Terrore del lavoro e critica del lavoro
- La tolleranza repressiva e i suoi limiti -
di Ernst Lohoff
La moderna società occidentale ha preso l'abitudine di autocelebrarsi in quanto asilo di tolleranza e di libertà; per quel che riguarda il soggetto moderno del mercato, dichiara con soddisfazione di non avere tabù. A ben guardare, tuttavia, la sua pretesa assenza di pregiudizi si rivela una mera forma di indolenza, e come il risultato di un adattamento mimetico alla situazione di amministrazione fiduciaria che la società di mercato esige.
Questo condiziona i suoi membri ad accettare il fatto che, in ultima analisi, le decisioni relative al contenuto della ricchezza sociale e lo sviluppo delle relazioni sociali non si basano su degli accordi coscienti, ma su un'istanza anonima, in questo caso il mercato . Che si tratti di senape o di detersivo, di preferenze sessuali o di opinioni politiche, tutto quello che può essere messo sul mercato è giusto, e tutto quello che si rivela invendibile è sbagliato. Il moderno soggetto delle merci vive la propria vita senza riserve e pregiudizi solo a partire dal fatto che ha dovuto interiorizzare l'idea secondo la quale il mercato è l'unica istanza legittima di riconoscimento, che ritraduce sempre le relazioni sociali in relazioni di domanda e offerta. L'identità fra tolleranza regnante e sottomissione incondizionata al potere della merce e de mercato. non gli conferisce tuttavia solo le caratteristiche di ciò che Herbert Marcuse ha definito «tolleranza repressiva». Questa connessione interna determina allo stesso tempo sia i suoi limiti che il punto in cui le cose si invertono, il punto in cui l'abbrutimento di un soggetto del mercato, capace di digerire tutto, lascia il posto al puro odio. In una società dove il fatto di essere vendibili è il criterio che decide tutto, opporle un criterio di principio è una cosa inaccettabile ed asociale: significa rifiutare di rischiare la propria pelle, e mancare di disciplina per quanto riguarda il conformare sé stessi alla merce. Da questo punto di vista, la comprensione delle merci che di solito è così cool si rivela del tutto priva di senso dell'umorismo, e vede rosso nei confronti di chi si mostra recalcitrante: chi non ha soldi deve lavorare, o quanto meno deve dimostrare di essere disposto a farlo senza condizioni, altrimenti perde il diritto di esistere. La valvola di sicurezza che permette di sopportare il fatto di doversi considerare in maniera permanente come «capitale umano», consiste in una mobilitazione permanente contro chiunque rifiuti di sottomettersi incondizionatamente ad un tale costrizione.
Questo spirito di «tolleranza repressiva» soffia anche nella sfera politica. Oggi, sono soprattutto i virtuosi dell'eclettismo, quelli che si mostrano «non dogmatici», e che sono «in grado di imparare» e «aperti a qualsiasi dialogo», sono loro quelli in grado di riunire la più ampia maggioranza. In politica, tuttavia, non possono parlare tutti di tutto con tutti, dal momento che è impensabile poter rimettere in discussione l'obiettivo degli obiettivi sociali: « il lavoro, il lavoro e ancora il lavoro! » Ci si esprime liberamente poiché si è convenuto da tempo che si possono affrontare solo le questioni intercambiabili fra di esse: ci si chiede sempre come si può fare ad imporre quelli che sono gli imperativi economici che vengono venduti con l'etichetta di «modernizzazione», ma non ci si chiede mai se e perché dobbiamo imporli.
Chi non rispetta questo regolamento interno e mette in discussione l'orientamento forzato della discussione sull'accumulazione e i posti di lavoro, si trova rapidamente di fronte a quelli che sono i limiti all'apertura della discussione imposti dai funzionari. La crescita economica ed il lavoro sono altrettanto intoccabili di quanto lo era la Santa Trinità nel Medioevo. Perciò anche la società di mercato ha un suo tabù, che nessuno può toccare senza che gli spiriti più illuminati si trasformino di colpo in crociati.
Chi vuole sbarazzarsi del capitale, deve cominciare a sbarazzarsi del lavoro
Nel 1999, il gruppo Krisis è intervenuto nel dibattito pubblico con un Manifesto contro il lavoro. Già il suo titolo tradisce che questa pubblicazione si proponeva lo scandalo. Laddove tutte le tendenze politiche gridano all'unisono la loro unanimità nei confronti del lavoro, questo manifesto dimostrava che ciò che è buono per la merce è di fatto fondamentalmente sbagliato per gli uomini, e che la rinnovata promessa di prospettive sociali in materia di lavoro, sotto l'egida della New Economy, da parte di un capitalismo dei servizi e dei nuovi padroni che non posseggono altro che la propria forza lavoro, è in realtà una vera e propria minaccia.
