sabato 9 febbraio 2019

Tentazioni

Il 18 gennaio 2001, su proposta del Collegio Siciliano di Filosofia, il Sindaco di Siracusa, Giambattista Bufardeci, conferiva la cittadinanza onoraria a Jacques Derrida. In quella memorabile occasione il filosofo franco-algerino tenne una conferenza dal titolo Tentazione di Siracusa, pertinente metafora che evoca i cattivi rapporti intercorsi tra filosofia e politica che, a partire dai ricorrenti viaggi di Platone nella città siciliana, hanno scandito il tema della ricerca permanente della fondazione legittima del potere. Nel suo discorso, pronunciato in una città simbolo del Mediterraneo, Derrida indicava lucidamente alcune questioni - la crisi dello Stato-nazione, il tema della cittadinanza, delle frontiere, dell'ospitalità, del diritto d'asilo, dell'immigrazione, fra le altre - che, in forma ancor più drammatica, dopo l'11 settembre, inquietano la nostra attuale condizione. Postfazioni di Elio Cappuccio e Roberto Fai.

(dal risvolto di copertina di: "Tentazione di Siracusa", di Jacques Derrida. Editore: Mimesis)

Straniero, ma cittadino di Siracusa
- di Jacques Derrida -

   Perché sono venuto a Siracusa? Senz'altro per rispondere ad un invito che mi onora e mi emoziona profondamente, anche se non sono sicuro di esserne degno. Ma sono venuto a Siracusa per dirvi, sotto giuramento, e in segno di riconoscenza: “Giuro che sono innocente!”. Innocente di cosa? Si noti che dico proprio innocente e non dico nudo, benché si associ spesso l’innocenza alla nudità, cioè alla verginità, all’età dell’oro del paradiso terrestre. Sono innocente, ma lo confesso non sono nudo.
    Evito innanzitutto di parlare di nudità affinché non mi si accusi di esibizionismo. Evito soprattutto di pretendermi nudo affinché non si sospetti neanche lontanamente che io imiti il vostro Archimede.
    Lo vedo sempre nudo il vostro Archimede. È come un’allucinazione. Cammino dietro di lui, lo seguo per strada, lo rivedo nudo nell’episodio della corona d’oro o d’argento di Gerone, re di Siracusa. Uscendo dal suo bagno, dopo aver scoperto il principio che porta il suo nome, vale a dire che il corpo immerso nell’acqua era più leggero che sulla terra, esclamò, il vostro immenso antenato, correndo svestito per la strada: “Eùreka! Eùreka!”. Ma senza identificarmi in lui, purtroppo, provo nondimeno, nel cuore della mia allucinazione, questa vergogna di cui Freud ci ha molto parlato nella Traumdeutung, a proposito dei sogni di nudità. Sogniamo di essere nudi, e il più delle volte, sottolinea Freud con molta insistenza, è da parte di estranei che siamo osservati. Che siano estranei e che sembrino spesso indifferenti a questa situazione imbarazzante “dà da pensare” , dice Freud. Forse all’ospitalità e alla politica.
    Lo spettro di Platone - dopo Archimede è la mia seconda allucinazione, la mia seconda visione di Siracusa - non mi ha mai ossessionato in modo così pressante nel corso della mia vita, credetemi. Ma è più presente a Siracusa che non Socrate ad Atene. Lo incrocio qui in un paesaggio che mi è più vicino rispetto a quello della Grecia. Perché contrariamente a ciò che alcuni di voi potrebbero pensare, non vengo dal nord. Non vengo da Parigi, ma dal sud della Sicilia. Vengo da Algeri dove sono nato e che non avevo ancora lasciato (lo feci solo sei anni dopo) quando sentii parlare di Siracusa per la prima volta in vita mia. Era un momento storico, un evento già o ancora storico, perché è nei pressi di Siracusa che la pace si annunciò, nel settembre del 1943, quando proprio qui venne firmato il primo armistizio che preparava la fine della seconda guerra mondiale.
    Non posso più, da quella data, separare il nome di Siracusa da ciò che somiglierà sempre a una promessa di pace. Siracusa è finalmente la pace! Siracusa, la terra promessa della pace!
    La molteplicità dei retaggi mediterranei (quello fenicio, bizantino, italiano, greco, arabo, spagnolo, normanno, pagano, ebreo, cristiano, musulmano) è questa profusione cosmopolita della memoria che respiravo già in Algeria e che sono così felice di riconoscere qui, come a casa mia e grazie a voi. Le affinità della natura e del paesaggio servono pure questa grazia di parentele simboliche. Come se tra la Sicilia a l’Algeria ci fosse, come tra la Sicilia e l’Italia, solo uno stretto.
    Perché un filosofo di professione si sente sempre accusato, denunciato, pieno di vergogna, politicamente colpevole? Ebbene, ecco la mia ipotesi: tra le altre ragioni, da sempre (e sempre, per la filosofia, significa da Platone in poi), da sempre lo si accusa di amare il potere e di non confessare il gusto del potere che lo rode in segreto e anche di questa forma particolarmente potente e perversa del potere che consiste nel non esercitarlo direttamente ma nel manipolarlo, delegandovi gli imperatori (nudi o meno), i sovrani, i re, i potenti, cioè i tiranni di questo mondo. Noi, i filosofi, comanderemmo tutti questi sovrani attraverso i nostri consigli, le nostre teorie politiche, i nostri progetti di costituzione, la nostra saggezza e il sapere che si presuppone noi abbiamo circa le leggi, la storia, la destinazione e persino la felicità degli uomini.
    Questa fu la tentazione di Platone, come sapete, e seguendo il suo paradigma soprannominerò “tentazione di Siracusa” qualsiasi esperienza di questo tipo: un filosofo crede di essere qualificato per illuminare con i suoi consigli politici un’arte o un potere di governare; si sente chiamato da un potente, dall’imperatore, dal sovrano, dal re, dal principe o dal tiranno, dal capo di Stato o dal dittatore, il Duce o il Führer, dal Presidente o dal Segretario generale del partito, di una Causa o di un Sindacato. Vengo a Siracusa senza una tale tentazione.
    Eccoci dunque, dopo millenni, spinti dall’erranza o dall’errore di Platone, dal suo passaggio sfortunato da Siracusa, verso l’ordine del pianeta terra, verso l’ordine del planetario, verso la deterritorializzazione del politico, verso la mondializzazione, verso il diritto internazionale, verso la crisi della sovranità che ci obbligano oggi ad abbandonare l’orbita della filosofia politica di tradizione platonica. Ciò di cui abbiamo bisogno ora è di un’altra figura, di un’alleanza tra la filosofia e la politica. Essa non avrebbe più la forma del consiglio dato da un filosofo illuminato, certo del suo sapere, ad un uomo politico o cittadino docile perché sprovvisto di competenza teorica. Più che mai l’esercizio del politico richiede un’esperienza filosofica, si confonde persino con essa, dal momento che bisogna pensare a ciò che accade oggi al politico stesso, a ciò che non è più legato all’iscrizione del politico in uno Stato-nazione esso stesso radicato in un territorio, a ciò che accade all’autoctonia che era essenziale alla filosofia greca della pòlis e della cittadinanza, a ciò che sopraggiunge allo spazio pubblico oggi messo sottosopra dai poteri mediatici e telecomunicativi internazionali, a ciò che affligge e rovescia il diritto internazionale europeo, laddove la sovranità è rimessa in questione – ad un tempo dalle concentrazioni dei poteri capitalistici e da nuove forme di giustizia internazionale e da tribunali penali universali.
    Una nuova era della cittadinanza cosmopolita si annuncia e forse anche nuove leggi di solidarietà, nuove leggi d’ospitalità internazionale: una nuova ospitalità per lo straniero, per lo xénos divenuto fìlos, un’ospitalità che sarebbe più cosmopolita, più che platonica e anche paolina e kantiana, laddove il cosmopolita continua a far segno verso un modello antico di cittadinanza, la cittadinanza di ieri ancora legata all’autoctonia, alla nazione, alla nascita, alla fraternità, alla lingua, alla religione e al luogo della sepoltura, alla terra e al sangue.
    Penso ad una democrazia a venire che faccia segno al di là del concetto classico di cittadinanza e dunque di Stato-nazione, e dunque di luogo. Forse anche al di là di ogni concetto tradizionale di cittadinanza, se almeno la cittadinanza restasse ancora legata ad uno Stato-nazione determinato, esso stesso radicato nella stabilità insostituibile di un territorio e di un idioma. È un’esperienza inedita, inaudita dell’ospitalità, del diritto d’asilo e delle frontiere che si prepara così attraverso un’esperienza e un pensiero della tecnica.
    Dal momento che credo alla storicità non naturale di tutti i concetti non caduti all’improvviso da un cielo intelligibile, come in Platone, l’innocente che sono si chiede se l’attribuzione di una cittadinanza onoraria a uno straniero non sia un pegno dato a quest’avvenire.
    Dal fondo del cuore, grazie

- Jacques Derrida - traduzione di F. Garritano e M. Machì -

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