giovedì 28 febbraio 2019

Scardinare il mondo intero

È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo. In questo libro, dove traccia le linee del proprio pensiero, tra esistenzialismo radicale e nuovo anarchismo, Donatella Di Cesare riflette sul rientro della filosofia nella pólis, divenuta metropoli globale. Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.

(dal risvolto di copertina di: Sulla vocazione politica della filosofia, di Donatella di Cesare. Bollati Boringhieri)

Donatella Di Cesare, il nuovo libro: la sfida della filosofia militante
- di Luciano Canfora -

Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano. Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (…) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei centri motori — insieme ai «casi» Marx e Heidegger — del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno. A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire». Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone — superamento della proprietà, della famiglia etc. — sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come — diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione — in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché — afferma — quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo — dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) – Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E). Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che — dopo reiterate sconfitte — «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti. E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano. Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj — il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante — diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.

- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 23/10/2018 -

mercoledì 27 febbraio 2019

Fra Uomini e Leoni

Che la guerra di Troia sia stata combattuta è certo. Dove, è altrettanto pressoché accertato e pure che sia proseguita a lungo, sebbene non dieci anni esatti. Quello che si può escludere è che le ragioni del conflitto abbiano avuto a che fare con la bellezza di una donna. Uno studioso americano, l’accademico Eric H. Cline, ha condotto ricerche storico-filologiche e archeologiche, riassunte in un volumetto, “La guerra di Troia”, pubblicato in Italia dalla casa editrice milanese Ulrico Hoepli, ad agosto 2018 (128 pagine, XIV cartine, 14.90 euro). [...] Il prof. Cline è a capo del dipartimento di lingue e civiltà classiche e del vicino Oriente della George Washington University. Dirige inoltre il Capitol Archaeological Institute e gli scavi archeologici in Israele, a Megiddo, l’Armageddon citata nell’Antico testamento. È un esperto di storia e reperti dell’antica Palestina, di Gerusalemme e del Medio Oriente. Questo lavoro, spiega in riferimento al suo studio su Troia, è una breve introduzione a quell’epico conflitto, inquadrato nella sua realtà, a prescindere dalla letteratura omerica e dagli scavi di Hissarlik. Si basa sui materiali di un seminario tenuto per diversi anni a Washington. Sgombriamo il campo da una suggestione, per quanto estremamente affascinante: le ostilità non vennero scatenate dalla gelosia per la “donna più bella del mondo”, ma da un più prosaico e poco poetico conflitto di interessi economici. La popolarità della trama omerica, che ha scavalcato poco meno di tremila anni, sta nella semplicità dei temi trattati: amore e guerra, viltà e coraggio, buoni e cattivi sentimenti, in una vicenda corale, leggendaria, affollata da protagonisti eccellenti, da uno stuolo di validi comprimari, comparse e divinità rivali in lotta tra loro, a danno dei mortali. Una specie di colossal dell’antichità.
Si è trattato in effetti della prima e più importante grande favola mondiale. Non a caso, è legata alla mitologia greca, ossia al racconto del mythos, che non vuol dire altro che “racconto”, appunto o anche “storia”. Ma quanto del mythos omerico corrisponde a qualcosa di vero, tra luoghi e personaggi?
Per Greci e Romani la guerra di Troia era stata un evento reale e punto di svolta nella storia. Erodoto la collocava tra il 1334 e il 1135 a.C, in base a prove molto labili. Altri dicevano: “mille anni prima di Alessandro Magno”, “ottocento prima di Erodoto”. Alla fine fu accettata la datazione di Eratostene, 1184 a.C. sempre basata su pure ipotesi. In Occidente si cominciò a pensare che la vicenda avesse un fondamento storico solo quando l’archeologo e grecista appassionato Heinrich Schliemann dichiarò nella seconda metà del 1800 di aver localizzato il sito di Troia, negli scavi di Hissarlik, in Turchia. In turco il toponimo significa in effetti “il luogo della fortezza”. La storia della guerra di Troia ha affascinato per secoli e dato origine a una produzione incalcolabile di ogni genere. Negli Stati Uniti ci sono trentatré stati con città che si chiamano Troy e una decina di team sportivi di college e università si fanno chiamare “Trojans”. Ma quanto narrato da Omero è attendibile? È un racconto basato su eventi reali e protagonisti veramente esistiti? Può essere sbarcato in Anatolia l’equivalente antico dell’intera nazione greca? Singole azioni, situazioni e oggetti descritti nell’Iliade e nell’Odissea, sono attendibili sul piano storico? La ricerca incessante di risposte a queste domande rende l’indagine sulla guerra di Troia molto viva e affascinante ancora oggi, a più di tremila anni da quella data, pur sempre presunta. Tuttavia, a dispetto di una storia affascinante ma tutto sommato semplice, un libro sulla guerra di Troia non è invece affatto elementare. L’autore lo riconosce oggettivamente e nell’introduzione ammette che la lettura del pur breve testo potrebbe risultare comunque impegnativa. Il saggio è obbligato a rispettare esigenze di dettaglio e precisione che potrebbero averlo appesantito, perché il racconto della storia di Omero è solo la punta dell’iceberg, va detto. Tanto le fonti greche che quelle ittite documentano più di una guerra di Troia e questo costringe a stabilire se una di queste e quale sia stata la guerra di Omero.
Inoltre, considerata la stratificazione di nove città costruite una sull’altra sullo stesso sito di Hissarlik, si deve decidere quale sia stata la Troia di Priamo, ammesso che una di queste sia stata la splendida Ilio.
Cline mette al corrente delle testimonianze letterarie e archeologiche che ricorrono sul conflitto e non trascura l’Eneide di Virgilio, alla base della nostra cultura con l’Iliade e l’Odissea.

(- Felice Laudadio - dal sito SoloLibri, 10/12/2018 )

Darwin combatteva a Troia
- di Sandro Modeo -

Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.
Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.
Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno tre-quattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).
È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.
Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi. La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).
L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.
Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.
In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).
La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.
Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).
Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.
Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.

- Sandro Modeo - Pubblicato sulla Lettura del 24/2/2019 -

martedì 26 febbraio 2019

Propaganda

Ebreo americano, figlio di rifugiati europei scampati alla Seconda guerra mondiale, Jason Stanley parte da uno spunto autobiografico per porsi una domanda cruciale: perché la logica del «Noi contro Loro», alla base di tutti gli autoritarismi, è diventata non soltanto il segno distintivo della politica dei fascismi europei degli anni Trenta, ma anche un concetto così seducente nelle democrazie liberali in ogni parte del mondo?
Pensare agli Stati Uniti di Donald Trump è immediato, ma non è l’unico caso. Stanley, conscio del rischio delle generalizzazioni, ma convinto che il tempo in cui viviamo le renda necessarie, sceglie l’etichetta «fascismo» per identificare le diverse forme di ultranazionalismo, incarnate in un leader autoritario, diffuse in varie parti del pianeta, e ne identifica i tratti distintivi, ricorrenti, dalla strumentalizzazione di un passato mitico all’uso spregiudicato della propaganda, dalla criminalizzazione delle minoranze al culto del patriarcato e della virilità.
Se la prospettiva del suo lavoro è storica, analitica, l’intenzione è militante: un alert sull’America di Donald Trump (e non solo), tanto più appassionato quanto più radicato nella biografia di un intellettuale che ha sperimentato sulla propria pelle le insidie, i pericoli e gli esiti tragici che ogni forma di fascismo porta con sé. Riconoscerne i segnali, le strategie, le trappole mentali, dice Stanley, è un primo fondamentale passo per arginarne gli effetti più disastrosi.

(dal risvolto di copertina di: "Noi contro loro. Come funziona il fascismo", di Jason Stanley. Solferino)

I nipotini di Lindbergh: razzisti, sovranisti, nazionalisti
Luciano Canfora

Nel 2018 Jason Stanley, figlio di genitori fuggiti dal Terzo Reich, ha pubblicato un libro importante che, per una scelta quanto mai tempestiva, viene ora diffuso in lingua italiana: How Fascism WorksCome opera il fascismo»), nell’edizione italiana Noi contro loro. Come funziona il fascismo (Solferino). Non è frutto del caso se, nella primavera scorsa (quando si erano appena palesate le macerie del nostro sistema politico conseguenti alle elezioni del 4 marzo), La nave di Teseo aveva ripubblicato lo scritto di Umberto Eco Il fascismo eterno (apparso dapprima nel 1997), che sviluppava concetti analoghi. Si tratta di libri salutari. Liquidano il sussiegoso cinguettio degli stenterelli (per dirla col Carducci) i quali sogliono increspare la fronte ogni volta che qualcuno dice l’ovvio; che cioè la pulsione fascistica non si è mai estinta e che, nel mondo attuale, è daccapo all’offensiva: dall’esaltatore dei propri genitali (Donald Trump) all’ostentatore di divise paramilitari (Matteo Salvini).
In realtà, mentre lo scolasticismo donferrantesco ci spiega che il fascismo non è né sostanza né accidente (e dunque non esiste), la situazione è sempre più seria. Diamo un’idea sommaria delle considerazioni da cui prende avvio il libro di Stanley. Parte dal trasvolatore atlantico Charles Lindbergh che capeggiò — già prima della Seconda guerra mondiale — un comitato intitolato America First, schierato a favore della Germania nazista, assunta come modello positivo. Il credo di Lindbergh fu così espresso: «È ora di ricostruire i nostri baluardi bianchi! Questa alleanza con razze straniere segnerà la nostra morte. È giunto il momento di preservare la nostra identità prima di essere inghiottiti da uno sconfinato mare straniero!». Tra le «razze» che minacciavano — nella fantasia malata di quest’uomo — l’eredità genetica degli americani «bianchi» venivano elencati i «mongoli», i «persiani», e ovviamente i «neri». «Nel 2016 — prosegue Stanley — Donald Trump diede nuovo slancio all’espressione America First, e fin dalla prima settimana successiva al suo insediamento irrigidì le norme sull’ingresso negli Stati Uniti». Non va dimenticato che Ku Klux Klan e nazisti americani sono stati tra i sostenitori di Trump alle elezioni. In Italia, i manifesti elettorali del piccolo movimento denominato Fratelli d’Italia recavano, sin dall’inizio del 2018, analogo precetto: «Prima gli italiani!». Dopo di che, la mutazione viscerale avvenuta nel nostro Paese — la trasformazione, cioè, della Lega padanocentrica in Movimento sociale italiano di massa — ha visto prontamente la neo-Lega far proprio quello slogan postmissino: «Prima gli italiani!». Concetto pedestre — in verità —, che stava a fondamento anche della «Difesa della razza» mussoliniana.
Sulla rivista recante quel titolo, nata con le leggi razziali del 1938, campeggiava, in copertina, una spada (un ridicolo gladio romaneggiante) che separava un bianco iperapollineo da «ceffi» neri, gialli e nasuti «semiti».

Raffinato come sempre, Trump ha urlato, in un comizio pronunciato nei pressi dell’edificando «muro» verso il Messico, che i latinos «sono animali». Quanto al «muro» — che comunque è già da tempo in costruzione —, si potrebbe ipotizzare, stante anche l’enormità del fenomeno, che, a imitazione del kennediano «Io sono un berlinese!», un Emmanuel Macron, capo della maggiore potenza facente parte dell’Ue, si rechi al confine Usa-Messico e dica: «Io sono un messicano!» (o anche «un peruviano»…). Ma ovviamente non lo farà. Scatta il senso di sudditanza che paralizza la semi-Europa raccolta sotto la sigla Ue di fronte al megafascismo statunitense. «Un fascismo americano sarebbe “democratico”» prevedeva l’esule Bertolt Brecht nel suo Diario al principio del 1942. Non sappiamo se si riferisse anche alle leggi Jim Crow che — ricorda Stanley in questo suo notevole libro — «tra le altre cose, ostacolavano il diritto di voto dei neri negli Stati del Sud». Ma il fenomeno non è solo italo-trumpiano. Il partito tedesco Alternative für Deutschland pensa e predica le stesse cose e così l’incombente Front National francese, mentre i clericofascisti polacchi e i fascistoidi ungheresi hanno già messo in pratica questo credo vecchio-nuovo («eterno» diceva Eco con espressione intenzionalmente estrema). «Eterno», perché fa appello al peggio dell’Es, all’egoismo animale, il cui correttivo, di faticosa attuazione, è l’acculturazione, cioè la fuoriuscita dallo stato istintuale-animale.