Tuttavia, per gli autori si trattava di molto più che una puntuale provocazione. L'ideologia del lavoro, tanto grottesca quanto onnipresente, rimanda direttamente a quello che è il cuore della regolazione capitalista. Attaccando il lavoro, significa attaccare allo stesso tempo sia il fondamento che il punto debole dell'ordine della società di mercato che viene portato alla luce. Il lavoro forzato ed il riferimento positivo ad esso, ha giocato un ruolo chiave nell'addestramento che ha reso gli uomini i soggetti della merce.
Per quanto riguarda la critica ed il superamento del lavoro, si tratta assai più che di semplici esagerazioni polemiche. Esse vanno prese alla lettera. Si basano sull'ipotesi secondo cui una critica teorica del capitalismo, che sia coerente e all'altezza della nostra epoca, non può più che essere formulata sotto forma di una critica conseguente del lavoro.
Il tentativo di rifondare la critica del capitalismo con l'aiuto di una critica radicale del lavoro, si distingue perciò in maniera assai chiara dall'anticapitalismo tradizionale. Nel discorso dei sociologhi, si parlerebbe probabilmente di un «cambiamento di paradigma». La dottrina tradizionale della sinistra ha sempre visto nel lavoro e nel capitale due principi, ciascuno ostile all'altro, e nella loro relazione un'opposizione assoluta. Considera il lavoro come se fosse una «eterna necessità naturale», che ha assunto una forma, proveniente dall'esterno, impostagli da un capitale che lo usa in maniera sbagliata al fine di produrre profitto. La critica del lavoro vede le cose diversamente. Per essa. le categorie di «lavoro» e di «capitale» designano un'opposizione che è solo relativa, un'opposizione che avviene all'interno di un unico contesto sociale. Si tratta di due aspetti del medesimo ordine: che considerano lo stesso contesto sociale, ma lo fanno sotto due angolature differenti. In linea di principio, il lavoro non è altro che la forma di attività specifica del capitalismo. Da questo punto di vista, il capitale è «lavoro coagulato».
L'identità fra lavoro e capitale non può essere compresa nel modo in cui lo fa la «dottrina oggettiva del valore», la quale viene adottata da tutti, dal marxismo fino all'economia nazionale classica, dottrina seconda la quale il lavoro sarebbe la «sostanza» del valore, e quindi sarebbe l'unica fonte di valore. La critica del lavoro va più lontano. Per essa, tutto ciò che partecipa al dominio capitalista appartiene già proprio alla categoria del lavoro.
Chiunque canti le lodi del lavoro, ammette concettualmente l'indifferenza del movimento della valorizzazione rispetto a quello che è il suo contenuto materiale, e quindi ammette l'idea secondo cui la produzione capitalista sarebbe quindi fine a sé stessa. Inoltre, una simile melodia non la si intona senza considerare ovvia la separazione sociale delle sfere, e senza allo stesso tempo svalutare implicitamente tutte quelle aree di attività che non sono direttamente integrabili nella valorizzazione capitalista. È soprattutto per tale motivo, che una rigorosa critica concettuale delle strutture patriarcali è formulabile solo come critica del lavoro, e non può procedere da una concezione positiva del lavoro. Ciò perché l'approccio della critica del lavoro consente di legare insieme queste dimensioni della critica del capitalismo e di comprenderle più chiaramente di quanto riesca a fare la terminologia marxista che preferisce i tradizionali concetti anticapitalisti.
Il lavoro ed il suo contenuto
Il processo di valorizzazione del valore, per poter funzionare bene, vale a dire affinché possa essere accumulato del «lavoro morto» (del capitale, in questo caso) bisogna che esso assuma la forma di un qualsiasi valore d'uso. Il processo di valorizzazione capitalista non dispone tuttavia di un'istanza che gli consente di avvertire il proprio lato materiale. Finché prodotti del lavoro, che siano aerei da combattimento, cerotti o vasi da fiori, possono essere venduti con profitto, non esiste alcuna differenza fra loro. Nella misura in cui essi rappresentano del lavoro astratto interscambiabile, in quanto merci, socialmente sono una sola e medesima cosa. Tuttavia, questo livellamento non arriva sul lavoro dall'esterno, ma viene imposto al lavoro da parte dei capitalisti avidi di profitto, ma appartiene già alla categoria stessa del lavoro.
Del resto, per quanto concerne il contenuto sensibile, l'istruzione dei bambini, la produzione di gas tossici, la rappresentazione di spettacoli artistici di fronte ad un pubblico pagante, e la fabbricazione di mobili non hanno la benché minima cosa in comune. Se ci si concentra su ciò che viene fatto, se si fa astrazione dalla forma sociale nella quale tutto ciò viene prodotto, l'astrazione-lavoro si dissolve in maniera duplice. Innanzitutto, non vi è alcun segno che indichi l'esistenza di una sorta di affinità alla base di tutte le attività che consideriamo come se fossero lavoro. Quindi, dal punto di vista di un approccio puramente materiale, è del tutto impossibile spiegare perché una stessa attività - cantante di canzoni o coltivatore di fiori, per esempio - venga talvolta considerata un lavoro ed altre volte come se fosse un hobby, a seconda che serva a guadagnare soldi oppure no. Al di fuori di questa sussunzione sotto la stessa forma di costrizione sociale che consiste nel «vendersi», esiste pertanto una vasta gamma di attività concrete che creano della ricchezza, però non esiste alcuna forma di attività generale corrispondente a quello che si chiama «lavoro». Il lavoro è il prodotto di una riduzione forzata della ricchezza e della creazione di ricchezza alla produzione di merci, una riduzione che determina l'insieme della struttura sociale. Alle società pre-capitaliste non sono mai state baciate dall'idea bizzarra di costringere l'attività degli schiavi e quella degli uomini liberi, quella dei sacerdoti e quella dei navigatori ad entrare a forza in una categoria comune.
