L’assenza della prima pagina
- di Alberto Manguel -
Nel XVI secolo, fra gli studiosi eruditi ebrei, presero forma quelli che erano due modi diversi di leggere la Bibbia. Una, cresciuta intorno alle scuole sefardite della Spagna e del Nord Africa, che preferiva riassumere il contenuto di un passaggio senza analizzarne i dettagli che lo componevano, concentrandosi in tal modo sul senso letterale e grammaticale. L'altra, invece aveva avuto origine nelle città aschenazite, che potevano essere localizzate soprattutto in Francia, in Polonia e nei paesi della Germania, la quale analizzava ciascun verso ed ogni parola, cercando nel testo tutti i sensi possibili. Kafka apparteneva a quest'ultima tradizione.
Dato che il fine dei talmudisti aschenaziti era quello di esplorare e chiarire il testo a tutti i livelli di significato concepibili, per poi discuterne i diversi commenti, e quindi tornare al testo originale, ecco che la letteratura talmudica - come conseguenza di tutte le letture svoltesi precedentemente - divenne una successione di testi che si auto-generavano e che sviluppavano così letture che non sostituivano, ma che bensì includevano, tutte quelle precedenti.
Quando leggeva, il talmudista aschenazita in genere usava quattro simultanei livelli di significato, differenti rispetti a quelli proposti da Dante. I quattro livelli venivano designati mediante l'acronimo "PaRDeS": lo "Pshat", o senso letterale, il "Remez", o senso limitato, il "Drash”, o elaborazione razionale e il "Sod", o significato occulto, segreto, mistico. Pertanto, leggere era un'attività che non arrivava mai ad essere completa.
A Leví Yitzhak di Berdichev, uno dei grandi maestri chassidici del XVIII secolo, venne chiesto perché mai mancasse la prima pagina di ciascuno di quelli che erano i trattati del Talmud babilonese, cosa che obbligava il lettore ad iniziare a leggere partendo dalla seconda pagina.
« Affinché lo studioso,» - rispose il rabbino - « per molte delle pagine che legge, non debba dimenticare che non è ancora arrivato alla prima pagina ».
[...]
Ernst Pawel, alla fine della sua lucida biografia di Kafka, scritta nel 1984, osserva che «gli studi su Kafka e sulla sua opera comprendono attualmente circa 15.000 titoli scritti in molte delle più importanti lingue del mondo». Kafka è stato letto in maniera letterale, allegorica, politica, psicologicamente. Il fatto che le letture superino sempre in numero i testi che le hanno originate è un'osservazione banale; tuttavia, il fatto che un lettore si disperi mentre l'altro ride leggendo la stessa pagina, ci rivela qualcosa della natura creativa dell'atto di leggere. Mia figlia Rachel ha letto La Metamorfosi quando aveva 13 anni, e gli sembrò un'opera comica; Gustav Janouch, l'amico di Kafka, la lesse come una parabola religiosa ed etica; Bertolt Brecht l'ha letta come l'opera dell'«unico scrittore che fosse veramente bolscevico»; il critico ungherese György Lukács, come un tipico prodotto di una borghesia decadente; Borges, come una nuova versione dei paradossi di Zenone; la studiosa francese Marthe Robert l'ha letta come un esempio dell'idioma tedesco spinto fino al suo più alto grado di chiarezza; e Vladimir Nabokov lo ha letto (in parte) come un'allegoria dell'Angst [paura, angoscia] adolescenziale. Il fatto è che le storie e i racconti di Kafka, nutriti dalla sua esperienza di lettore, offrono e sottraggono, allo stesso tempo, l'illusione di comprendere; minacciano e compromettono, per così dire, l'abilità dello scrittore Kafka nel riuscire a soddisfare il lettore Kafka. Sette anni dopo che Kafka era morto in un sanatorio vicino Vienna, il poeta portoghese Fernando Pessoa scrisse nella propria Autopsicografia che «il poeta è un fingitore». E poi aggiunse: «E quanti leggono ciò che scrive / nel dolore letto sentono / non quello che il poeta vive / ma solo quello che non hanno».
« In generale,» - scriveva Kafka nel 1904 al suo amico Oskar Pollak - «credo che dobbiamo leggere solo libri che ci mordano e ci graffiano. Se il libro che stiamo leggendo non costringe a svegliarci come se fosse un colpo al cranio, perché disturbarci a leggerlo? Perché ci faccia felici, come dici tu? Santo cielo, saremmo lo stesso ugualmente felici anche se non avessimo alcun libro! I libri che ci rendono felici potremmo scriverceli da soli, se non avessimo scelta. Ciò di cui abbiamo bisogno sono libri che ci colpiscano come una dolorosa disgrazia, come se fosse la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, libri che ci facciano sentire come se fossimo stati banditi nella giungla più remota, il più lontano possibile da qualsiasi presenza umana, qualcosa che assomigli al suicidio. Un libro dev'essere l'ascia che spacca il mare ghiacciato che abbiamo dentro. È questo che penso.»
- Alberto Manguel - da "Una storia della lettura" -
fonte: Calle del Orco. Blog de Literatura. Grandes encuentros
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