Che la guerra di Troia sia stata combattuta è certo. Dove, è altrettanto pressoché accertato e pure che sia proseguita a lungo, sebbene non dieci anni esatti. Quello che si può escludere è che le ragioni del conflitto abbiano avuto a che fare con la bellezza di una donna. Uno studioso americano, l’accademico Eric H. Cline, ha condotto ricerche storico-filologiche e archeologiche, riassunte in un volumetto, “La guerra di Troia”, pubblicato in Italia dalla casa editrice milanese Ulrico Hoepli, ad agosto 2018 (128 pagine, XIV cartine, 14.90 euro). [...] Il prof. Cline è a capo del dipartimento di lingue e civiltà classiche e del vicino Oriente della George Washington University. Dirige inoltre il Capitol Archaeological Institute e gli scavi archeologici in Israele, a Megiddo, l’Armageddon citata nell’Antico testamento. È un esperto di storia e reperti dell’antica Palestina, di Gerusalemme e del Medio Oriente.
Questo lavoro, spiega in riferimento al suo studio su Troia, è una breve introduzione a quell’epico conflitto, inquadrato nella sua realtà, a prescindere dalla letteratura omerica e dagli scavi di Hissarlik. Si basa sui materiali di un seminario tenuto per diversi anni a Washington. Sgombriamo il campo da una suggestione, per quanto estremamente affascinante: le ostilità non vennero scatenate dalla gelosia per la “donna più bella del mondo”, ma da un più prosaico e poco poetico conflitto di interessi economici.
La popolarità della trama omerica, che ha scavalcato poco meno di tremila anni, sta nella semplicità dei temi trattati: amore e guerra, viltà e coraggio, buoni e cattivi sentimenti, in una vicenda corale, leggendaria, affollata da protagonisti eccellenti, da uno stuolo di validi comprimari, comparse e divinità rivali in lotta tra loro, a danno dei mortali. Una specie di colossal dell’antichità.
Si è trattato in effetti della prima e più importante grande favola mondiale. Non a caso, è legata alla mitologia greca, ossia al racconto del mythos, che non vuol dire altro che “racconto”, appunto o anche “storia”. Ma quanto del mythos omerico corrisponde a qualcosa di vero, tra luoghi e personaggi?
Per Greci e Romani la guerra di Troia era stata un evento reale e punto di svolta nella storia. Erodoto la collocava tra il 1334 e il 1135 a.C, in base a prove molto labili. Altri dicevano: “mille anni prima di Alessandro Magno”, “ottocento prima di Erodoto”. Alla fine fu accettata la datazione di Eratostene, 1184 a.C. sempre basata su pure ipotesi.
In Occidente si cominciò a pensare che la vicenda avesse un fondamento storico solo quando l’archeologo e grecista appassionato Heinrich Schliemann dichiarò nella seconda metà del 1800 di aver localizzato il sito di Troia, negli scavi di Hissarlik, in Turchia. In turco il toponimo significa in effetti “il luogo della fortezza”.
La storia della guerra di Troia ha affascinato per secoli e dato origine a una produzione incalcolabile di ogni genere. Negli Stati Uniti ci sono trentatré stati con città che si chiamano Troy e una decina di team sportivi di college e università si fanno chiamare “Trojans”. Ma quanto narrato da Omero è attendibile? È un racconto basato su eventi reali e protagonisti veramente esistiti? Può essere sbarcato in Anatolia l’equivalente antico dell’intera nazione greca? Singole azioni, situazioni e oggetti descritti nell’Iliade e nell’Odissea, sono attendibili sul piano storico? La ricerca incessante di risposte a queste domande rende l’indagine sulla guerra di Troia molto viva e affascinante ancora oggi, a più di tremila anni da quella data, pur sempre presunta. Tuttavia, a dispetto di una storia affascinante ma tutto sommato semplice, un libro sulla guerra di Troia non è invece affatto elementare. L’autore lo riconosce oggettivamente e nell’introduzione ammette che la lettura del pur breve testo potrebbe risultare comunque impegnativa. Il saggio è obbligato a rispettare esigenze di dettaglio e precisione che potrebbero averlo appesantito, perché il racconto della storia di Omero è solo la punta dell’iceberg, va detto. Tanto le fonti greche che quelle ittite documentano più di una guerra di Troia e questo costringe a stabilire se una di queste e quale sia stata la guerra di Omero.
Inoltre, considerata la stratificazione di nove città costruite una sull’altra sullo stesso sito di Hissarlik, si deve decidere quale sia stata la Troia di Priamo, ammesso che una di queste sia stata la splendida Ilio.
Cline mette al corrente delle testimonianze letterarie e archeologiche che ricorrono sul conflitto e non trascura l’Eneide di Virgilio, alla base della nostra cultura con l’Iliade e l’Odissea.
(- Felice Laudadio - dal sito SoloLibri, 10/12/2018 )
Darwin combatteva a Troia
- di Sandro Modeo -
Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.
Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.
Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno tre-quattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).
È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.
Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.
La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).
L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.
Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.
In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).
La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.
Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).
Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.
Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.
- Sandro Modeo - Pubblicato sulla Lettura del 24/2/2019 -
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