In tutte le lingue europee, le parole che servono oggi per designare il lavoro ci rimandano a quelle che sono le origini, sia dell'esistenza degli uomini socialmente dipendenti, sia, in maniera assai generica, all'angoscia e alla sofferenza, ma mai in nessun caso all'idea di un'attività socialmente riconosciuta. Anche una società post-capitalista avrebbe ben poche ragioni per attenersi ad un simile principio.
Il lavoro è un'attività che è arrivata alla sua stessa fine
La produzione capitalista si distingue per il fatto di essere arrivata essa stessa alla propria fine. La produzione di merci non trae la sua ragion d'essere dal mettere a disposizione dell'uomo quelli che sono i mezzi per soddisfare i proprio bisogni. Piuttosto, si produce nel nome della produzione: i bisogni esistono solamente per valorizzare tale produzione. La loro funzione è quella di aprire dei canali nei quali possa scorrere il flusso delle merci. Ragion per cui, in questa società così ricca non c'è posto per dei bisogni sociali, che il solo consumo delle merci non sarebbe in grado di appagare. Essi hanno diritto di cittadinanza solo nella misura in cui rispondono ad una domanda importante e si sottomettono al ciclo della riproduzione capitalista.
La critica marxista tradizionale del capitalismo non avrebbe potuto cantare le lodi del lavoro senza di fatto assumere l'assurda trasformazione dei mezzi in fini. Innalzare il lavoro al rango di contenuto centrale dell'esistenza umana significa tanto fare l'elogio del produttivismo in quanto fine in sé , quanto dire un forte «sì» alla crescita economica capitalistica.
Successivamente, la contestazione ecologica ha fatto balenare l'idea che seppellire il mondo sotto una montagna di fabbriche e una montagna di merci somigliasse più ad una distruzione e ad una sottomissione, anziché ad una emancipazione. Fino a quando l'anticapitalismo rimarrà prigioniero dell'illusione di un rapporto positivo con il lavoro, esso considererà la follia produttivistica come se fosse solamente una questione sussidiaria rispetto alla vera e propria critica del capitalismo, e la fraintenderà. La critica conservatrice del consumo ha occupato questo posto che era stato lasciato vuoto, ed è riuscita a mobilitare persino quello che è il disgusto anticapitalista che deriva dal valore d'uso delle merci. Un'analisi del capitalismo riformulata come critica del lavoro, considera la miseria del bisogno e quella del valore d'uso. E le tratta come se fossero dei veri e propri elementi di una critica globale del movimento del valore , il quale è fine a sé stesso. La critica del lavoro specifica fino a che punto sia grottesco e cinico identificare la follia produttivistica con una soddisfazione a oltranza dei bisogni per poi contrapporli a qualsiasi ideologia del rigore. Costringere ad accumulare, a tagliare il potenziale umano e ridurre la ricchezza dei bisogni umani, tutto questo si coniuga bene.
La critica del lavoro rimuove concettualmente l'idea che non si tratta di farla finita solo con il lavoro astratto, quello che crea il valore. Bisogna che anche il lavoro concreto, l'arte e il modo in cui il capitale organizza l'appropriazione della natura, che tutto questo venga liberato . Bisogna andare al di là del lavoro in generale, al di là del lavoro concreto e astratto, poiché, in quanto lavoro, il lavoro concreto è innanzitutto nient'altro che il precipitato sensibile ed empirico di un processo di astrazione che lo trascende.
Il lavoro impoverisce
I suoi apologeti celebrano il lavoro come scatenamento della forza creatrice dell'uomo, ed il capitalismo come la società in cui applicazione, abilità ed efficacia hanno trovato il posto che spetta loro. In realtà, arruolare la produzione di ricchezza sensibile e metterla al servizio della grande macchina del lavoro e della valorizzazione può essere descritto come un processo volto a rendere l'uomo applicato. Un processo che se non fosse definito come positivo, apparirebbe piuttosto come un movimento di impoverimento, una cancellazione delle qualità significative dell'uomo.
La considerevole ricchezza delle società pre-capitaliste era il risultato di attività produttive non uniformi che, essenzialmente, derivavano da quelli che erano i ritmi naturali, la tradizione e la proprietà dei materiali naturali cui dare forma. Il capitale ha distrutto quest'ordine per sostituirlo con l'onnipresenza di questa forma di attività sempre identica a sé stessa, aciclica e lineare, che è il lavoro. Applicare l'uomo, può di certo condurre ad una intensificazione di quelle che sono le sue relazioni con l'oggetto del proprio lavoro, e stimolare lo sviluppo della sua personalità, ma lo può fare solo nel senso per cui diciamo che le persone che sono state torturate hanno fatto un'esperienza assai intensa, dal momento che i loro corpi hanno avuto a che fare con degli strumenti di tortura. Il lavoro, in quanto attività che deve sempre risparmiare su sé stessa, e che deve ridurre tutto a quello che è il tempo che viene speso per ciascun prodotto, per ciascuna operazione - non è altro che questo ciò che si intende per «efficacia» -, vede la particolarità del suo oggetto solo come un ostacolo che rallenta il flusso continuo del lavoro.
Dal punto di vista del lavoro, concepito come uno sforzo continuo che ignora la fatica, il bisogno biologico che ha l'uomo di recuperare, e la sua tendenza a passare dall'attività al riposo, sembrano essere solo una fonte di disturbo, e che pertanto dev'essere possibile eliminare. Possiamo quindi caratterizzare il lavoro come una guerra permanente su due fronti. Chi lavora si confronta con la propria corporeità e con la qualità sensibile dell'oggetto del suo lavoro come se fossero due nemici. Dei nemici che tuttavia esistono solo se egli rinuncia alla sua propria vita, per diventare una semplice risorsa.
Il lavoro è patriarcale
Il lavoro è una maniera miserabile di essere attivi: è il luogo di una perdita, non quello di un'acquisizione di ricchezza sensibile. A causa di questo intrinseco deficit, non ci si può riferire a tutto l'insieme delle aree della riproduzione sociale. Il dominio del lavoro non è assolutamente concepibile senza un importante settore di «attività nell'ombra» le quali, a causa del loro contenuto, non possono essere esercitate se non in condizioni in cui non possono essere altro che dispendio di muscoli nervi e cervello in maniera aciclica e lineare, e rifiutano di inserirsi nell'organizzazione come fonte di reddito. Non può esistere alcuna società senza che vengano allevati ed educati i bambini, e senza che ci siano degli individui che svolgono per sé stessi e per gli altri quelle che sono le mansioni della riproduzione quotidiana. La nobilitazione del lavoro, trasformato in unica forma di attività sociale valida, coincide con il depredamento di quelle attività cosiddette «femminili» ed assegnate generalmente alle donne. Esse possono essere indispensabili quanto respirare, ma dal momento che non hanno l'innominabile qualità di produrre denaro a partire dal denaro, vengono relegate al rango di «cose private» ed inferiori, e rimangono in gran parte largamente invisibili. Fino a quando l'esistenza umana e la partecipazione alla ricchezza sociale non saranno, e non potranno essere, nient'altro che un residuo della valorizzazione del valore che viene realizzata dal grande mulino del lavoro, tali attività «femminili» saranno strutturalmente solo un tacito presupposto della riproduzione capitalista. Le fioriture retoriche sul giorno della festa delle donne e delle madri, e gli astuti esercizi di definire in maniera intelligente il lavoro, dicendo che non dovrebbe essere solo sinonimo di guadagnarsi il pane, ma dovrebbe abbracciare anche il lavoro domestico non cambiano in niente questo stato di fatto delle cose.
Il lavoro è sinonimo di separazione dei settori
Per spiegare le follie storiche specifiche della società di mercato, la coscienza dominante ricorre all'aiuto di una natura umana eterna, e quindi la proietta nel passato e nel futuro. Agli occhi del senso comune e dei suoi sostenitori teorici, una tale funzione viene svolta dal lavoro in una maniera che è già diventata classica. Ufficialmente, si vorrebbe vedere nel lavoro nient'altro che il «metabolismo fra l'uomo e la natura» (Marx). Ma, insieme al concetto di lavoro, viene introdotta in maniera subdola, come se fosse irreversibile, tutta la costellazione della società di mercato.
Chi parla di «lavoro» non esprime affatto il solo fatto banale che gli uomini di qualsiasi società, per realizzare e sviluppare le forze produttive, devono essere attivi in un modo o nell'altro. Questo termine non ha solo il senso di ciò che viene acquisito per contrasto con le altre forme di pratiche umane che vengono generalmente incluse in quelli che sono dei campi (pre-)sociali, sotto le categorie di «tempo libero», «hobby», «volontariato» o «vita familiare».
Se tutto quanto fosse «lavoro», niente sarebbe «lavoro», e questa parola finirebbe per perdere ogni senso. Quando il lavoro viene elevato al rango di una «eterna necessità naturale», di nascosto, si presuppone sempre che la produzione di ricchezza debba avvenire come se fosse una forma di spossessamento della vita accuratamente separato d tutte le altre espressioni di quest'ultima, e che costituisca una sfera propria, astratta dal resto del contesto sociale. Il soggetto delle merci può trovare «naturale» tutto questo. Egli è abituato a a condurre un'esistenza divisa, e a decomporsi in un uomo privato, un cittadino ed un laborioso omuncolo che esegue, giorno dopo giorno, per otto ore, un'attività senza alcun legame con la vita e che si riduce ad un nucleo che si articola nell'economia delle imprese e le assegna un fine. Questa struttura schizofrenica costituisce il momento centrale del terrore della società di mercato. Nella descrizione dei rapporti pre-capitalisti, l'astrazione-lavoro è semplicemente inappropriata. Laddove il lavoro era connesso, come nelle società tradizionali, a dei contesti sociali e a delle forme durevoli di dominio, non poteva costituire un fenomeno separato. Eppure, l'ipotesi secondo la quale anche ogni società post-capitalista dovrà conoscere il lavoro è persino ancora più pericolosa di questo anacronismo. In quanto neutralizza l'idea di un superamento della separazione dei diversi settori. Ora, senza questo oggi non può esistere nessuna corrente che possa dirsi a giusto titolo anticapitalista.
L'idea marxista classica secondo cui la società futura si decomporrà in un «regno della libertà» e in un «regno della necessità» estende a tutte le epoche, in maniera logorroica, la scissione della nostra esistenza in quella che è. da una parte, una vita privata vuota e, dall'altra, un lavoro diventato folle. Dire che una società liberata non può assomigliare al Paese della Cuccagna e non può mettere fine ad ogni momento di quella che è la necessità materiale, è una cosa. L'idea di voler organizzare questa società liberata come se fosse un regno della libertà separato da quello della necessità, è tutta un'altra cosa.
L'anticapitalismo dev'essere una critica del lavoro, o non sarà
Il concetto di lavoro appartiene simultaneamente a due mondi. Da un lato, può essere considerato - insieme al valore - come la categoria più astratta e più generale della critica dell'economia politica, dove dopo tutto designa solo quello che è l'aspetto attivo del valore. Dall'altro lato, il lavoro, consiste di milioni di comportamenti e di esperienze quotidiane immediate. A partire dal modo in cui in questi ultimi anni si sono evolute le cose, una simile tensione ha guadagnato un componente aggiuntiva. L'esigenza di lavorare, il vincolo sistematicamente rafforzato a venderlo, si trova al centro della guerra sociale preventiva che oggi - tenuto conto della vera crisi che attraversa la società del lavoro - i guardiani dell'ordine dominante portano avanti contro il materiale umano che è caduto nelle loro mani. Nell'epoca della disoccupazione di lunga durata, nell'era dei lavori forzati ufficiali, ma anche delle rivendicazioni salariali intercategoriali al ribasso, nell'epoca questi nuovi padroni, i quali non posseggono altro che la propria forza lavoro, il concetto di lavoro è, oggi più che mai, il luogo di una guerra.
Al giorno d'oggi, il clima sociale è quello del bullismo, dell'isolamento e dell'ego-mania che conferiscono al progetto di emancipazione un carattere disperatamente obsoleto. Ma questa tendenza ad un concorrenza totale che non conosce più alcun limite, ha un solo presupposto, quello della sottomissione incondizionata alla dittatura del lavoro. Un anticapitalista oggi, può trovare capacità di diffusione e può divenire offensivo solo se comprende che è in questo diktat della valorizzazione e del lavoro che si focalizza il potere che corrisponde alla forma di socializzazione oggi dominante, e solo se fa di questo diktat l'oggetto della sua critica. Fino a quando la sinistra continuerà a nuotare - tanto teoricamente quanto praticamente - nell'oceano della realtà, ma trascurerà, nel corso della sua immersione, di fermarsi al livello della contraddizione oggi raggiunta dalla società di mercato, un livello in cui il maledetto lavoro può essere descritto solo come un lavoro diventato folle, non potrà rimettere mai più piede sulla terraferma. Non ci sarà più nessun anticapitalismo del XXI secolo, a meno che quest'ultimo non faccia del lavoro l'oggetto della sua critica.
La repressione e l'emancipazione
Per più di cent'anni, generazioni dopo generazioni, gli anticapitalisti sono scesi in guerra contro lo status quo in nome del lavoro. Fatta eccezione per alcune posizioni marginali - per esempio, pensiamo qui al Diritto all'Ozio di Paul Lafargue - i «rivoluzionari», così come i «riformisti»,, hanno continuato a identificare «liberazione» e «lavoro». Ovviamente, questa tenace equazione non è stata solo il risultato di un blackout collettivo. Questo malinteso, che è tornato in servizio l'ultima volta all'epoca delle riforme social-democratiche avviate dal movimento del '68, deve la sua plausibilità a due tendenze secolari. Da una parte, per tutto il tempo in cui il sistema della valorizzazione capitalista è stato sostenuto da un movimento di espansione storica, il lavoro è stato compreso come se fosse un principio di integrazione sociale. Questa grande fame di forza lavoro superflua è stata interrotta, solo temporaneamente, da delle crisi economiche ed ha offerto, sulla base dell'ordine stabilito, una vera e propria prospettiva per coloro che possedevano una tale merce.
Dall'altro lato, dovuto a delle relazioni autoritarie personali più antiche provenienti dall'inizio della storia della società di mercato, l'impulso emancipatorio potrebbe interferire con l'imperativo del sistema, e distruggere le barriere sociali tradizionali per sostituirle con delle relazioni oggettivate fra i soggetti delle merci e quelli del lavoro, divenuti uguali.
La progressiva ri-focalizzazione del dominio sociale sull'imperativo dell'accumulazione e sul reclutamento dello Stato al servizio dell'obiettivo della valorizzazione del valore concepito come un fine in sé, è stato percepito non tanto come l'aggravarsi e il completarsi di un controllo sociale oggettivato, ma piuttosto come il rifiuto di un potere visibile e personale. La «gabbia d'acciaio» della servitù (Max Weber), che conosce e tratta gli uomini come se fossero delle maschere teatrali, dei soggetti del diritto, oppure anche dei cittadini, può perciò apparire anche come se fosse il suo esatto contrario, potrebbe essere visto come un potenziale grado di libertà ottenuto a caro prezzo.
Di certo, i combattenti anticapitalisti non avevano mai sognato di trasformare i direttori delle fabbriche in «parti sociali», e le masse proletarie affamate in volgari proprietari di un alloggio, di una Mercedes e di un libretto sindacale. Dal momento che hanno insistito a difendere a spada tratta il principio capitalista del lavoro, i loro eroici sforzi non avrebbero potuto portare altro che a questo.
La lotta contro gli interessi particolari della borghesia, e per il miglioramento delle condizioni di vita delle masse, non ha fatto altro che rimuovere dall'ordine dominante solo quelle cose che erano diventate anacronistiche, vale a dire tutto quello che, in base ai criteri di razionalità della società di mercato, si era dimostrato contro-producente.
È contro le sue stesse intenzioni, che la contestazione anticapitalista ha perciò fatto sì che la logica delle merci penetrasse le masse. Senza un tale eccesso, senza questa determinazione a porre fine al dominio capitalista, difficilmente questo «successo della modernizzazione» sarebbe stato possibile.
Di certo, tutto questo ha anche coinciso con un progressivo indebolimento di questo impulso tuttora ancora attivo. L'idea paradossale secondo la quale si potrebbe mettere fine allo sfruttamento ed al dominio, e allo stesso tempo continuare a gridare il proprio sostegno al lavoro, ha dimostrato di essere solamente un errore di gioventù nella storia della società di mercato. Questo tuttavia non è un segno di maturità, ma si tratta piuttosto di quel rimbambimento
che spinge a dedurre che bisogna gettare alle ortiche l'idea di emancipazione. Ad essere anacronistica non è l'idea della liberazione, ma la dittatura del lavoro, e lo è ancora di più l'idea che esista un collegamento fra emancipazione e lavoro.
La comunità di coloro che lavorano
Per il soggetto, lavorare non significa solo adattare l'oggetto al quale si lavora, sottometterlo a delle leggi in modo che esso sia razionalmente redditizio ed utilizzabile. Lavorare implica anche sempre il fatto che sia anche il soggetto stesso ad adattarsi. Ed è nel momento stesso in cui il soggetto che lavora impara ad identificarsi con la violenza che egli esercita sull'oggetto, che questa esperienza repressiva lascia inevitabilmente il suo marchio su di lui. Si tratta del trauma che deriva dall'essere sottomesso ad un lavoro che spiega il rifiuto di coloro che non possono o non vogliono corrispondere all'immagine ideale dell'uomo bianco sempre pronto a lavorare. Laddove il lavoro viene onorato, sono proprio costoro che si rifiutano ad essere considerati come inferiori, e a condurre un'esistenza marginale.
Malgrado tutti i discorsi a proposito dell'uguaglianza, questa logica di svalutazione è regolarmente risuonata anche nei comunicati dell'ala sinistra del grande movimento a favore del lavoro del XIX e del XX secolo - assai spesso in maniera appena udibile - ma è stata soprattutto l'ala destra ad aver formulato le dottrine dell'inferiorità inerente all'ethos del lavoro.
Durante la fase ascendente della società del lavoro, questa tendenza all'esclusione è rimasta un contro-movimento all'interno del grande movimento storico di inclusione. L'idea di tenere una distanza comune rispetto a ciò che è «inferiore» - nel senso di coloro che glorificano il lavoro - è stata oggetto di un tacito accordo nel campo del lavoro. Per poter passare dall'identificazione col processo di divisione del lavoro nelle grandi fabbriche all'alleanza con la grande «comunità industriale» - che può essere interpretata come trascendente le classi sociali - rimaneva da compiere solo un passo.
Le ideologie concorrenti dell'epoca avevano il loro denominatore comune nella fraternità del lavoro. La variante socialista della religione del lavoro, si era posta come obiettivo quello di liberare dal presunto potere usurpatore del rendimento, la forma di attività capitalista, che veniva compresa come se fosse una forza eterna ed originale. Per fare questo, aveva definito quella che era la classe degli «attivi», opponendola in maniera categorica al capitale. Ad una tale provocazione, gli avversari di destra e i liberali non hanno reagito celebrando il capitale come se fosse esso stesso il suo proprio fine, ma hanno risposto proponendo la definizione alternativa di una «comunità del lavoro» che trascendeva le classi sociali. La legittimazione del dominio capitalista consisteva nel designare quelli che erano gli incarichi della funzione del capitale, come se fossero una sorta di lavoratori specifici, come se fosse quella parte della «comunità del lavoro» cui vengono affidati i compiti del coordinamento e dell'organizzazione.
La deificazione del lavoro e l'antisemitismo
La nobilitazione del capitale e la sua elevazione al rango di primo servitore del lavoro, sono legati, soprattutto nella variante di destra di questo gesto, alla sua divisione proiettiva. Il capitale produttivo è stato incaricato di incarnare la sensibilità concreta e tangibile, e si è visto concedere l'aureola di «Bene», mentre il capitale monetario e finanziario si è visto attribuire tutto ciò che è astratto e distruttivo dominio capitalista. Da questa esternalizzazione di quello che è l'Orrore del capitalismo - che ha fornito l'immagine del nemico indispensabile alla costruzione di una comunità del lavoro che trascendesse la classe - alla sua personalizzazione antisemita, il passo è breve. Non è solamente nella visione nazionalsocialista del mondo che la fantasmagorica separazione fra «capitale creatore» e «capitale accaparratore» è stata mescolata con l'opposizione tra, da un lato, il «lavoro nazionale» sacro e, dall'altro lato, il «denaro ebreo» senza radici. Esattamente allo stesso modo in cui la religione del lavoro è perfettamente compatibile con le idee razziste, essa si distingue anche per la sua profonda affinità con i modelli di pensiero antisemita. In Germania, la cose si sono evolute in maniera singolare nella misura in cui la «patria del lavoro» ha fatto il passo che porta dall'odio ideologico ad una pratica di sterminio industriale organizzata dallo Stato. Avviene solo nel nazismo che la mobilitazione totale del lavoro nazionale, trova il suo compimento nella costruzione di fabbriche da incubo che pretendono di essere anticapitaliste - delle «fabbriche di distruzione del valore» (Moishe Postone) - nelle quali, insieme alle reali vittime ebree, devono essere anche fantasmagoricamente gasati e bruciati i momenti del dominio del lavoro astratto separato dal lavoro idealizzato. La fraternità fra «coloro che lavorano con la loro testa» e «quelli che lavorano con le loro mani» è stata suggellata dalla morte di coloro che erano stati precedentemente esclusi dalla definizione della comunità tedesca del lavoro.
La Shoah non ha solo fatto saltare il quadro della funzionalità della società di mercato, a partire dal fatto che ha perseguito un obiettivo irrazionale, ma lo ha fatto anche perché ha rovesciato la relazione intima fra lavoro e distruzione. Mentre, normalmente, la distruzione è un momento che accompagna la prassi capitalista e l'accumulazione di profitto costituisce l'obiettivo degli obiettivi, con Auschwitz, l'annientamento è diventato indipendente al punto da costituire un proprio contenuto. Il fatto che degli uomini siano stati costretti a lavorare in massa fino a morire per il bene della produzione di ricchezza capitalista, è ciò che è sempre avvenuto a partire dai tempi dell'«accumulazione originale». Nel genocidio degli ebrei europei, invece, lo sfruttamento reale del lavoro ha funzionato come un semplice mezzo, mentre il vero obiettivo era diventato l'annientamento della vita. La possibilità di questa trasformazione, ci informa riguardo l'esistenza di un rapporto fra lavoro e morte assai più intimo di quello che presuppone un anticapitalismo orientato verso il solo paradigma dello sfruttamento.
Due tipi di svalutazione della merce forza lavoro
Gli anni '70 hanno segnato una svolta nella storia della società del lavoro. Con la fine del boom fordista avvenuto nel dopoguerra, la fame incessantemente in crescita della forza lavoro da parte della macchina della valorizzazione ha cominciato a diminuire, e non solo temporaneamente. Si può perfino arrivare a dire che, sulla scia della rivoluzione microelettronica, il capitale ha finito per sviluppare una forma di anoressia strutturale. L'espansione secolare della società del lavoro è arrivata alla fine ed è cominciata la sua crisi.
Visto in sé, il deprezzamento della merce forza lavoro non è affatto un fenomeno sconosciuto. Nelle crisi cicliche del passato, in un quadro di distruzione periodica di capitale, il capitale variabile era stato anche ritirato dalla circolazione. Si pensi alla grande depressione o alla crisi dell'economia globale. Al giorno d'oggi, tuttavia, sotto il segno della «jobless growth» [crescita senza posti di lavoro] che viene spesso invocata, quello cui assistiamo, a fronte del deprezzamento generale del capitale, è un processo indipendente di svalutazione specifica della merce forza lavoro, il quale trascende il ciclo. Il rapporto fra deprezzamento e valorizzazione della forza lavora si è profondamente trasformato. Dalla rivoluzione industriale fino agli anni 1970, rispetto alla liberazione della forza lavoro, nel medio e lungo termine aveva dominato la valorizzazione del materiale umano superfluo. Oggi, la valorizzazione della forza lavoro è diventato un momento che trascende e determina lo sviluppo storico.
Per quello che è il contenuto sociale della dittatura del lavoro, questo cambiamento non è rimasto senza conseguenze. Se nel corso di un lungo periodo di tempo, il dominio del lavoro ha funzionato come un sistema di integrazione repressiva - quanto meno nei centri del mercato mondiale - la struttura della società del lavoro ha assunto sempre più il carattere di un ordine sociale brutale. La modernizzazione della società, spesso invocata, ed in particolare la «trasformazione dello stato sociale», hanno fornito il quadro giuridico ed istituzionale richiesto. Anche nei paesi che formano il cuore del capitalismo, si trova un esercito sempre più numeroso di uomini emarginati, che non trovano lavoro e che sono solo precari, a fronte di un nucleo della società lavorativa che diventa sempre più piccolo.
È soprattutto nei paesi della zona euro che il nuovo ordine sociale del lavoro, basato su un'ampia eliminazione del normale contratto di lavoro, ha tardato a prendere forma. In Germania, forse è stato solo con la «riforma del mercato del lavoro» del governo Schröder che la diga ha cominciato a cedere. In Francia, si prevede che la già considerevole precarizzazione continuerà ancora ad aumentare. Al contrario, le relazioni di legittimazione, comuni al capitale ed al lavoro, si trasformano più rapidamente - e questo avviene a livello mondiale. Il discorso neoliberista degli anni '80 e '90 aveva già imposto un cambio di ruolo relativamente a quella che era l'immagine fordista del mondo. Se fino ad allora, il capitale aveva dovuto essere venduto come lavoro, ora ormai il lavoro dev'essere percepito come «capitale umano». Non si può più dire che i padroni sono dei lavoratori di un tipo un po' diverso; bisogna dire che oramai i lavoratori che posseggono la merce forza lavoro sono i «padroni della loro forza lavoro».
Non ci si dovrebbe più accontentare di respingere questa singolare Trasvalutazione come se fosse solo una vuota fraseologia. In realtà, essa ci informa in maniera distorta su quelli che sono dei cambiamenti veramente radicali; in questo caso ci informa dell'avvenuto passaggio ad una società del lavoro metodicamente de-solidarizzata ed atomizzata, alla quale ci prepara mentalmente. Laddove i salari hanno subito una mutazione, ed hanno cessato di essere il prezzo di una merce negoziato collettivamente, per divenire il profitto generato da un capitale umano isolato, sono le estreme differenze a riflettere come la griglia salariale sia la cosa più normale del mondo. Simili disparità fanno parte del rischio che si assume ogni padrone, un rischio che a volte può perfino essere eliminato del tutto.
I lavoratori salariati dell'epoca fordista vivevano ancora in un mondo che era doppiamente protetto dalla concorrenza. Da una parte, dal punto di vista dell'attività individuale, la cooperazione nel processo di produzione fondava una comunità repressiva e paternalista; dall'altra, la formattazione della società del lavoro eseguita da parte delle economie nazionali, poneva degli ostacoli alla concorrenza. La figura centrale del moderno «padrone di capitale umano» è, al contrario, partigiano di una sussunzione diretta sotto il diktat del mercato mondiale, e di un progressivo indebolimento dei poteri intermediari (sindacati, comitati aziendali, Stato-provvidenza).
In contrasto con l'iniziale società dell'apartheid mondiale del XXI secolo, il modello produttivo fordista, oggi obsoleto, sotto quella luce ci appare quasi indulgente, grazie al suo triplo accordo musicale composto da un lavoro di massa, da un consumo di massa e da una politica di protezione sociale. Ma un orientamento nostalgico volto a ripristinare l'onore perduto del lavoro , non ha alcuno spazio nell'attuale lotta odierna contro un capitalismo divenuto folle. Mirare a ristabilire l'onore perduto del lavoro non sarebbe solamente un obiettivo modesto, ma, nelle attuali condizioni, significherebbe disarmare in anticipo l'opposizione. La metamorfosi che rende il lavoro un principio repressivo di integrazione sociale, un principio di esclusione e di disintegrazione, è irreversibile. Una sinistra che sogna un ritorno a delle forme meno cattive di servitù laboriosa, e che trasfiguri quest'ultima rendendola qualcosa di straordinario migliorandola, rimarrebbe, dal punto di vista pratico, disarmata ed impotente, e dal punto di vista ideologico cadrebbe in una zona grigiastra dove svaniscono le differenza con quelli che sono i modelli esplicativi nazionali e reazionari. La risposta adeguata al processo di deprezzamento reale del lavoro, non è una rivalutazione del lavoro rispetto al capitale, ma un programma di deprezzamento emancipatorio consapevole rispetto a quello che abbiamo di più sacro, vale a dire il lavoro.
- Ernst Lohoff, 2000 - Pubblicato il 9 febbraio 2019 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme