poiché le tecnologie che sostituiscono il lavoro non possono essere eliminate attraverso la produzione capitalista. Sarebbe altrettanto vano attendersi che la Cina, o altri «paesi emergenti» salvino il capitalismo: i loro presunti successi si basano in parte sull'aumento dei prezzi delle materie prime, ed in parte su delle esportazioni unilaterali verso i paesi ricchi che dureranno solo fino a quando quei paesi stessi riusciranno ancora a posporre la vera irruzione della crisi. Perciò, non si tratta di profetizzare un futuro collasso del capitalismo, ma di constare la crisi che è già in atto, e che continua ad aggravarsi, al di là delle brevi riprese congiunturali. E questa crisi non è solamente economica e quindi coinvolge ogni genere di convulsione: dalle guerre di nuovo tipo fino alle devastazioni delle psicologie individuali.
Quel che si richiede è quindi una critica radicale del capitalismo nel suo insieme, e non solo della sua fase neo-liberista. Un ritorno alla piena occupazione e alle ricette keynesiane (rilancio attraverso il consumo), un ruolo rilevante dello Stato e dello stato sociale di una volta non sono possibili: il loro abbandono non è stata la conseguenza di una cospirazione degli economisti neo-liberisti e dei capitalisti più rapaci, ma il risultato dell'esaurirsi della dinamica capitalistica nel suo insieme. Invocare una regolamentazione dei flussi finanziari, al fine di salvare l'economia «reale», e di rilanciare la crescita, in realtà non ha niente di realistico, è utopico, significa credere che il capitalismo mondiale possa prosperare indefinitamente. Il keynesiano vuole salvare l'economia «reale». Ma questa economia «reale» si basa sull'estrazione del plusvalore, vale a dire, sullo sfruttamento della forza lavoro. Non è così che si affronta il problema. In questo modo, non si tiene conto del processo di proletarizzazione e di dispossessamento degli individui, la cui abolizione implica l'abolizione delle relazioni sociali capitaliste, e ciò deve avvenire a livello globale. E inoltre un simile ripristino del capitalismo non sarebbe affatto auspicabile: il capitalismo dev'essere superato a partire dall'abolizione delle sue fondamenta, e non ritornando a delle forme di schiavitù e di alienazione che possono sembrare apparentemente più sopportabili. Il nazionalismo di un Melenchon, ad esempio, che propone una certa sovranità, uno Stato virtuoso, sembra ignorare che il sentimento nazionale, al giorno d'oggi, è stato costruito storicamente, e non si basa su una sorta di natura assoluta dell'uomo, bensì sul modo di produzione. In definitiva, è in nome di una «unità nazionale» interclassista, particolarmente favorevole alla piccola borghesia, al piccolo padronato, ad una classe media che gestisca la produzione, che ogni «cittadino» verrà chiamato a mobilitarsi attivamente in seno a simili movimenti. Le vecchie concezione dell'emancipazione sono entrate in crisi unitamente al capitale, dimostrando in tal modo la loro natura di «fratelli nemici».
A fronte di una simile constatazione, cosa rimane allora della rivoluzione, del cambiamento radicale, della rottura profonda? La sua necessità appare ancora essere un'esigenza fondamentale, e la sua realizzazione si presenta ancora più difficile di quanto lo fosse prima. Tranne rare eccezioni, il lavoro è santificato dappertutto, e viene considerato come se si trattasse di una forza da «liberare» (salvo che da parte di alcune avanguardie artistiche e letterarie). Piuttosto che di una critica della produzione del valore, si tratta di una critica di quella che è solo la sua distribuzione. Ed il suo scopo, esplicito o implicito, è quello di includere nella società di mercato strati sempre più grandi della popolazione. Alcuni vogliono arrivarci attraverso delle elezioni, o delle cooperative, mentre altri lo vogliono fare erigendo delle barricate, oppure fucilando gli avversari. Ma il loro orizzonte comune resta quello di una miglior gestione della società del lavoro. Abolire il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, viene presentato come se fosse l'intervento più radicale possibile - senza che venga messo in discussione quello che il mercato distribuisce. Se la produzione ha come compito quello di creare una quantità di valore che poi dev'essere scambiato sul mercato con altre quantità di valore - a prescindere dal fatto che questo sia anonimo oppure «pianificato» - tutto ciò comporta inevitabilmente la subordinazione degli operai alla logica della redditività. La fabbrica può essere benissimo autogestita, e così decidere, in piena libertà democratica, chi dev'essere licenziato, ma l'impresa deve rimanere «competitiva». Si tratta perciò, non tanto di «sconfiggere» il capitalismo, quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in atto, non porti a nient'altro che alla barbarie e alle rovine. I movimenti sociali diretti unicamente contro le banche, o contro la classe politica «corrotta», costituiscono una risposta del tutto insufficiente, in quanto scambiano il sintomo per la causa, riattivando così i vecchi stereotipi degli «onesti» lavoratori sfruttati da dei «parassiti», stereotipi che rischiano di degenerare nel populismo e nell'antisemitismo. Lo Stato non è mai stato l'avversario del capitale o del mercato, ma ha sempre preparato a loro favore le basi e le infrastrutture. Non è una struttura «neutra» che potrebbe essere messa al servizio dell'emancipazione. Lo Stato moderno - anche se i cittadini se ne riappropriassero - rimane sottomesso finanziariamente alla sfera del capitale, di cui esso è solo il gestore; e modificare le sue istituzioni, o la sua costituzione, in superficie, non cambierebbe questa dimensione. Lordon, in particolare, ma anche tutta una parte della sinistra e dell'estrema sinistra, non sembra prevedere questo fatto elementare. E questa critica dello Stato come sfera di decisione separata, deve resistere anche alla democrazia diretta. Sarà inevitabile uscire sia dal mercato che dallo Stato - quelli che sono i due poli feticizzati, adorati, della socializzazione attraverso il valore - per poter arrivare un giorno a stabilire un vero e proprio accordo diretto fra i membri della società. Una società post-capitalista non farà dipendere il suo destino da degli automatismi incontrollabili, da delle astrazioni mortifere, come il lavoro ed il suo valore.
La questione adesso è sapere come reagire alla rovina generale prodotta dal collasso della produzione del valore. Come fare a proteggere le iniziative ed i tentativi che nascono un po' dappertutto, e che si propongono di costruire dei rapporti sociali che non siano più basati sul mercato e sul lavoro? Come riuscire a difenderli contro la feroce volontà, così frequente, di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere ancora un po' in mezzo ai disastri sempre più frequenti, perfino a costo di dover commettere i peggiori crimini?
Bisogna conquistare la nostra autonomia, non proclamando l'unità della classe, ma attaccando tutto ciò che ci divide in classi. Contro un nazionalismo che mantiene quelli che sono i rapporti neocoloniali di produzione, in seno alla divisione internazionale del lavoro, va riaffermata la necessità di una lotta internazionale che attacchi tutto ciò che divide il mondo in nazioni, fra cittadini da una parte e stranieri dall'altra. Anziché opporre «economia reale» e «finanza», ci si deve rendere conto che è l'economia cosiddetta «reale» a trovarsi in una crisi permanente, e che la finanza serve a controbilanciare le causa della crisi: la valorizzazione del capitale. Dietro la denuncia della sola finanza mondiale, rapidamente si finisce per cominciare a riconoscere un complotto, una volontà oscura, una concezione che nega il processo materiale di dominio e che ben presto sviluppa dei temi antisemiti, anche se la sinistra nega tutto questo. Se si deve parlare di categoria culturale, di identità nazionale, o di musulmani, allora questo va fatto per attaccare tutto ciò che costituisce materialmente tali categorie, per attaccare quello che ci divide, e non certo per riaffermare quelli che sono dei valori tradizionali patriarcali e razzisti, o addirittura per rinsaldare l'unità nazionale intorno ad un capro espiatorio. Il capitalismo - che sia «nazionale» o «globale», «dal volto umano» o «selvaggio» - rimane intrinsecamente un sistema funzionalista ed industriale strutturalmente patriarcale ed anti-ecologico, al di là di quella che può essere ogni «ristrutturazione» di facciata.
Assai spesso, questi riformisti - che si immaginano «radicali» - faranno passare le loro «riforme radicali», che non hanno niente di un anticapitalismo conseguente, per degli slanci rivoluzionari, che in realtà non sono altro che un alter-capitalismo ancora più ipocrita e contraddittorio, che invece sembra detenere il monopolio della critica e dell'alternativa. Ma noi vogliamo molto di più che gestire lo sfruttamento, non ricorriamo a dei concetti morali che non fanno altro che mascherare quelle che sono le nostre divisioni nel contesto di questo sfruttamento. Noi stiamo attaccando queste stesse divisioni, stiamo attaccando la società di classe, in un processo in cui mettiamo in comune, comunizziamo.
- Guillaume Deloison - 11 agosto 2018 -
fonte: Guillaume Deloison - Broyer du concept pour bouger les systèmes -
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