Non sono constatazioni suscitate dall’esperienza odierna: Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich, scritto tra il 1930 e il 1933, aveva delineato lucidamente i fenomeni principali che Stanley descrive. (Reich, fuggito dal Terzo Reich come i genitori di Stanley, morì in un carcere statunitense nel 1957). «Tutti gli americani — scrive Stanley — dovrebbero essere preoccupati del fatto che, in veste sia di candidato sia di presidente, Donald Trump ha pubblicamente ed esplicitamente insultato specifici gruppi di immigrati». «Le politiche fasciste — osserva — puntano a disumanizzare le minoranze». Infatti, «il sintomo più palese delle politiche fasciste è la divisione, il separare la popolazione tra noi e loro». Stanley, a questo punto, in un breve inciso del suo ragionamento, pone sullo stesso piano la contrapposizione di razza e quella di classe (affermata, al suo sorgere, dal comunismo).
È un paragone che fu prospettato anche dallo studioso tedesco Ernst Nolte, e che però prescinde dalla lontananza abissale tra le due concezioni, nonché dal fatto ben noto che sin dal suo sorgere (conferenza di Baku del 1920) il Comintern fece della lotta di liberazione dei popoli coloniali e dell’antirazzismo la sua bandiera. (La definizione dell’antisemitismo come «cannibalismo» è di Stalin). La polarità noi/loro diventa omicida (potenzialmente omicida), soprattutto quando si basa su fenomeni di tipo animale come la cosiddetta razza (un cui sinonimo «colto» è la «identità»). Bene Stanley individua i fattori scatenanti della pulsione fascistica, in primis «il vittimismo tra coloro che appartengono al gruppo dominante»: «Ci tolgono il lavoro! Ci molestano le donne! Mangiano senza lavorare!». E, alla fine, qualcuno li brucia: dalla Calabria alla Germania del Nord. «Noi siamo lavoratori onesti e abbiamo guadagnato un posto nella società con la fatica e grazie ai nostri meriti. Loro sono pigri, vivono alle spalle di noi virtuosi sfruttando la generosità del welfare o l’aiuto di istituzioni corrotte come i sindacati. Noi facciamo, loro prendono». Questa è la propaganda che anche in Italia è ormai salita sugli scranni più alti del governo nazionale. Umberto Eco, nel suo saggio del 1997, delineò le fattezze di quello che chiamò «UrFascismo», cioè fascismo primigenio e primordiale. «L’Ur-Fascismo — scrisse Eco — scaturisce dalla frustrazione individuale e sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica»; inoltre — osservò — «a coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso Paese». Libri come questi, di Stanley e di Eco, ben vengano: aiutano a diradare le ritornanti tenebre, foriere, come si sa, di mostri.

- Luciano Canfora - Pubblicato sul Corriere del 23 febbraio 2019 -

lunedì 25 febbraio 2019

É il capitalismo, bellezza!

La «crisi finanziaria» è una crisi del modo produzione capitalista
- Tesi di Norbert Trenkle -

1.
Le cause dell'attuale crisi economica non vanno ricercate nella speculazione, né nell'indebitamento. D'altra parte, possiamo constatare come la gigantesca espansione dei mercati finanziari sia l'espressione di una profonda crisi del lavoro e della valorizzazione del capitale, le cui origini risalgono ad almeno trent'anni fa.

2.
Dopo il crollo dei mercati finanziari del 2008, rimproverare agli «speculatori» ed ai «banchieri» la loro «sete di profitto» e la loro «rapacità», è diventato come una sorta di sport popolare. Ma, in realtà, la ricerca di un sempre maggior profitto rappresenta di fatto quello che è il motore di base dell'insieme del modo di produzione capitalistico. Funziona secondo il principio di «fare soldi per mezzo del denaro» (A - M - A'). È quella che viene chiamata valorizzazione del capitale. La produzione di merci e il dispendio di forza lavoro non sono altro, nel sistema di produzione delle merci, che un mezzo per poter raggiungere quel fine. Dal punto di vista della valorizzazione del capitale, non interessa sapere che cosa viene prodotto (per esempio, delle bombe a frammentazione o del ketchup), o sapere in che modo quella cosa viene prodotta (intensificazione permanente del lavoro, precarizzazione, lavoro infantile), o perfino sapere quali possono essere le conseguenze (distruzione delle risorse naturali della vita).

3.
La logica della valorizzazione capitalistica reca in sé una fondamentale contraddizione interna che non può essere risolta. Da un lato, bisogna che nella produzione di merci venga spesa sempre più forza lavoro, al fine di garantire così la valorizzazione del capitale; invece, la moltiplicazione del denaro - divenuta un fine in sé, e che avviene attraverso il dispendio di forza lavoro - è astratta e quantitativa, e da parte sua non conosce affatto questo limite logico. Dall'altro lato, l'onnipresente concorrenza obbliga ad aumentare continuamente e costantemente la produttività, attraverso la «razionalizzazione» della produzione. Questo vuol dire che per ogni unità di tempo si devono produrre sempre più beni, ossia, bisogna ridurre il tempo di lavoro necessario , fino ad arrivare a rendere «superflua» la forza lavoro.

4.
Il fondamentale potenziale di crisi che implica questa contraddizione, ha potuto, fino agli anni '70, essere differito in maniera permanente grazie ad un'accelerazione del ritmo della crescita. Estendendo la valorizzazione del capitale a tutto il pianeta, e a dei nuovi rami di produzione, la domanda assoluta di mano d'opera è stata così aumentata, e quindi è stato controbilanciato l'effetto della razionalizzazione. Ma la «terza rivoluzione industriale» (basata sulle telecomunicazioni) ha reso inefficace questo meccanismo di compensazione. Essa ha innescato in tutti i rami di produzione una massiccia perdita di posti di lavoro. Malgrado l'espansione e la globalizzazione della produzione, sempre più persone sono divenute «superflue» dal punto di vista della valorizzazione capitalista. Ed è così che si è sviluppato un fondamentale processo di crisi il quale mina il modo di vita e di produzione capitalistico.

5.
Ma cosa c'entra il gonfiamento dei mercati finanziari con tutto questo? La crisi della valorizzazione del capitale, vuole innanzitutto dire che il capitale sempre più difficilmente trova il modo di investire nell'«economia reale». Ed è questo il motivo per cui il capitale si rivolge ai mercati finanziari e causa così un gonfiamento del «capitale fittizio» (speculazione e credito). È successo esattamente questo a partire dall'inizio degli anni '80. Questa dislocazione verso i mercati finanziari non rappresenta altro che una forma di sospensione della crisi. Il capitale in eccesso aveva trovato una nuova possibilità di investimento («fittizio»), sfuggendo in questo modo alla minaccia della svalorizzazione. Allo stesso tempo, l'espansione del sistema di credito e di speculazione ha creato più potere di acquisto, spingendo in tal modo ad un ampliamento della produzione (per esempio, il boom dell'industrializzazione in Cina).

6.
Il prezzo da pagare per questo rinvio della crisi, è un accumulo sempre più grande del suo potenziale distruttivo ed un'estrema dipendenza dai mercati finanziari. «L'accumulazione» fittizia del capitale deve proseguire senza sosta. Quando una bolla esplode, i governi  e le banche centrali non hanno altra scelta, se non quella di salvare le banche e gli investitori, ed iniettare massicciamente nei mercati liquidità scoperta, che finisce per ricreare delle nuove bolle. I leader politici di tutti i partiti si fanno perciò delle illusioni quando reclamano una rigorosa limitazione della speculazione. Anche se eventualmente sono possibili delle misure specifiche di regolazione, si può dire che generalmente il sistema si basa sulla speculazione, e che il credito deve perdurare, poiché il sistema capitalista può continuare solo su questa «base». Non è un caso il fatto che la «realpolitik» abbia proceduto esattamente secondo un tale schema, cercando di rimettere in moto la dinamica dei mercati finanziari.

7.
La crisi attuale rappresenta un punto di svolta qualitativo, in quanto il collasso ha potuto essere riassorbito solo grazie da una massiccia espansione del debito pubblico. Ecco perché ora la crisi sta colpendo la società sotto forma di una crisi del bilancio («programmi di austerità»). Ma quando oggi ci viene detto che bisogna fare economia perché «viviamo al di sopra dei nostri mezzi», le cose ci vengono presentate a rovescio. Se con meno lavoro si può creare sempre più ricchezza materiale, questo in linea di principio apre la possibilità di una vita migliore per tutta l'umanità. Ma il fatto di rimanere sottomessi alle relazioni capitalistiche porta ad una diminuzione della produzione di valore. È da questo, e unicamente da questo, che proviene «l'imperativo di fare economia» per una società governata dalla cosiddetta produzione di valore. Anche il gigantesco indebitamento è espressione del fatto che il potenziale produttivo creato dal capitalismo fa esplodere la sua stessa logica,  e che la produzione di ricchezza sotto il capitalismo può continuare solo per mezzo della violenza. La società deve liberarsi da questa forma di produzione di ricchezza, se non vuole essere trascinata nell'abisso insieme ad essa.

- Norbert Trenkle -  Pubblicato il 20/6/2010 su  Krisis - Kritik der Warengesellschaft -

fonte: Krisis - Kritik der Warengesellschaft

sabato 23 febbraio 2019

«fatti alternativi»

Schiacciati come siamo sul presente, tendiamo troppo spesso a dimenticare che la realtà può anche andare diversamente da come va - persino meglio. Imparare a pensare, mettendo ordine nel disordine che ci circonda: non c'è modo migliore per prepararsi ad affrontare le sfide di un futuro che arriva sempre prima del previsto. Regna una grande confusione sotto il cielo, in questi tempi agitati. Come sempre succede nei momenti di crisi, non siamo in grado di leggere il presente: forse potremo tracciare una mappa, scrivere la Storia, comprendere i disegni solo tra qualche decennio, o addirittura qualche secolo. Ora come ora, è meglio accettare confusione e complessità piuttosto che rivolgere la prua verso un unico sistema di valori, tanto rassicurante quanto sterile. Ma abbiamo bisogno di una guida e la filosofia è lo strumento che può aiutarci: per fare ordine nelle idee, sostenere le nostre scelte, illuminare le zone oscure delle nostre paure, esplorare le possibilità piuttosto che gridare soluzioni definitive. La filosofia è uno strumento antico ma modernissimo, non teme il tempo, non può invecchiare perché non insegna che cosa pensare ma come pensare. Mauro Bonazzi ci conduce in questo lavoro mettendo a nostra disposizione le grandi correnti del pensiero antico - da Platone a Aristotele, dagli scettici agli stoici e agli epicurei. Risposte, o tentativi di risposte, agli stessi problemi con cui ancora oggi abbiamo a che fare, esistenziali, sociali, politici. Ancora oggi, con la potenza della sua indagine, la filosofia rimane la nostra miglior possibilità di illuminare il presente. La preziosa eterna lanterna di Diogene.

(dal risvolto di copertina di: Mauro Bonazzi, "Piccola filosofia per tempi agitati". Ponte alle Grazie )

Pensieri antichi per capire l’oggi
- Così la filosofia spiega il presente -
di Eva Cantarella

Non è facile rendere conto di tutti gli argomenti trattati nel libro di Mauro Bonazzi Piccola filosofia per tempi agitati (Ponte alle Grazie), i tempi nei quali viviamo: sono tanti e diversissimi, unificati dal fatto di offrire suggerimenti che possono aprire uno spiraglio per affrontare questo nostro complesso confusissimo mondo. Ma in che modo, con quali armi? Quelle della filosofia, la disciplina nata per insegnare non cosa ma come pensare, che aiuta a ordinare le idee e a scegliere razionalmente tra prospettive diverse. È un invito, quello che viene da questo libro, all’esercizio del pensiero, lo strumento più potente di cui possiamo disporre, come Bonazzi ci mostra selezionando e raccogliendo una serie di testi tratti dai suoi interventi su «la Lettura», sul «Corriere della Sera» e su «il Mulino».
Partiamo da un esempio, la celebre affermazione di Diogene il Cinico, che, interrogato su quale fosse la sua patria, dichiarò di essere «cittadino dell’universo». Una risposta su cui riflettere oggi, in un universo dove, accanto a diversi sistemi di valori, trovano spazio e consenso slogan come «America first» (o altri Paesi tra i quali purtroppo a volte anche l’Italia). E accanto ai filosofi ecco i poeti, che ci inducono a ragionare, ad esempio, su «le tentazioni della vendetta»: come Eschilo, che nel 458 avanti Cristo, nell’Orestea, mise in scena le atrocità che avevano accompagnato la storia degli Atridi, a partire dall’uccisione di Agamennone per mano della moglie Clitennestra, che voleva vendicare i torti che questi le aveva fatto. Ma nella logica della vendetta la morte di Agamennone imponeva al figlio di questi di uccidere la madre. Solo il diritto può fermare le violenze che derivano dai desideri di vendetta, dice l’Orestea, nella quale queste terminano solo con l’istituzione del primo tribunale ateniese, al quale spetterà decidere la sorte di Oreste.
Ma torniamo alla filosofia, questa volta intesa come strumento della buona politica: e il pensiero va a Pericle, che tra le cure e le preoccupazioni del governo di Atene trovava il tempo per discutere con i filosofi. Una volta, si diceva, aveva passato un’intera giornata a discutere con Protagora il caso di un giovane che, lanciando il giavellotto, aveva colpito e ucciso un compagno di gara. Di chi era la colpa, si chiedevano Pericle e Protagora: del giavellotto o di chi lo aveva lanciato? Naturalmente la storiella voleva ridicolizzare quegli strani, nuovi filosofi che erano i sofisti, tutt’altro che ben visti negli ambienti più conservatori, dei quali Pericle era amico. Ma, scrive Bonazzi, la grandezza del politico Pericle è tutta qui: nel saper valutare i «fatti alternativi», veri o falsi che fossero, discuterne, non aver mai abdicato all’uso della ragione; e nell’abitudine di parlare in pubblico solo nelle occasioni ufficiali, senza insultare o inveire. Una scelta fondamentale per un politico (e anche per chi non essendo tale, vuol vivere in una società civile tale): le parole non sono qualcosa di neutro, che serve semplicemente a indicare una realtà di per sé evidente. Così non è, la realtà è plurale, perché dipende dai punti di vista, che sono molteplici. Le parole sono lo strumento che può permetterci di costruire una prospettiva condivisa.
Ed eccoci all’ultima parte del libro, dove viene data la parola a uno dei più grandi scienziati del Novecento, Julius Oppenheimer, che nel pieno degli esperimenti della bomba atomica dichiarò che «i fisici hanno conosciuto il peccato, ed è una conoscenza che non potranno mai perdere». Una frase chiaroveggente, che in poche parole descrive un tratto caratteristico della condizione moderna.
Inseriti nel racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male, di cui Adamo ed Eva colsero i frutti, i saperi scientifici sono il serpente grazie ai quali la nostra conoscenza dell’universo è radicalmente cambiata, così come quella della vita umana, ma che può avere anche conseguenze disastrose. In un futuro che ci fa intravedere ulteriori mai immaginate scoperte si prospetta sempre più la possibilità che il desiderio di conoscenza, prendendo il sopravento sulle preoccupazioni etiche, conduca alla perdita o all’indifferenza della distinzione tra il bene e il male. Ma è proprio di fronte a simili rischi che le scienze umanistiche possono e devono continuare ad avere un ruolo. I saperi scientifici e il confronto con loro sono indispensabili e fuori discussione, ma non sono i soli a poter dare risposte sulla realtà delle cose: a contribuire a darle possono essere, se ad essi si affiancano, il linguaggio e le strade diverse seguite dagli umanisti. Anche se moltissimi sarebbero gli altri possibili spunti, a quanto sin qui visto basterà aggiungere che questo libro, oltre a essere un’importante occasione di informazione e di riflessione, è anche di scorrevole, facile e piacevolissima lettura.

- Eva Cantarella - Pubblicato sul Corriere del 9/2/2019 -

venerdì 22 febbraio 2019

L’antimperialismo degli imbecilli

Un altro autunno tedesco
- Discorso rivolto alla manifestazione contro l'antisemitismo svoltasi ad Amburgo il 13/12/2009 -
di Moishe Postone

Penso che sia politicamente importante che gran parte della sinistra prenda sul serio le espressioni di antisemitismo che si sono diffuse fra i gruppi che si definiscono antimperialisti. La cosa potrebbe portare, forse, ad un chiarimento teorico del quale si sente da tempo la mancanza. Non si tratta di sapere se la politica israeliana possa essere o meno criticata. La politica israeliana deve essere criticata, soprattutto quando cerca di pregiudicare instaurare qualsiasi possibile Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Tuttavia, la critica del «sionismo» che è prevalente in numerose cerchie anti-imperialiste va ben al di là di una critica della politica israeliana. Essa attribuisce a Israele e ai «sionisti» un'unica cattiva condotta, ed un potere cospirazionista globale. Israele non viene criticato come avviene con altri paesi - ma in quanto incarnazione di quello che è un male estremo e fondamentale. In breve, la rappresentazione di Israele e dei «sionisti», che viene fatta in questa forma di «antisionismo» «antimperialista», è fondamentalmente la stessa rappresentazione degli ebrei che avviene in quell'antisemitismo virulento che trova la sua espressione più dura nel nazismo. In entrambi i casi, la «soluzione» è la stessa: l'eliminazione fatta in nome dell'emancipazione.
La tradizionale rappresentazione stalinista e socialdemocratica, che vede nel nazismo e nel fascismo solo degli strumenti che vengono utilizzati dalla classe capitalista per schiacciare la classe operaia, tralascia sempre quella che è una delle loro dimensioni centrali. Questi movimenti, al livello della loro auto-comprensione e della loro attrattiva sulle masse, sono state delle rivolte. Anche il nazismo stesso si è presentato come una lotta per la liberazione (ed ha sostenuto dei movimenti «antimperialisti» nel mondo arabo ed in Asia). Questa auto-comprensione ha avuto come base una comprensione feticistica del capitalismo: l'inafferrabile dominio globale, astratto, degli ebrei. Lungi dall'essere un attacco ad una minoranza, l'antisemitismo nazista considerava sé stesso come anti-egemonico. Il suo obiettivo era quello di liberate l'umanità dal dominio spietato ed onnipresente degli ebrei. È stato a causa di questo suo carattere anti-egemonico che l'antisemitismo ha posto alla sinistra un problema particolare. E questo carattere spiega il perché, un secolo fa, si sia potuti definire l'antisemitismo come «socialismo degli imbecilli». Oggi, lo si può definire come «antimperialismo degli imbecilli».
Purtroppo, questa forma antisemita di «antisionismo» non è affatto nuova. La si trovava già al cuore dei processi-spettacolo stalinisti avvenuti all'inizio degli anni '50, in particolare in Cecoslovacchia, quando dei comunisti internazionalisti, dei quali molti erano ebrei, vennero accusati di essere degli «agenti sionisti» e furono fucilati. Questa forma codificata di antisemitismo, le cui origini non avevano nulla a che vedere con le lotte in Medio Oriente, venne esportato laggiù dall'Unione Sovietica e dai suoi alleati, durante la Guerra Fredda - soprattutto dai servizi segreti della Repubblica Democratica Tedesca e dalle organizzazioni occidentali e mediorientali che dipendevano da quei servizi (vale a dire la Frazione Armata Rossa e diversi gruppi palestinesi «radicali».
Questa forma di antisionismo «estremista di sinistra» si è mescolata al nazionalismo arabo e all'islamismo radicale - che non sono meno repressivi di qualsiasi altra forma di nazionalismo radicale, come il nazionalismo albanese o croato, e per i quali la spinta eliminazionista contro gli ebrei in Israele è giustificata dal fatto che è diretta contro dei colonizzatori «europei». Ogni qualvolta la spinta eliminazionista contro gli ebrei si trova al culmine, allora la legittimità di Israele viene messa in discussione al massimo - con argomenti che vanno dall'idea secondo cui la maggior parte degli ebrei europei non sarebbero biologicamente dei mediorientali (un'idea questa, lanciata nel 1947 dall'Alto Comitato Arabo, e che oggi viene riciclata come se fosse una «nuova scoperta» da Shlomo Sand) fino a quella secondo la quale essi sono dei semplici colonizzatori europei che andrebbero rispediti a casa loro, come i pied-noir francesi. É triste, ma non sorprende, che i nazionalisti radicali del Medio Oriente vedano la situazione in questi termini. Ma la cosa diventa perversa allorché degli europei - in particolare, dei tedeschi - identificano gli ebrei, il gruppo più perseguitato e massacrato per un millennio dagli europei, con questi stessi europei. Identificando gli ebrei con il proprio passato omicida, questi europei possono evitare in tal modo la pesante eredità. Il risultato, è un modo di fingere di combattere il passato, che invece viene in realtà prolungato ed esteso.
Questa forma di antisionismo fa parte di una campagna, che si è rafforzata a partire dall'inizio della seconda Intifada, per eliminare Israele. Il suo focalizzarsi sulla debolezza dei palestinesi nasconde questa intenzione ultima. Questa forma di antisionismo fa parte del problema, non della soluzione. Lungi dall'essere un faro di progresso, si è alleato con i nazionalisti arabi radicali ed islamisti, vale a dire con la destra radicale in Medio Oriente, e, così facendo, rafforza la destra israeliana. È costitutivo di una guerra sempre più concepita come se fosse un gioco a somma zero, che pregiudica ogni possibile soluzione politica; una ricetta per una guerra infinita. L'odio espresso da questo antisionismo fa andare in frantumi quelli che sono i limiti della politica, dal momento che esso è senza limiti, tanto quanto lo è il suo oggetto immaginato. Una simile mancanza di limiti porta al sogno dell'eliminazione. I tedeschi, così come molti degli altri europei, conoscono fin troppo bene questo sogno eliminazionista. È venuto il momento di svegliarsi.

- Moishe Postone -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

Uscire

Contro la sinistra del Capitale
- di Guillaume Deloison -

L'idea stessa di rivoluzione, sembra essersi dissolta nell'aria, così come ogni critica radicale del capitalismo. Naturalmente, viene generalmente ammesso che ci sarebbero numerosi dettagli da cambiare per quanto riguarda l'ordine del mondo. Ma uscire dal capitalismo, e basta? E poi per sostituirlo con che cosa? Chiunque ponga questa domanda, rischia di passare per un nostalgico del totalitarismo del passato, oppure per un ingenuo sognatore. Ma, sulla base di quella che è la nostra situazione ecologica e sociale, appare decisamente necessario portare avanti una critica radicale del capitalismo, mostrarne il suo carattere distruttivo, che è allo stesso tempo anche storicamente limitato.

Contrariamente a quanto è stato ritenuto implicitamente da Adam Smith, David Ricardo, e perfino da quasi tutti i marxisti, le categorie capitalistiche della merce, del valore, del lavoro, non sono affatto naturali ed eterne. Tali categorie esistano specificamente solo grazie al modo di produzione attuale. Il valore considera solo la quantità di lavoro contenuta nelle merci, vale a dire, la quantità di tempo necessario alla loro produzione. Tempo che può essere visto solamente secondo il modo standardizzato della produzione capitalista: come pura astrazione. Un ora, quella della fabbrica, è la stessa ora dappertutto, ovunque. Il capitalismo si caratterizza a livello profondo per il fatto che la società tutt'intera è dominata da questi fattori anonimi ed impersonali. É ciò che Marx chiama «feticismo della merce», e che non è affatto riducibile ad una semplice «mistificazione» della realtà capitalista.
Piuttosto che mettere in discussione il valore di mercato, il lavoro, ecc., in quanto principio regolatore della produzione e della vita sociale, il movimento operaio ed i suoi teorici si battevano solamente per una sua «ridistribuzione» più giusta. Accettando quella che è la struttura stessa della produzione capitalista, si preoccupavano essenzialmente di riuscire ad ottenere le migliori condizioni di vita per le classi lavoratrici. A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, il marxismo è quindi divenuto, nonostante un po' di retorica, una teoria dell'integrazione effettiva del proletariato, di coloro che, nella società del valore, posseggono solo la forza lavoro. Per un lungo periodo di tempo, si è potuto vedere che gli alti salari, o il diritto a sindacalizzarsi, non erano poi del tutto incompatibili con il profitto capitalista, anzi, al contrario! Le «conquiste» del movimento operaio non sono state solo strappate al capitale suo malgrado, ma ne hanno anche costituito la sua forma più efficace di sviluppo. Ciò è particolarmente vero per quel che riguarda le varianti socialdemocratiche del movimento operaio. Laddove le varianti leniniste avevano preso il potere, come in Russia, e più tardi anche in altri paesi alla periferia del mercato mondiale, si è potuto assistere ad una «modernizzazione di recupero»: ben lungi dal voler abolire la merce, il lavoro, il valore ed il denaro, si trattava, al contrario, proprio di volerli introdurre in quelli che erano dei paesi agricoli.
È il lavoro, e solo il lavoro, che dà il loro «valore» alle merci, e che quindi forma in questo modo il capitale. Il capitale non è il contrario del lavoro, ma è bensì la sua forma accumulata; il lavoro vivente ed il lavoro morto sono due «stati di aggregazione» della medesima sostanza del lavoro. Il lavoratore non si trova affatto al di fuori della società capitalista, ma ne costituisce uno dei suoi due poli. Una «rivoluzione dei lavoratori contro il capitalismo» è perciò un'impossibilità logica; quella che può avere luogo è solo una rivoluzione contro l'assoggettamento della società e degli individui alla logica della valorizzazione e del lavoro, una rivoluzione contro la subordinazione del concreto all'astrazione del modo di produzione capitalista.
Una simile critica del lavoro deriva necessariamente dal concetto marxiano di lavoro astratto, dal lavoro inteso come astrazione, che Marx considerava come la sua scoperta più importante, anche se non ne faceva derivare tutte le conseguenze. Nel movimento operaio, di questo non ne è rimasto nulla; al contrario, il lavoro viene esaltato, e la critica principale che viene rivolta alla borghesia è quella secondo cui essa non lavora più. La rivoluzione, così come viene intesa dal marxismo tradizionale, si dovrà limitare a restituire a coloro che lavorano la proprietà dei mezzi di produzione. I lavoratori continuerebbero poi a lavorare ed a produrre del valore, rappresentato nel denaro, ecc.... ma tutto questo però sotto «controllo operaio».
Nessun programma di emancipazione, quindi, può più basarsi sul lavoro: innanzitutto, perché il lavoro non è mai stato identico all'attività produttiva umana, al «metabolismo con la natura» (Marx). Si è dovuto standardizzare ogni gesto e ogni secondo, fino al massimo grado, in modo che il tempo fosse ridotto ad una semplice quantità di lavoro in generale. C'è stato bisogno di una tecnica specifica, storicamente determinata perché il lavoro divenisse un'astrazione che potesse così ricoprire tante differenti attività, un'astrazione che riduce tutto ad una semplice quantità della medesima sostanza sociale senza contenuto, mirante unicamente alla sua accumulazione. La produzione non mira alla soddisfazione dei bisogni, ma serve una dinamica cieca che consuma le energie umane e le risorse naturali. La valorizzazione del valore si impone nei confronti degli attori sociali ed agli stessi capitalisti. Credere nell'esistenza di una «grande regia» occulta che sia dalla parte dei capitalisti, è piuttosto una maniera di rassicurare sé stessi. Le verità è assai più tragica: nessuno controlla questo meccanismo che sacrifica il mondo concreto ad un'astrazione che viene feticizzata, adorata. Per la stessa ragione, anche una critica moraleggiante del capitalismo è del tutto inutile. Le lotte sociali classiche ruotano intorno alla ripartizione del plusvalore; l'esistenza del valore, viene già presupposta in quanto «bene» neutro, del quale bisogna semplicemente appropriarsi. Il valore non potrà essere abolito, senza abolire il lavoro che lo crea - ecco perché una contestazione del capitalismo fatta nel nome del lavoro non ha alcun senso. Si sbaglia anche opponendo il «buon» lavoro concreto al «cattivo» lavoro astratto: se ci si limitasse ad eliminare da tutti i lavori ciò che essi hanno in comune - il dispendio del tempo di lavoro - quel che resterebbe non sarebbe il lavoro «concreto» (categoria che è essa stessa un'astrazione), ma resterebbe una molteplicità di attività, ciascuna delle quali è legata ad uno scopo determinato - come avveniva nelle società pre-capitaliste, le quali effettivamente non conoscevano il termine «lavoro» nel senso moderno.

Il movimento operaio traeva una certa giustificazione dal fatto che il capitalismo, durante la sua lunga fase di espansione, permetteva effettivamente delle forme di ridistribuzione, con dei risultati che erano perfino notevoli per le classi lavoratrici. I suoi critici, anche se il loro orizzonte non è mai stato quello del superamento del capitalismo, avrebbero perciò potuto vantarsi di aver ottenuto degli importanti successi, che suggerivano che il capitalismo avrebbe potuto essere «addomesticato» in una «democrazia di mercato». Tuttavia, i progressi tecnologici, e soprattutto l'applicazione alla produzione della microelettronica, ha ridotto in maniera continua il ruolo del lavoro vivente, soprattutto a partire dagli anni '60, Ci sono ancora delle imprese specifiche che possono ancora ottenere dei grossi profitti, ma il sistema nel suo insieme ha cominciato a perdere la sua «sostanza». Il capitalismo sega il ramo sul quale sta seduto: la valorizzazione del valore per mezzo dell'utilizzo del lavoro vivente. Ha corso questo rischio fine dall'inizio della rivoluzione industriale e l'introduzione delle macchine nella produzione. Per molto tempo, la diminuzione del valore (e quindi della porzione di plusvalore e di profitto) contenuta in ciascuna merce particolare è stata compensata (perfino sovracompensata) per mezzo dell'estensione assoluta della produzione - riempendo così il mondo di merci, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Ma con la fine della fase fordista si è esaurito l'ultimo modello basato sull'utilizzo massiccio di lavoro vivente. Da allora, le tecnologie, che sono capitale e lavoro morto - e che non creano affatto valore - assicurano l'essenziale della produzione in quasi tutti i campi. La massa assoluta del valore, e quindi del plusvalore, cade a picco. Questo mette in crisi tutta l'intera società basata sul valore - ma mette in crisi anche i lavoratori stessi. Non è più lo sfruttamento, ad essere il problema principale creato dal capitalismo, ma la massa crescente di esseri umani «superflui», vale a dire non necessari alla produzione, e quindi altrettanto incapaci di consumare. Dopo la sua lunga fase di espansione, dopo decenni il capitalismo si trova in contrazione, nonostante la «globalizzazione»: le persone, i settori, le regioni in grado di partecipare ad un ciclo «normale» di produzione e di consumo di valore, assumono sempre più l'aspetto di «isole» in una marea montante di emarginati che non servono nemmeno più ad essere sfruttati. Ed è vano rivendicare per loro del «lavoro», perché la produzione non ne ha affatto bisogno e sarebbe assurdo obbligare delle persone ad eseguire dei lavori inutili come condizione preliminare per la propria sopravvivenza. Bisognerebbe piuttosto rivendicare per ciascuno il diritto a vivere bene, indipendentemente dalla questione di sapere se egli sia riuscito, o meno, a vendere una forza lavoro che spesso nessuno vuole più.
Allora, perché il sistema capitalistico non è ancora completamente collassato? Ciò è stato soprattutto a causa della «finanziarizzazione», vale a dire della fuga nel «capitale fittizio» (Marx). Dopo che l'accumulazione reale è pressoché cessata, è stato il ricorso sempre più massiccio al credito che ha permesso di simulare il proseguimento dell'accumulazione. L'abbandono della convertibilità del dollaro in oro, avvenuto nel 1971, è stata una sorta di data simbolica. Quest'atmosfera di simulazione - si potrebbe dire, di virtualizzazione - si è quindi estesa a tutta la società intera. Ciò spiega l'ampia diffusione in tutti i campi degli approcci cosiddetti «postmoderni». Nella sfera del credito, i profitti futuri - attesi. ma che non arriveranno mai - vengono consumati in anticipo, e tengono in vita l'economia. Com'è noto, questi crediti, insieme alle altre forme di denaro fittizio (valori borsistici, prezzi immobiliari) hanno raggiunto delle dimensioni astronomiche ed alimentano una speculazione gigantesca che può avere delle terribili ripercussioni sull'economia «reale», com'è successo nel 2008. Ma la speculazione, lungi dall'essere la causa delle crisi del capitalismo e della crescente povertà, ha piuttosto aiutato per decenni a rimandare la grande crisi. La causa risiede nel fatto che tutte le merci e tutti i servizi addizionali rappresentano, benché il loro numero aumenti, una quantità sempre minore di valore. Questo implica il fatto che anche una grande percentuale del denaro in circolazione nel mondo è «fittizio», dal momento che non rappresenta del lavoro. Le «misure per lo stimolo» prese dai governi dopo la crisi del 2008 non sono altro che delle acrobazie contabili, dove si va ad aggiungere ancora uno zero a delle cifre che sono già del tutto fantastiche. Non potrà esserci nessuna nuova prosperità capitalistica, poiché le tecnologie che sostituiscono il lavoro non possono essere eliminate attraverso la produzione capitalista. Sarebbe altrettanto vano attendersi che la Cina, o altri «paesi emergenti» salvino il capitalismo: i loro presunti successi si basano in parte sull'aumento dei prezzi delle materie prime, ed in parte su delle esportazioni unilaterali verso i paesi ricchi che dureranno solo fino a quando quei paesi stessi riusciranno ancora a posporre la vera irruzione della crisi. Perciò, non si tratta di profetizzare un futuro collasso del capitalismo, ma di constare la crisi che è già in atto, e che continua ad aggravarsi, al di là delle brevi riprese congiunturali. E questa crisi non è solamente economica e quindi coinvolge ogni genere di convulsione: dalle guerre di nuovo tipo fino alle devastazioni delle psicologie individuali.

Quel che si richiede è quindi una critica radicale del capitalismo nel suo insieme, e non solo della sua fase neo-liberista. Un ritorno alla piena occupazione e alle ricette keynesiane (rilancio attraverso il consumo), un ruolo rilevante dello Stato e dello stato sociale di una volta non sono possibili: il loro abbandono non è stata la conseguenza di una cospirazione degli economisti neo-liberisti e dei capitalisti più rapaci, ma il risultato dell'esaurirsi della dinamica capitalistica nel suo insieme. Invocare una regolamentazione dei flussi finanziari, al fine di salvare l'economia «reale», e di rilanciare la crescita, in realtà non ha niente di realistico, è utopico, significa credere che il capitalismo mondiale possa prosperare indefinitamente. Il keynesiano vuole salvare l'economia «reale». Ma questa economia «reale» si basa sull'estrazione del plusvalore, vale a dire, sullo sfruttamento della forza lavoro. Non è così che si affronta il problema. In questo modo, non si tiene conto del processo di proletarizzazione e di dispossessamento degli individui, la cui abolizione implica l'abolizione delle relazioni sociali capitaliste, e ciò deve avvenire a livello globale. E inoltre un simile ripristino del capitalismo non sarebbe affatto auspicabile: il capitalismo dev'essere superato a partire dall'abolizione delle sue fondamenta, e non ritornando a delle forme di schiavitù e di alienazione che possono sembrare apparentemente più sopportabili. Il nazionalismo di un Melenchon, ad esempio, che propone una certa sovranità, uno Stato virtuoso, sembra ignorare che il sentimento nazionale, al giorno d'oggi, è stato costruito storicamente, e non si basa su una sorta di natura assoluta dell'uomo, bensì sul modo di produzione. In definitiva, è in nome di una «unità nazionale» interclassista, particolarmente favorevole alla piccola borghesia, al piccolo padronato, ad una classe media che gestisca la produzione, che ogni «cittadino» verrà chiamato a mobilitarsi attivamente in seno a simili movimenti. Le vecchie concezione dell'emancipazione sono entrate in crisi unitamente al capitale, dimostrando in tal modo la loro natura di «fratelli nemici».
A fronte di una simile constatazione, cosa rimane allora della rivoluzione, del cambiamento radicale, della rottura profonda? La sua necessità appare ancora essere un'esigenza fondamentale, e la sua realizzazione si presenta ancora più difficile di quanto lo fosse prima. Tranne rare eccezioni, il lavoro è santificato dappertutto, e viene considerato come se si trattasse di una forza da «liberare» (salvo che da parte di alcune avanguardie artistiche e letterarie). Piuttosto che di una critica della produzione del valore, si tratta di una critica di quella che è solo la sua distribuzione. Ed il suo scopo, esplicito o implicito, è quello di includere nella società di mercato strati sempre più grandi della popolazione. Alcuni vogliono arrivarci attraverso delle elezioni, o delle cooperative, mentre altri lo vogliono fare erigendo delle barricate, oppure fucilando gli avversari. Ma il loro orizzonte comune resta quello di una miglior gestione della società del lavoro. Abolire il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, viene presentato come se fosse l'intervento più radicale possibile - senza che venga messo in discussione quello che il mercato distribuisce. Se la produzione ha come compito quello di creare una quantità di valore che poi dev'essere scambiato sul mercato con altre quantità di valore - a prescindere dal fatto che questo sia anonimo oppure «pianificato» - tutto ciò comporta inevitabilmente la subordinazione degli operai alla logica della redditività. La fabbrica può essere benissimo autogestita, e così decidere, in piena libertà democratica, chi dev'essere licenziato, ma l'impresa deve rimanere «competitiva». Si tratta perciò, non tanto di «sconfiggere» il capitalismo, quanto di evitare che la sua disintegrazione, già in atto, non porti a nient'altro che alla barbarie e alle rovine. I movimenti sociali diretti unicamente contro le banche, o contro la classe politica «corrotta», costituiscono una risposta del tutto insufficiente, in quanto scambiano il sintomo per la causa, riattivando così i vecchi stereotipi degli «onesti» lavoratori sfruttati da dei «parassiti», stereotipi che rischiano di degenerare nel populismo e nell'antisemitismo. Lo Stato non è mai stato l'avversario del capitale o del mercato, ma ha sempre preparato a loro favore le basi e le infrastrutture. Non è una struttura «neutra» che potrebbe essere messa al servizio dell'emancipazione. Lo Stato moderno - anche se i cittadini se ne riappropriassero - rimane sottomesso finanziariamente alla sfera del capitale, di cui esso è solo il gestore; e modificare le sue istituzioni, o la sua costituzione, in superficie, non cambierebbe questa dimensione. Lordon, in particolare, ma anche tutta una parte della sinistra e dell'estrema sinistra, non sembra prevedere questo fatto elementare. E questa critica dello Stato come sfera di decisione separata, deve resistere anche alla democrazia diretta. Sarà inevitabile uscire sia dal mercato che dallo Stato - quelli che sono i due poli feticizzati, adorati, della socializzazione attraverso il valore - per poter arrivare un giorno a stabilire un vero e proprio accordo diretto fra i membri della società. Una società post-capitalista non farà dipendere il suo destino da degli automatismi incontrollabili, da delle astrazioni mortifere, come il lavoro ed il suo valore.

La questione adesso è sapere come reagire alla rovina generale prodotta dal collasso della produzione del valore. Come fare a proteggere le iniziative ed i tentativi che nascono un po' dappertutto, e che si propongono di costruire dei rapporti sociali che non siano più basati sul mercato e sul lavoro? Come riuscire a difenderli contro la feroce volontà, così frequente, di aggrapparsi a tutto pur di sopravvivere ancora un po' in mezzo ai disastri sempre più frequenti, perfino a costo di dover commettere i peggiori crimini?
Bisogna conquistare la nostra autonomia, non proclamando l'unità della classe, ma attaccando tutto ciò che ci divide in classi. Contro un nazionalismo che mantiene quelli che sono i rapporti neocoloniali di produzione, in seno alla divisione internazionale del lavoro, va riaffermata la necessità di una lotta internazionale che attacchi tutto ciò che divide il mondo in nazioni, fra cittadini da una parte e stranieri dall'altra. Anziché opporre «economia reale» e «finanza», ci si deve rendere conto che è l'economia cosiddetta «reale» a trovarsi in una crisi permanente, e che la finanza serve a controbilanciare le causa della crisi: la valorizzazione del capitale. Dietro la denuncia della sola finanza mondiale, rapidamente si finisce per cominciare a riconoscere un complotto, una volontà oscura, una concezione che nega il processo materiale di dominio e che ben presto sviluppa dei temi antisemiti, anche se la sinistra nega tutto questo. Se si deve parlare di categoria culturale, di identità nazionale, o di musulmani, allora questo va fatto per attaccare tutto ciò che costituisce materialmente tali categorie, per attaccare quello che ci divide, e non certo per riaffermare quelli che sono dei valori tradizionali patriarcali e razzisti, o addirittura per rinsaldare l'unità nazionale intorno ad un capro espiatorio. Il capitalismo - che sia «nazionale» o «globale», «dal volto umano» o «selvaggio» - rimane intrinsecamente un sistema funzionalista ed industriale strutturalmente patriarcale ed anti-ecologico, al di là di quella che può essere ogni «ristrutturazione» di facciata.
Assai spesso, questi riformisti - che si immaginano «radicali» - faranno passare le loro «riforme radicali», che non hanno niente di un anticapitalismo conseguente, per degli slanci rivoluzionari, che in realtà non sono altro che un alter-capitalismo ancora più ipocrita e contraddittorio, che invece sembra detenere il monopolio della critica e dell'alternativa. Ma noi vogliamo molto di più che gestire lo sfruttamento, non ricorriamo a dei concetti morali che non fanno altro che mascherare quelle che sono le nostre divisioni nel contesto di questo sfruttamento. Noi stiamo attaccando queste stesse divisioni, stiamo attaccando la società di classe, in un processo in cui mettiamo in comune, comunizziamo.

- Guillaume Deloison - 11 agosto 2018 -

fonte: Guillaume Deloison - Broyer du concept pour bouger les systèmes -

giovedì 21 febbraio 2019

Solo sotto le stelle!


Il 18 aprile 1961, venne reso pubblico che Gary Cooper, iconica star di Hollywood, dopo 36 anni di carriera nel corso della quale aveva conquistato numerosissimi fan, aveva ottenuto elogi e premi in tutto il mondo, stava ora morendo di cancro. Alcune settimane dopo che la notizia ebbe fatto il giro del mondo, e pochi giorni prima della sua morte, Cooper ricevette una lettera da Kirk Douglas, che proprio allora stava producendo e interpretando nel film "Lonely are the Brave " (titolo di produzione: "The Last Hero") quello che era un adattamento del romanzo western di Edward Abbey, "The Brave Cowboy".

Western Skies Hotel
Albuquerque, New Mexico
May 4, 1961

Mr. Gary Cooper
Beverly Hills

Caro Coop:

Quando sei stato affezionato a qualcuno per anni, e poi improvvisamente ti accorgi che  questo sentimento si sta trasformando in risentimento, ecco che allora cominci a pensare che la cosa ha bisogno di una qualche sorta di commento. Quando ti rendi conto che la persona che tu ora trovi antipatica è amata da tutti quanti, capisci che faresti bene a spiegarlo meglio.
Ciò di cui sto parlando, è del fatto che tu non mi piaci.
Mettiti al mio posto. Sto facendo un film che avrebbe dovuto essere interpretato da un'unica persona. Io lo so - e qui lo sanno tutti.
A cominciare dal titolo - "L'ultimo eroe". Ora dimmi, forse questo titolo ti sembra adatto a me? Per la miseria, no!
Passiamo all'autore: Edward Abbey - un ranger che lavora nella Foresta Pietrificata. Prima ancora che lo incontrassi, mi avevano già detto che nei suoi libri egli scrive di sé stesso.  E così, ecco che lui arriva ad Albuquerque, dove noi stiamo girando, e io vado all'aeroporto per incontrarlo. Dall'aereo scendono cinquanta persone, ma io lo riconosco immediatamente. E perché? Perché sembra uguale a Gary Cooper. E poi, a peggiorare le cose, ecco che quando ci incontriamo, mi accorgo che lui parla come Cooper!
Così cominciamo a girare, e la prima cosa che imparo, è che ho un regista insensibile al quale importa solo di rendere realista il film. Ti cito alla lettera quale è stata la prima - ed unica - istruzione che ho ricevuto: «Prova a fare questo nel modo in cui lo avrebbe fatto Gary Cooper.»
Quando dico «unica», non intendo dire che io ha avuto questo tipo di «suggerimento» una volta  - voglio dire che è stata questa l'unica cosa che mi sono sentito dire prima di ogni ciak - e ora, a partire dal quarto giorno, ho deciso che per arrivare il più vicino possibile ad essere Coop dovevo solo smettere di sentirmi perseguitato.
Ah - ma ecco qual è il problema. Mi era sembrato facile - dal momento che mi dicevo che Coop è un uomo semplice - naturale. Così, anch’io sarei stato solo naturale. Ed è stato qui che ho imparato la più grande delle grandi lezioni. Non è affatto facile. E ora sono tentato di chiederti: come diavolo riesci a farlo? Qual è il segreto di questa pace che hai  con te stesso e con il tuo mondo? Ma poi mi rendo conto che non è possibile che tu possa dirmelo – dovrei prima vivere la tua intera vita - crescere - cambiare - maturare – allo stesso modo in cui lo hai fatto tu.
E quindi ora so che, nel migliore dei casi, arriverò solo ad esserci lontanamente vicino. Ma la cosa più importante è che ora so anche che solo il provare ad essere te mi renderà un me migliore.
Perciò, Coop - anche se sono arrabbiato con te - grazie.

Kirk

fonte: Letters of Note

mercoledì 20 febbraio 2019

Manca la prima pagina

L’assenza della prima pagina
- di Alberto Manguel -

Nel XVI secolo, fra gli studiosi eruditi ebrei, presero forma quelli che erano due modi diversi di leggere la Bibbia. Una, cresciuta intorno alle scuole sefardite della Spagna e del Nord Africa, che preferiva riassumere il contenuto di un passaggio senza analizzarne i dettagli che lo componevano, concentrandosi in tal modo sul senso letterale e grammaticale. L'altra, invece aveva avuto origine nelle città aschenazite, che potevano essere localizzate soprattutto in Francia, in Polonia e nei paesi della Germania, la quale analizzava ciascun verso ed ogni parola, cercando nel testo tutti i sensi possibili. Kafka apparteneva a quest'ultima tradizione. Dato che il fine dei talmudisti aschenaziti era quello di esplorare e chiarire il testo a tutti i livelli di significato concepibili, per poi discuterne i diversi commenti, e quindi tornare al testo originale, ecco che la letteratura talmudica - come conseguenza di tutte le letture svoltesi precedentemente -   divenne una successione di testi che si auto-generavano e che sviluppavano così  letture che non sostituivano, ma che bensì includevano, tutte quelle precedenti.
Quando leggeva, il talmudista aschenazita in genere usava quattro simultanei livelli di significato, differenti rispetti a quelli proposti da Dante. I quattro livelli venivano designati mediante l'acronimo "PaRDeS": lo "Pshat", o senso letterale, il "Remez", o senso limitato, il "Drash”, o elaborazione razionale e il "Sod", o significato occulto, segreto, mistico. Pertanto, leggere era un'attività che non arrivava mai ad essere completa. A Leví Yitzhak di Berdichev, uno dei grandi maestri chassidici del XVIII secolo, venne chiesto perché mai mancasse la prima pagina di ciascuno di quelli che erano i trattati del Talmud babilonese, cosa che obbligava il lettore ad iniziare a leggere partendo dalla seconda pagina.
« Affinché lo studioso,» - rispose il rabbino - « per molte delle pagine che legge, non debba dimenticare che non è ancora arrivato alla prima pagina ».
[...]
Ernst Pawel, alla fine della sua lucida biografia di Kafka, scritta nel 1984, osserva che «gli studi su Kafka e sulla sua opera comprendono attualmente circa 15.000 titoli scritti in molte delle più importanti lingue del mondo». Kafka è stato letto in maniera letterale, allegorica, politica, psicologicamente. Il fatto che le letture superino sempre in numero i testi che le hanno originate è un'osservazione banale; tuttavia, il fatto che un lettore si disperi mentre l'altro ride leggendo la stessa pagina, ci rivela qualcosa della natura creativa dell'atto di leggere. Mia figlia Rachel ha letto La Metamorfosi quando aveva 13 anni, e gli sembrò un'opera comica; Gustav Janouch, l'amico di Kafka, la lesse come una parabola religiosa ed etica; Bertolt Brecht l'ha letta come l'opera dell'«unico scrittore che fosse veramente bolscevico»; il critico ungherese György Lukács, come un tipico prodotto di una borghesia decadente; Borges, come una nuova versione dei paradossi di Zenone; la studiosa francese Marthe Robert l'ha letta come un esempio dell'idioma tedesco spinto fino al suo più alto grado di chiarezza; e Vladimir Nabokov lo ha letto (in parte) come un'allegoria dell'Angst [paura, angoscia] adolescenziale. Il fatto è che le storie e i racconti di Kafka, nutriti dalla sua esperienza di lettore, offrono e sottraggono, allo stesso tempo, l'illusione di comprendere; minacciano e compromettono, per così dire, l'abilità dello scrittore Kafka nel riuscire a soddisfare il lettore Kafka. Sette anni dopo che Kafka era morto in un sanatorio vicino Vienna, il poeta portoghese Fernando Pessoa scrisse nella propria Autopsicografia che «il poeta è un fingitore». E poi aggiunse: «E quanti leggono ciò che scrive / nel dolore letto sentono  / non quello che il poeta vive / ma solo quello che non hanno».
« In generale,» - scriveva Kafka nel 1904 al suo amico Oskar Pollak - «credo che dobbiamo leggere solo libri che ci mordano e ci graffiano. Se il libro che stiamo leggendo non costringe a svegliarci come se fosse un colpo al cranio, perché disturbarci a leggerlo? Perché ci faccia felici, come dici tu? Santo cielo, saremmo lo stesso ugualmente felici anche se non avessimo alcun libro! I libri che ci rendono felici potremmo scriverceli da soli, se non avessimo scelta. Ciò di cui abbiamo bisogno sono libri che ci colpiscano come una dolorosa disgrazia, come se fosse la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, libri che ci facciano sentire come se fossimo stati banditi nella giungla più remota, il più lontano possibile da qualsiasi presenza umana, qualcosa che assomigli al suicidio. Un libro dev'essere l'ascia che spacca il mare ghiacciato che abbiamo dentro. È questo che penso.»

- Alberto Manguel -  da "Una storia della lettura" -

fonte: Calle del Orco. Blog de Literatura. Grandes encuentros

La dittatura del lavoro

Terrore del lavoro e critica del lavoro
- La tolleranza repressiva e i suoi limiti -
di Ernst Lohoff

La moderna società occidentale ha preso l'abitudine di autocelebrarsi in quanto asilo di tolleranza e di libertà; per quel che riguarda il soggetto moderno del mercato, dichiara con soddisfazione di non avere tabù. A ben guardare, tuttavia, la sua pretesa assenza di pregiudizi si rivela una mera forma di indolenza, e come il risultato di un adattamento mimetico alla situazione di amministrazione fiduciaria che la società di mercato esige. Questo condiziona i suoi membri ad accettare il fatto che, in ultima analisi, le decisioni relative al contenuto della ricchezza sociale e lo sviluppo delle relazioni sociali non si basano su degli accordi coscienti, ma su un'istanza anonima, in questo caso il mercato . Che si tratti di senape o di detersivo, di preferenze sessuali o di opinioni politiche, tutto quello che può essere messo sul mercato è giusto, e tutto quello che si rivela invendibile è sbagliato. Il moderno soggetto delle merci vive la propria vita senza riserve e pregiudizi solo a partire dal fatto che ha dovuto interiorizzare  l'idea secondo la quale  il mercato è l'unica istanza legittima di riconoscimento, che ritraduce sempre le relazioni sociali in relazioni di domanda e offerta. L'identità fra tolleranza regnante e sottomissione incondizionata al potere della merce e de mercato. non gli conferisce tuttavia solo le caratteristiche di ciò che Herbert Marcuse ha definito «tolleranza repressiva». Questa connessione interna determina allo stesso tempo sia i suoi limiti che il punto in cui le cose si invertono, il punto in cui l'abbrutimento di un soggetto del mercato, capace di digerire tutto, lascia il posto al puro odio. In una società dove il fatto di essere vendibili è il criterio che decide tutto, opporle un criterio di principio è una cosa inaccettabile ed asociale: significa rifiutare di rischiare la propria pelle, e mancare di disciplina per quanto riguarda il conformare sé stessi alla merce. Da questo punto di vista, la comprensione delle merci che di solito è così cool si rivela del tutto priva di senso dell'umorismo, e vede rosso nei confronti di chi si mostra recalcitrante: chi non ha soldi deve lavorare, o quanto meno deve dimostrare di essere disposto a farlo senza condizioni, altrimenti perde il diritto di esistere. La valvola di sicurezza che permette di sopportare il fatto di doversi considerare in maniera permanente come «capitale umano», consiste in una mobilitazione permanente contro chiunque rifiuti di sottomettersi incondizionatamente ad un tale costrizione.
Questo spirito di «tolleranza repressiva» soffia anche nella sfera politica. Oggi, sono soprattutto i virtuosi dell'eclettismo, quelli che si mostrano «non dogmatici», e che sono «in grado di imparare» e «aperti a qualsiasi dialogo», sono loro quelli in grado di riunire la più ampia maggioranza. In politica, tuttavia, non possono parlare tutti di tutto con tutti, dal momento che è impensabile poter rimettere in discussione l'obiettivo degli obiettivi sociali: « il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro! » Ci si esprime liberamente poiché si è convenuto da tempo che si possono affrontare solo le questioni intercambiabili fra di esse: ci si chiede sempre come si può fare ad imporre quelli che sono gli imperativi economici che vengono venduti con l'etichetta di «modernizzazione», ma non ci si chiede mai se e perché dobbiamo imporli.
Chi non rispetta questo regolamento interno e mette in discussione l'orientamento forzato della discussione sull'accumulazione e i posti di lavoro, si trova rapidamente di fronte a quelli che sono i limiti all'apertura della discussione imposti dai funzionari. La crescita economica ed il lavoro sono altrettanto intoccabili di quanto lo era la Santa Trinità nel Medioevo. Perciò anche la società di mercato ha un suo tabù, che nessuno può toccare senza che gli spiriti più illuminati si trasformino di colpo in crociati.

Chi vuole sbarazzarsi del capitale, deve cominciare a sbarazzarsi del lavoro
Nel 1999, il gruppo Krisis è intervenuto nel dibattito pubblico con un Manifesto contro il lavoro. Già il suo titolo tradisce che questa pubblicazione si proponeva lo scandalo. Laddove tutte le tendenze politiche gridano all'unisono la loro unanimità nei confronti del lavoro, questo manifesto dimostrava che ciò che è buono per la merce è di fatto fondamentalmente sbagliato per gli uomini, e che la rinnovata promessa di prospettive sociali in materia di lavoro, sotto l'egida della New Economy, da parte di un capitalismo dei servizi e dei nuovi padroni che non posseggono altro che la propria forza lavoro, è in realtà una vera e propria minaccia.
Tuttavia, per gli autori si trattava di molto più che una puntuale provocazione. L'ideologia del lavoro, tanto grottesca quanto onnipresente, rimanda direttamente a quello che è il cuore della regolazione capitalista. Attaccando il lavoro, significa attaccare allo stesso tempo sia il fondamento che il punto debole dell'ordine della società di mercato che viene portato alla luce. Il lavoro forzato ed il riferimento positivo ad esso, ha giocato un ruolo chiave nell'addestramento che ha reso gli uomini i soggetti della merce.
Per quanto riguarda la critica ed il superamento del lavoro, si tratta assai più che di semplici esagerazioni polemiche. Esse vanno prese alla lettera. Si basano sull'ipotesi secondo cui una critica teorica del capitalismo, che sia coerente e all'altezza della nostra epoca, non può più che essere formulata sotto forma di una critica conseguente del lavoro.
Il tentativo di rifondare la critica del capitalismo con l'aiuto di una critica radicale del lavoro, si distingue perciò in maniera assai chiara dall'anticapitalismo tradizionale. Nel discorso dei sociologhi, si parlerebbe probabilmente di un «cambiamento di paradigma». La dottrina tradizionale della sinistra ha sempre visto nel lavoro e nel capitale due principi, ciascuno ostile all'altro, e  nella loro relazione un'opposizione assoluta. Considera il lavoro come se fosse una «eterna necessità naturale», che ha assunto una forma, proveniente dall'esterno, impostagli da un capitale che lo usa in maniera sbagliata al fine di produrre profitto. La critica del lavoro vede le cose diversamente. Per essa. le categorie di «lavoro» e di «capitale» designano un'opposizione che è solo relativa, un'opposizione che avviene all'interno di un unico contesto sociale. Si tratta di due aspetti del medesimo ordine: che considerano lo stesso contesto sociale, ma lo fanno sotto due angolature differenti. In linea di principio, il lavoro non è altro che la forma di attività specifica del capitalismo. Da questo punto di vista, il capitale è «lavoro coagulato». L'identità fra lavoro e capitale non può essere compresa nel modo in cui lo fa la «dottrina oggettiva del valore», la quale viene adottata da tutti, dal marxismo fino all'economia nazionale classica, dottrina seconda la quale il lavoro sarebbe la «sostanza» del valore, e quindi sarebbe l'unica fonte di valore. La critica del lavoro va più lontano. Per essa, tutto ciò che partecipa al dominio capitalista appartiene già proprio alla categoria del lavoro.
Chiunque canti le lodi del lavoro, ammette concettualmente l'indifferenza del movimento della valorizzazione rispetto a quello che è il suo contenuto materiale, e quindi ammette l'idea secondo cui la produzione capitalista  sarebbe quindi fine a sé stessa. Inoltre, una simile melodia non la si intona senza considerare ovvia la separazione sociale delle sfere, e senza allo stesso tempo svalutare implicitamente tutte quelle aree di attività che non sono direttamente integrabili nella valorizzazione capitalista. È soprattutto per tale motivo, che una rigorosa critica concettuale delle strutture patriarcali è formulabile solo come critica del lavoro, e non può procedere da una concezione positiva del lavoro. Ciò perché l'approccio  della critica del lavoro consente di legare insieme queste dimensioni della critica del capitalismo e di comprenderle più chiaramente di quanto riesca a fare la terminologia marxista che preferisce i  tradizionali concetti anticapitalisti.

Il lavoro ed il suo contenuto
Il processo di valorizzazione del valore, per poter funzionare bene, vale a dire affinché possa essere accumulato del «lavoro morto» (del capitale, in questo caso) bisogna che esso assuma la forma di un qualsiasi valore d'uso. Il processo di valorizzazione capitalista non dispone tuttavia di un'istanza che gli consente di avvertire il proprio lato materiale. Finché prodotti del lavoro, che siano aerei da combattimento, cerotti o vasi da fiori, possono essere venduti con profitto, non esiste alcuna differenza fra loro. Nella misura in cui essi rappresentano del lavoro astratto interscambiabile, in quanto merci, socialmente sono una sola e medesima cosa. Tuttavia, questo livellamento non arriva sul lavoro dall'esterno, ma viene imposto al lavoro da parte dei capitalisti avidi di profitto, ma appartiene già alla categoria stessa del lavoro.
Del resto, per quanto concerne il contenuto sensibile, l'istruzione dei bambini, la produzione di gas tossici, la rappresentazione di spettacoli artistici di fronte ad un pubblico pagante, e la fabbricazione di mobili non hanno la benché minima cosa in comune. Se ci si concentra su ciò che viene fatto, se si fa astrazione dalla forma sociale nella quale tutto ciò viene prodotto, l'astrazione-lavoro si dissolve in maniera duplice. Innanzitutto, non vi è alcun segno che indichi l'esistenza di una sorta di affinità alla base di tutte le attività che consideriamo come se fossero lavoro. Quindi, dal punto di vista di un approccio puramente materiale, è del tutto impossibile spiegare perché una stessa attività - cantante di canzoni o coltivatore di fiori, per esempio - venga talvolta considerata un lavoro ed altre volte come se fosse un hobby, a seconda che serva a guadagnare soldi oppure no. Al di fuori di questa sussunzione sotto la stessa forma di costrizione sociale che consiste nel «vendersi», esiste pertanto una vasta gamma di attività concrete che creano della ricchezza, però non esiste alcuna forma di attività generale corrispondente a quello che si chiama «lavoro». Il lavoro è il prodotto di una riduzione forzata della ricchezza e della creazione di ricchezza alla produzione di merci, una riduzione che determina l'insieme della struttura sociale. Alle società pre-capitaliste non sono mai state baciate dall'idea bizzarra di costringere l'attività degli schiavi e quella degli uomini liberi, quella dei sacerdoti e quella dei navigatori ad entrare a forza in una categoria comune.
In tutte le lingue europee, le parole che servono oggi per designare il lavoro ci rimandano a quelle che sono le origini, sia dell'esistenza degli uomini socialmente dipendenti, sia, in maniera assai generica, all'angoscia e alla sofferenza, ma mai in nessun caso all'idea di un'attività socialmente riconosciuta. Anche una società post-capitalista avrebbe ben poche ragioni per attenersi ad un simile principio.

Il lavoro è un'attività che è arrivata alla sua stessa fine
La produzione capitalista si distingue per il fatto di essere arrivata essa stessa alla propria fine. La produzione di merci non trae la sua ragion d'essere dal mettere a disposizione dell'uomo quelli che sono i mezzi per soddisfare i proprio bisogni. Piuttosto, si produce nel nome della produzione: i bisogni esistono solamente per valorizzare tale produzione. La loro funzione è quella di aprire dei canali nei quali possa scorrere il flusso delle merci. Ragion per cui, in questa società così ricca non c'è posto per dei bisogni sociali, che il solo consumo delle merci non sarebbe in grado di appagare. Essi hanno diritto di cittadinanza solo nella misura in cui rispondono ad una domanda importante e si sottomettono al ciclo della riproduzione capitalista.
La critica marxista tradizionale del capitalismo non avrebbe potuto cantare le lodi del lavoro senza di fatto assumere l'assurda trasformazione dei mezzi in fini. Innalzare il lavoro al rango di contenuto centrale dell'esistenza umana significa tanto fare l'elogio del produttivismo in quanto fine in sé , quanto dire un forte «» alla crescita economica capitalistica. Successivamente, la contestazione ecologica ha fatto balenare l'idea che seppellire il mondo sotto una montagna di fabbriche e una montagna di merci somigliasse più ad una distruzione e ad una sottomissione, anziché ad una emancipazione. Fino a quando l'anticapitalismo rimarrà prigioniero dell'illusione di un rapporto positivo con il lavoro, esso considererà la follia produttivistica come se fosse solamente una questione sussidiaria rispetto alla vera e propria critica del capitalismo, e la fraintenderà. La critica conservatrice del consumo ha occupato questo posto che era stato lasciato vuoto, ed è riuscita a mobilitare persino quello che è il disgusto anticapitalista che deriva dal valore d'uso delle merci. Un'analisi del capitalismo riformulata come critica del lavoro, considera la miseria del bisogno e quella del valore d'uso. E le tratta come se fossero dei veri e propri elementi di una critica globale del movimento del valore , il quale è fine a sé stesso. La critica del lavoro specifica fino a che punto sia grottesco e cinico identificare la follia produttivistica con una soddisfazione a oltranza dei bisogni per poi contrapporli a qualsiasi ideologia del rigore. Costringere ad accumulare, a tagliare il potenziale umano e ridurre la ricchezza dei bisogni umani, tutto questo si coniuga bene.
La critica del lavoro rimuove concettualmente l'idea che non si tratta di farla finita solo con il lavoro astratto, quello che crea il valore. Bisogna che anche il lavoro concreto, l'arte e il modo in cui il capitale organizza l'appropriazione della natura, che tutto questo venga liberato . Bisogna andare al di là del lavoro in generale, al di là del lavoro concreto e astratto, poiché, in quanto lavoro, il lavoro concreto è innanzitutto nient'altro che il precipitato sensibile ed empirico di un processo di astrazione che lo trascende.

Il lavoro impoverisce
I suoi apologeti celebrano il lavoro come scatenamento della forza creatrice dell'uomo, ed il capitalismo come la società in cui applicazione, abilità ed efficacia hanno trovato il posto che spetta loro. In realtà, arruolare la produzione di ricchezza sensibile e metterla al servizio della grande macchina del lavoro e della valorizzazione può essere descritto come un processo volto a rendere l'uomo applicato. Un processo che se non fosse definito come positivo, apparirebbe piuttosto come un movimento di impoverimento, una cancellazione delle qualità significative dell'uomo. La considerevole ricchezza delle società pre-capitaliste era il risultato di attività produttive non uniformi che, essenzialmente, derivavano da quelli che erano i ritmi naturali, la tradizione e la proprietà dei materiali naturali cui dare forma. Il capitale ha distrutto quest'ordine per sostituirlo con l'onnipresenza di questa forma di attività sempre identica a sé stessa, aciclica e lineare, che è il lavoro. Applicare l'uomo, può di certo condurre ad una intensificazione di quelle che sono le sue relazioni con l'oggetto del proprio lavoro, e stimolare lo sviluppo della sua personalità, ma lo può fare solo nel senso per cui diciamo che le persone che sono state torturate hanno fatto un'esperienza assai intensa, dal momento che i loro corpi hanno avuto a che fare con degli strumenti di tortura. Il lavoro, in quanto attività che deve sempre risparmiare su sé stessa, e che deve ridurre tutto a quello che è il tempo che viene speso per ciascun prodotto, per ciascuna operazione - non è altro che questo ciò che si intende per «efficacia» -, vede la particolarità del suo oggetto solo come un ostacolo che rallenta il flusso continuo del lavoro.
Dal punto di vista del lavoro, concepito come uno sforzo continuo che ignora la fatica, il bisogno biologico che ha l'uomo di recuperare, e la sua tendenza a passare dall'attività al riposo, sembrano essere solo una fonte di disturbo, e che pertanto dev'essere possibile eliminare.  Possiamo quindi caratterizzare il lavoro come una guerra permanente su due fronti. Chi lavora si confronta con la propria corporeità e con la qualità sensibile dell'oggetto del suo lavoro come se fossero due nemici. Dei nemici che tuttavia esistono solo se egli rinuncia alla sua propria vita, per diventare una semplice risorsa.

Il lavoro è patriarcale
Il lavoro è una maniera miserabile di essere attivi: è il luogo di una perdita, non quello di un'acquisizione di ricchezza sensibile. A causa di questo intrinseco deficit, non ci si può riferire a tutto l'insieme delle aree della riproduzione sociale. Il dominio del lavoro non è assolutamente concepibile senza un importante settore di «attività nell'ombra» le quali, a causa del loro contenuto, non possono essere esercitate se non in condizioni in cui non possono essere altro che dispendio di muscoli nervi e cervello in maniera aciclica e lineare, e rifiutano di inserirsi nell'organizzazione come fonte di reddito. Non può esistere alcuna società senza che vengano allevati ed educati i bambini, e senza che ci siano degli individui che svolgono per sé stessi e per gli altri quelle che sono le mansioni della riproduzione quotidiana. La nobilitazione del lavoro,  trasformato in unica forma di attività sociale valida, coincide con il depredamento di quelle attività cosiddette «femminili» ed assegnate generalmente alle donne. Esse possono essere indispensabili quanto respirare, ma dal momento che non hanno l'innominabile qualità di produrre denaro a partire dal denaro, vengono relegate al rango di «cose private» ed inferiori, e rimangono in gran parte largamente invisibili. Fino a quando l'esistenza umana e la partecipazione alla ricchezza sociale non saranno, e non potranno essere, nient'altro che un residuo della valorizzazione del valore che viene realizzata dal grande mulino del lavoro, tali attività «femminili» saranno strutturalmente solo un tacito presupposto della riproduzione capitalista.  Le fioriture retoriche sul giorno della festa delle donne e delle madri, e gli astuti esercizi di definire in maniera intelligente il lavoro, dicendo che non dovrebbe essere solo sinonimo di guadagnarsi il pane, ma dovrebbe abbracciare anche il lavoro domestico non cambiano in niente questo stato di fatto delle cose.

Il lavoro è sinonimo di separazione dei settori
Per spiegare le follie storiche specifiche della società di mercato, la coscienza dominante ricorre all'aiuto di una natura umana eterna, e quindi la proietta nel passato e nel futuro. Agli occhi del senso comune e dei suoi sostenitori teorici, una tale funzione viene svolta dal lavoro in una maniera che è già diventata classica. Ufficialmente, si vorrebbe vedere nel lavoro nient'altro che il «metabolismo fra l'uomo e la natura» (Marx). Ma, insieme al concetto di lavoro, viene introdotta in maniera subdola, come se fosse irreversibile, tutta la costellazione della società di mercato.
Chi parla di «lavoro» non esprime affatto il solo fatto banale che gli uomini di qualsiasi società, per realizzare e sviluppare le forze produttive, devono essere attivi in un modo o nell'altro. Questo termine non ha solo il senso di ciò che viene acquisito per contrasto con le altre forme di pratiche umane che vengono generalmente incluse in quelli che sono dei campi (pre-)sociali, sotto le categorie di «tempo libero», «hobby», «volontariato» o «vita familiare».
Se tutto quanto fosse «lavoro», niente sarebbe «lavoro», e questa parola finirebbe per perdere ogni senso. Quando il lavoro viene elevato al rango di una «eterna necessità naturale», di nascosto, si presuppone sempre che la produzione di ricchezza debba avvenire come se fosse una forma di spossessamento della vita accuratamente separato d tutte le altre espressioni di quest'ultima, e che costituisca una sfera propria, astratta dal resto del contesto sociale. Il soggetto delle merci può trovare «naturale» tutto questo. Egli è abituato a a condurre un'esistenza divisa, e a decomporsi in un uomo privato, un cittadino ed un laborioso omuncolo che esegue, giorno dopo giorno, per otto ore, un'attività senza alcun legame con la vita e che si riduce ad un nucleo che si articola nell'economia delle imprese e le assegna un fine. Questa struttura schizofrenica costituisce il momento centrale del terrore della società di mercato. Nella descrizione dei rapporti pre-capitalisti, l'astrazione-lavoro è semplicemente inappropriata. Laddove il lavoro era connesso, come nelle società tradizionali, a dei contesti sociali e a delle forme durevoli di dominio, non poteva costituire un fenomeno separato. Eppure, l'ipotesi secondo la quale anche ogni società post-capitalista dovrà conoscere il lavoro è persino ancora più pericolosa di questo anacronismo. In quanto neutralizza l'idea di un superamento della separazione dei diversi settori. Ora, senza questo oggi non può esistere nessuna corrente che possa dirsi a giusto titolo anticapitalista.
L'idea marxista classica secondo cui la società futura si decomporrà in un «regno della libertà» e in un «regno della necessità» estende a tutte le epoche, in maniera logorroica, la scissione della nostra esistenza in quella che è. da una parte, una vita privata vuota e, dall'altra, un lavoro diventato folle. Dire che una società liberata non può assomigliare al Paese della Cuccagna e non può mettere fine ad ogni momento di quella che è la necessità materiale, è una cosa. L'idea di voler organizzare questa società liberata come se fosse un regno della libertà separato da quello della necessità, è tutta un'altra cosa.

L'anticapitalismo dev'essere una critica del lavoro, o non sarà
Il concetto di lavoro appartiene simultaneamente a due mondi. Da un lato, può essere considerato - insieme al valore - come la categoria più astratta e più generale della critica dell'economia politica, dove dopo tutto designa solo quello che è l'aspetto attivo del valore. Dall'altro lato, il lavoro, consiste di milioni di comportamenti e di esperienze quotidiane immediate. A partire dal modo in cui in questi ultimi anni si sono evolute le cose, una simile tensione ha guadagnato un componente aggiuntiva. L'esigenza di lavorare, il vincolo sistematicamente rafforzato a venderlo, si trova al centro della guerra sociale preventiva che oggi - tenuto conto della vera crisi che attraversa la società del lavoro -  i guardiani dell'ordine dominante portano avanti contro il materiale umano che è caduto nelle loro mani. Nell'epoca della disoccupazione di lunga durata, nell'era dei lavori forzati ufficiali, ma anche delle rivendicazioni salariali intercategoriali al ribasso, nell'epoca  questi nuovi padroni, i quali non posseggono altro che la propria forza lavoro, il concetto di lavoro è, oggi più che mai, il luogo di una guerra.
Al giorno d'oggi, il clima sociale è quello del bullismo, dell'isolamento e dell'ego-mania che conferiscono al progetto di emancipazione un carattere disperatamente obsoleto. Ma questa tendenza ad un concorrenza totale che non conosce più alcun limite, ha un solo presupposto, quello della sottomissione incondizionata alla dittatura del lavoro. Un anticapitalista oggi, può trovare capacità di diffusione e può divenire offensivo solo se comprende che è in questo diktat della valorizzazione e del lavoro che si focalizza il potere che corrisponde alla forma di socializzazione oggi dominante, e solo se fa di questo diktat l'oggetto della sua critica. Fino a quando la sinistra continuerà  a nuotare - tanto teoricamente quanto praticamente - nell'oceano della realtà, ma trascurerà, nel corso della sua immersione, di fermarsi al livello della contraddizione oggi raggiunta dalla società di mercato, un livello in cui il maledetto lavoro può essere descritto solo come un lavoro diventato folle, non potrà rimettere mai più piede sulla terraferma. Non ci sarà più nessun anticapitalismo del XXI secolo, a meno che quest'ultimo non faccia del lavoro l'oggetto della sua critica.

La repressione e l'emancipazione
Per più di cent'anni, generazioni dopo generazioni, gli anticapitalisti sono scesi in guerra contro lo status quo in nome del lavoro. Fatta eccezione per alcune posizioni marginali - per esempio, pensiamo qui al Diritto all'Ozio di Paul Lafargue - i «rivoluzionari», così come i «riformisti»,, hanno continuato a identificare «liberazione» e «lavoro». Ovviamente, questa tenace equazione non è stata solo il risultato di un blackout collettivo. Questo malinteso, che è tornato in servizio l'ultima volta all'epoca delle riforme social-democratiche avviate dal movimento del '68, deve la sua plausibilità a due tendenze secolari. Da una parte, per tutto il tempo in cui il sistema della valorizzazione capitalista è stato sostenuto da un movimento di espansione storica, il lavoro è stato compreso come se fosse un principio di integrazione sociale. Questa grande fame di forza lavoro superflua è stata interrotta, solo temporaneamente, da delle crisi economiche ed ha offerto, sulla base dell'ordine stabilito, una vera e propria prospettiva per coloro che possedevano una tale merce.
Dall'altro lato, dovuto a delle relazioni autoritarie personali più antiche provenienti dall'inizio della storia della società di mercato, l'impulso emancipatorio potrebbe interferire con l'imperativo del sistema, e distruggere le barriere sociali tradizionali per sostituirle con delle relazioni oggettivate fra i soggetti delle merci e quelli del lavoro, divenuti uguali.
La progressiva ri-focalizzazione del dominio sociale sull'imperativo dell'accumulazione e sul reclutamento dello Stato al servizio dell'obiettivo della valorizzazione del valore concepito come un fine in sé, è stato percepito non tanto come l'aggravarsi e il completarsi  di un controllo sociale oggettivato, ma piuttosto come il rifiuto di un potere visibile e personale. La «gabbia d'acciaio» della servitù (Max Weber), che conosce e tratta gli uomini come se fossero delle maschere teatrali, dei soggetti del diritto,  oppure anche dei cittadini, può perciò apparire anche come se fosse il suo esatto contrario, potrebbe essere visto come un potenziale grado di libertà ottenuto a caro prezzo.
Di certo, i combattenti anticapitalisti non avevano mai sognato di trasformare i direttori delle fabbriche in «parti sociali», e le masse proletarie affamate in volgari proprietari di un alloggio, di una Mercedes e di un libretto sindacale. Dal momento che hanno insistito a difendere a spada tratta il principio capitalista del lavoro, i loro eroici sforzi non avrebbero potuto portare altro che a questo.
La lotta contro gli interessi particolari della borghesia, e per il miglioramento delle condizioni di vita delle masse, non ha fatto altro che rimuovere dall'ordine dominante solo quelle cose che erano diventate anacronistiche, vale a dire tutto quello che, in base ai criteri di razionalità della società di mercato,  si era dimostrato contro-producente.
È contro le sue stesse intenzioni, che la contestazione anticapitalista ha perciò fatto sì che la logica delle merci penetrasse le masse. Senza un tale eccesso, senza questa determinazione a porre fine al dominio capitalista, difficilmente questo «successo della modernizzazione» sarebbe stato possibile.
Di certo, tutto questo ha anche coinciso con un progressivo indebolimento di questo impulso tuttora ancora attivo. L'idea paradossale secondo la quale si potrebbe mettere fine allo sfruttamento ed al dominio, e allo stesso tempo continuare a gridare il proprio sostegno al lavoro, ha dimostrato di essere solamente un errore di gioventù nella storia della società di mercato. Questo tuttavia non è un segno di maturità, ma si tratta piuttosto di quel rimbambimento che spinge a dedurre che bisogna gettare alle ortiche l'idea di emancipazione. Ad essere anacronistica non è l'idea della liberazione, ma la dittatura del lavoro, e lo è ancora di più l'idea che esista un collegamento fra emancipazione e lavoro.

La comunità di coloro che lavorano
Per il soggetto, lavorare non significa solo adattare l'oggetto al quale si lavora, sottometterlo a delle leggi in modo che esso sia razionalmente redditizio ed utilizzabile. Lavorare implica anche sempre il fatto che sia anche il soggetto stesso ad adattarsi. Ed è nel momento stesso in cui il soggetto che lavora impara ad identificarsi  con la violenza che egli esercita sull'oggetto, che questa esperienza repressiva lascia inevitabilmente il suo marchio su di lui. Si tratta del trauma che deriva dall'essere sottomesso ad un lavoro che spiega il rifiuto di coloro che non possono o non vogliono corrispondere all'immagine ideale dell'uomo bianco sempre pronto a lavorare. Laddove il lavoro viene onorato, sono proprio costoro che si rifiutano ad essere considerati come inferiori, e a condurre un'esistenza marginale.
Malgrado tutti i discorsi a proposito dell'uguaglianza, questa logica di svalutazione è regolarmente risuonata anche nei comunicati dell'ala sinistra del grande movimento a favore del lavoro del XIX e del XX secolo - assai spesso in maniera appena udibile - ma è stata soprattutto l'ala destra ad aver formulato le dottrine dell'inferiorità inerente all'ethos del lavoro.
Durante la fase ascendente della società del lavoro, questa tendenza all'esclusione è rimasta un contro-movimento all'interno del grande movimento storico di inclusione. L'idea di tenere una distanza comune rispetto a ciò che è «inferiore» - nel senso di coloro che glorificano il lavoro - è stata oggetto di un tacito accordo nel campo del lavoro. Per poter passare dall'identificazione col processo di divisione del lavoro nelle grandi fabbriche all'alleanza con la grande «comunità industriale» - che può essere interpretata come trascendente le classi sociali - rimaneva da compiere solo un passo.
Le ideologie concorrenti dell'epoca avevano il loro denominatore comune nella fraternità del lavoro. La variante socialista della religione del lavoro, si era posta come obiettivo quello di liberare dal presunto potere usurpatore del rendimento, la forma di attività capitalista, che veniva compresa come se fosse una forza eterna ed originale. Per fare questo, aveva definito quella che era la classe degli «attivi», opponendola in maniera categorica al capitale. Ad una tale provocazione, gli avversari di destra e i liberali non hanno reagito celebrando il capitale come se fosse esso stesso il suo proprio fine, ma hanno risposto proponendo la definizione alternativa di una «comunità del lavoro» che trascendeva le classi sociali. La legittimazione del dominio capitalista consisteva nel designare quelli che erano gli incarichi della funzione del capitale, come se fossero una sorta di lavoratori specifici, come se fosse quella parte della «comunità del lavoro» cui vengono affidati i compiti del coordinamento e dell'organizzazione.

La deificazione del lavoro e l'antisemitismo
La nobilitazione del capitale e la sua elevazione al rango di primo servitore del lavoro, sono legati, soprattutto nella variante di destra di questo gesto, alla sua divisione proiettiva. Il capitale produttivo è stato incaricato di incarnare la sensibilità concreta e tangibile, e si è visto concedere l'aureola di «Bene», mentre il capitale monetario e finanziario si è visto attribuire tutto ciò che è astratto e distruttivo dominio capitalista. Da questa esternalizzazione di quello che è l'Orrore del capitalismo - che ha fornito l'immagine del nemico indispensabile alla costruzione di una comunità del lavoro che trascendesse la classe - alla sua personalizzazione antisemita, il passo è breve. Non è solamente nella visione nazionalsocialista del mondo che la fantasmagorica separazione fra «capitale creatore» e «capitale accaparratore» è stata mescolata con l'opposizione tra, da un lato, il «lavoro nazionale» sacro e, dall'altro lato, il «denaro ebreo» senza radici. Esattamente allo stesso modo in cui la religione del lavoro è perfettamente compatibile con le idee razziste, essa si distingue anche per la sua profonda affinità con i modelli di pensiero antisemita. In Germania, la cose si sono evolute in maniera singolare nella misura in cui la «patria del lavoro» ha fatto il passo che porta dall'odio ideologico ad una pratica di sterminio industriale organizzata dallo Stato. Avviene solo nel nazismo che la mobilitazione totale del lavoro nazionale, trova il suo compimento nella costruzione di fabbriche da incubo che pretendono di essere anticapitaliste - delle «fabbriche di distruzione del valore» (Moishe Postone) - nelle quali, insieme alle reali vittime ebree, devono essere anche fantasmagoricamente gasati e bruciati i momenti del dominio del lavoro astratto separato dal lavoro idealizzato. La fraternità fra «coloro che lavorano con la loro testa» e «quelli che lavorano con le loro mani» è stata suggellata dalla morte di coloro che erano stati precedentemente esclusi dalla definizione della comunità tedesca del lavoro.
La Shoah non ha solo fatto saltare il quadro della funzionalità della società di mercato, a partire dal fatto che ha perseguito un obiettivo irrazionale, ma lo ha fatto anche perché ha rovesciato la relazione intima fra lavoro e distruzione. Mentre, normalmente, la distruzione è un momento che accompagna la prassi capitalista e l'accumulazione di profitto costituisce l'obiettivo degli obiettivi, con Auschwitz, l'annientamento è diventato indipendente al punto da costituire un proprio contenuto. Il fatto che degli uomini siano stati costretti a lavorare in massa fino a morire per il bene della produzione di ricchezza capitalista, è ciò che è sempre avvenuto a partire dai tempi dell'«accumulazione originale». Nel genocidio degli ebrei europei, invece, lo sfruttamento reale del lavoro ha funzionato come un semplice mezzo, mentre il vero obiettivo era diventato l'annientamento della vita. La possibilità di questa trasformazione, ci informa riguardo l'esistenza di un rapporto fra lavoro e morte assai più intimo di quello che presuppone un anticapitalismo orientato verso il solo paradigma dello sfruttamento.

Due tipi di svalutazione della merce forza lavoro
Gli anni '70 hanno segnato una svolta nella storia della società del lavoro. Con la fine del boom fordista avvenuto nel dopoguerra, la fame incessantemente in crescita della forza lavoro da parte della macchina della valorizzazione ha cominciato a diminuire, e non solo temporaneamente. Si può perfino arrivare a dire che, sulla scia della rivoluzione microelettronica, il capitale ha finito per sviluppare una forma di anoressia strutturale. L'espansione secolare della società del lavoro è arrivata alla fine ed è cominciata la sua crisi.
Visto in sé, il deprezzamento della merce forza lavoro non è affatto un fenomeno sconosciuto. Nelle crisi cicliche del passato, in un quadro di distruzione periodica di capitale, il capitale variabile era stato anche ritirato dalla circolazione. Si pensi alla grande depressione o alla crisi dell'economia globale. Al giorno d'oggi, tuttavia, sotto il segno della «jobless growth» [crescita senza posti di lavoro] che viene spesso invocata, quello cui assistiamo, a fronte del deprezzamento generale del capitale, è un processo indipendente di svalutazione specifica della merce forza lavoro, il quale trascende il ciclo. Il rapporto fra deprezzamento e valorizzazione della forza lavora si è profondamente trasformato. Dalla rivoluzione industriale fino agli anni 1970, rispetto alla liberazione della forza lavoro, nel medio e lungo termine aveva dominato la valorizzazione del materiale umano superfluo. Oggi, la valorizzazione della forza lavoro è diventato un momento che trascende e determina lo sviluppo storico.
Per quello che è il contenuto sociale della dittatura del lavoro, questo cambiamento non è rimasto senza conseguenze. Se nel corso di un lungo periodo di tempo, il dominio del lavoro ha funzionato come un sistema di integrazione repressiva - quanto meno nei centri del mercato mondiale - la struttura della società del lavoro ha assunto sempre più il carattere di un ordine sociale brutale. La modernizzazione della società, spesso invocata, ed in particolare la «trasformazione dello stato sociale», hanno fornito il quadro giuridico ed istituzionale richiesto. Anche nei paesi che formano il cuore del capitalismo, si trova un esercito sempre più numeroso di uomini emarginati, che non trovano lavoro e che sono solo precari, a fronte di un nucleo della società lavorativa che diventa sempre più piccolo.
È soprattutto nei paesi della zona euro che il nuovo ordine sociale del lavoro, basato su un'ampia eliminazione del normale contratto di lavoro, ha tardato a prendere forma. In Germania, forse è stato solo con la «riforma del mercato del lavoro» del governo Schröder che la diga ha cominciato a cedere. In Francia, si prevede che la già considerevole precarizzazione continuerà ancora ad aumentare. Al contrario, le relazioni di legittimazione, comuni al capitale ed al lavoro, si trasformano più rapidamente - e questo avviene a livello mondiale. Il discorso neoliberista degli anni '80 e '90 aveva già imposto un cambio di ruolo relativamente a quella che era l'immagine fordista del mondo. Se fino ad allora, il capitale aveva dovuto essere venduto come lavoro, ora ormai il lavoro dev'essere percepito come «capitale umano». Non si può più dire che i padroni sono dei lavoratori di un tipo un po' diverso; bisogna dire che oramai i lavoratori che posseggono la merce forza lavoro sono i «padroni della loro forza lavoro».
Non ci si dovrebbe più accontentare di respingere questa singolare Trasvalutazione come se fosse solo una vuota fraseologia. In realtà, essa ci informa in maniera distorta su quelli che sono dei cambiamenti veramente radicali; in questo caso ci informa dell'avvenuto passaggio ad una società del lavoro metodicamente de-solidarizzata ed atomizzata, alla quale ci prepara mentalmente. Laddove i salari hanno subito una mutazione, ed hanno cessato di essere il prezzo di una merce negoziato collettivamente, per divenire il profitto generato da un capitale umano isolato, sono le estreme differenze a riflettere come la griglia salariale sia la cosa più normale del mondo. Simili disparità fanno parte del rischio che si assume ogni padrone, un rischio che a volte può perfino essere eliminato del tutto. I lavoratori salariati dell'epoca fordista  vivevano ancora in un mondo che era doppiamente protetto dalla concorrenza. Da una parte, dal punto di vista dell'attività individuale, la cooperazione nel processo di produzione fondava una comunità repressiva e paternalista; dall'altra, la formattazione della società del lavoro eseguita da parte delle economie nazionali, poneva degli ostacoli alla concorrenza. La figura centrale del moderno «padrone di capitale umano» è, al contrario, partigiano di una sussunzione diretta sotto il diktat del mercato mondiale, e di un progressivo indebolimento dei poteri intermediari (sindacati, comitati aziendali, Stato-provvidenza).
In contrasto con l'iniziale società dell'apartheid mondiale del XXI secolo, il modello produttivo fordista, oggi obsoleto, sotto quella luce ci appare quasi indulgente, grazie al suo triplo accordo musicale composto da un lavoro di massa, da un consumo di massa e da una politica di protezione sociale. Ma un orientamento nostalgico volto a ripristinare l'onore perduto del lavoro , non ha alcuno spazio nell'attuale lotta odierna contro un capitalismo divenuto folle. Mirare a ristabilire l'onore perduto del lavoro non sarebbe solamente un obiettivo modesto, ma, nelle attuali condizioni, significherebbe disarmare in anticipo l'opposizione. La metamorfosi che rende il lavoro un principio repressivo di integrazione sociale, un principio di esclusione e di disintegrazione, è irreversibile. Una sinistra che sogna un ritorno a delle forme meno cattive di servitù laboriosa, e che trasfiguri quest'ultima rendendola qualcosa di straordinario migliorandola, rimarrebbe, dal punto di vista pratico, disarmata ed impotente, e dal punto di vista ideologico cadrebbe in una zona grigiastra dove svaniscono le differenza con quelli che sono i modelli esplicativi nazionali e reazionari. La risposta adeguata al processo di deprezzamento reale del lavoro, non è una rivalutazione del lavoro rispetto al capitale, ma un programma di deprezzamento emancipatorio consapevole rispetto a quello che abbiamo di più sacro, vale a dire il lavoro.

- Ernst Lohoff, 2000 - Pubblicato il 9 febbraio 2019 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme