Caccia alle donne / Donne a casa
- di Ana Villar -
La caccia alle streghe è stata uno dei più sanguinosi genocidi dell'epoca moderna. Che cosa ha istigato una simile politica di sterminio? Perché sono state le donne il suo principale obiettivo? Silvia Federici, nel suo "Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria", risponde a queste e ad altre domande, (ri)aprendo quelli che sono dei dibattiti fondamentali sulla relazione fra capitalismo e patriarcato.
La caccia alle streghe è stata contemporanea alla colonizzazione ed allo sterminio delle popolazioni nel Nuovo Mondo, alle recinzioni inglesi, al commercio degli schiavi e alle leggi contro il vagabondaggio e i mendicanti. "Calibano e la strega" tenta di dimostrare che questo sterminio e disciplinamento intercontinentale delle donne, sottovalutato da molti storici, non è stato l'ultimo guizzo di un mondo feudale agonizzante, ma piuttosto una delle condizioni che ha reso possibile il capitalismo nascente.
Nel corso di almeno tre secoli, la classe dominante europea ha lanciato un'offensiva globale mirata ad espandere la sua base economica ed il suo dominio politico. Il mondo feudale, lungi dall'essere quell'immagine diffusa di un ordine statico, è stato scenario di conflitti sociali, di collassi della popolazione e di un'economia in crisi nella quale moltiplicare e disciplinare mano d'opera era diventata una questione di primaria importanza per la classe dominante. Dopo la peste nera, nel contesto della nuova crisi della popolazione del XVI e del XVII secolo, il controllo femminile sulla riproduzione venne percepito come una minaccia alla crescita ed alla stabilità economica che richiedeva un intervento statale volto a placare una simile minaccia. Nacque così la caccia alle streghe che ebbe due conseguenze fondamentali: la persecuzione della sessualità ed il confinamento delle donne all'ambito della riproduzione per mezzo della loro esclusione dal mercato del lavoro.
Letteralmente, venne demonizzata qualsiasi forma di contraccezione e di sessualità non procreativa. Si cominciò a processare le donne in gran numero, accusate di stregoneria e di infanticidio. Il sospetto ricadde anche sulle levatrici, gettando le basi per una nuova egemonia del medico maschile e di una nuova pratica medica che privilegiava la vita del feto sulla morte della madre. La stregoneria veniva considerato un crimine femminile: più dell'80% delle persone processate e giustiziate in Europa furono donne. In questo scenario, il linguaggio della caccia alle streghe creò il profilo della donna vista come una specie differente, più carnale ed incontrollabile per natura, la "donna perversa" e, prefigurando il suo destino matrimoniale, sostituì alla molteplicità dei diavoli del mondo medievale e rinascimentale la figura di un Diavolo unico e maschio: «Ora la donna era la domestica, la schiava, la succube nel corpo e nell'anima, mentre il Diavolo era allo stesso tempo il suo proprietario e padrone, il suo prosseneta e marito».
Il destino delle donne delle colonie americane fu simile. In entrambe le latitudini del pianeta, nonostante le differenze, il corpo femminile venne trasformato in strumento per la riproduzione espansiva della forza lavoro e in macchina "naturale" di maternità che funzionava secondo ritmi che erano fuori dal controllo delle donne.
Donne a casa
Uno degli aspetti complementari è stata l'espulsione delle donne dall'artigianato e la svalorizzazione del lavoro riproduttivo, definito come non-lavoro, «il lavoro femminile venne convertito in una risorsa naturale, disponibile per tutti, non meno dell'aria che respiriamo». Ben presto il lavoro che veniva svolto in casa venne definito un "compito domestico", e quando veniva svolto fuori casa non veniva pagato sufficientemente a che le donne potessero vivere di esso. Fu in questo periodo che venne anche rafforzata la famiglia come «l'istituzione più importante per l'appropriazione e l'occultamento del lavoro delle donne». Sottomesse per più di due secoli al terrorismo di Stato, con una conseguente persecuzione politica, economica e culturale, si produsse un nuovo modello di femminilità: passiva, asessuata, obbediente e, adesso sì, moralmente migliore al fine di poter esercitare un'influenza positiva sugli uomini.
Accumulazione primitiva e "biopotere"
"Accumulazione primitiva" è un termine coniato da Marx e recuperato dalla Federici per spiegare le violente trasformazioni che servirono da punto di partenza per il modo di produzione capitalista:
«Nella storia reale il grande ruolo è stato svolto, com'è noto, dalla conquista, dalla sottomissione. L'omicidio motivato dalla rapina: in una parola, la violenza» (Marx).
Secondo la Federici, sebbene Marx arrivasse a dar conto della schiavizzazione nel "Nuovo Mondo" dei popoli originari dell'America e dell'Africa, concentrandosi sull'espropriazione dei mezzi di sussistenza dei lavoratori europei, non parla delle trasformazioni nella riproduzione della forza lavoro, fondamentali per poter spiegare la separazione storica della produzione e della riproduzione che è alla base della nascita di una forza lavoro disciplinata.
Nel contesto di questa violenza originaria, il problema della relazione fra lavoro, popolazione ed accumulazione della ricchezza viene alla ribalta del dibattito e delle strategie politiche delineando così «i primi elementi di una politica della popolazione e di un regime di "biopotere"». Cominciava a prender forma una nuova concezione riguardo il corpo: il corpo portatore di forza lavoro che per diventare un modello di comportamento sociale si richiedeva che venisse distrutta una vasta gamma di credenze, di pratiche e di soggettività sociali precapitalistiche. Questo attacco è ricaduto doppiamente sulle donne che, spossessate dei loro mezzi di produzione, finirono anche per essere ridotte al ruolo di (ri)produttrici di forza lavoro. Foucault studia questi processi ma, per la Federici, ha dei limiti nel trattare i progressi riguardo la sessualità dalla prospettiva di un soggetto di genere indifferenziato, facendone derivare le medesime conseguenze sia per gli uomini che per le donne.
Dibattiti necessari per un femminismo anticapitalista
Federici, nel 1972 è stata una delle promotrici del Collettivo Femminista Internazionale e della sua Campagna Internazionale per il Lavoro Domestico. "Calibano e la strega" proviene da questa esperienza, insieme ai suoi anni di insegnamento trascorsi in Nigeria, in un periodo di completo assestamento strutturale.
Uno dei contributi fondamentali di questa storia delle donne nell'accumulazione primitiva è quello che situa la genesi del lavoro domestico capitalista e dei suoi principali componenti: la separazione della produzione dalla riproduzione, l'uso specificamente capitalistico del salario al fine di disciplinare il lavoro dei non salariati e svalorizzare la posizione delle donne.
Tuttavia, la natura del lavoro domestico nel contesto dell'accumulazione capitalista riapre tutta una serie di dibattiti rispetto alla teoria del valore, che meritano di essere analizzati con maggior accuratezza [*1].
«Marx non è stato in grado di concepire il lavoro produttivo di valore in maniera diversa da quella della produzione di merci»[*2].
Proseguendo la strada tracciata da Mariarosa Dalla Costa e Selma James, per Federici il lavoro domestico non è un servizio personale, bensì un lavoro su cui si reggono tutte le forme di lavoro, «il lavoro che produce la forza lavoro». Secondo questo punto di vista, l'analisi di Marx è andata a sbattere contro la propria incapacità di concepire la creazione del valore in un modo diverso dalla produzione di merci. Ma questa sarebbe un'"incapacità", oppure si tratterebbe di una determinazione della società capitalista? Consideriamo - al contrario della Federici - che uno dei principali contributi di Marx sia stato quello proprio di evidenziare una tale determinazione essenziale rispetto al modo di produzione capitalista, offrendoci la base esplicativa per comprendere, fra l'altro, il ruolo del lavoro domestico rispetto all'accumulazione e le conseguenze della sua femminilizzazione.
Nel Capitale, Marx espone una critica scientifica del modo di produzione capitalista e dei corrispondenti rapporti di produzione e di scambio, ossia la teoria del valore. Nel contesto di una società caratterizzata dalla produzione di merci, privata ed indipendente, per lo scambio, il valore di ogni merce è determinato dal «tempo di lavoro necessario alla sua produzione» (Marx), dal lavoro astratto che si materializza in quella merce, il dispendio produttivo di energia umana che viene investito nell'oggetto. È sul mercato, che questo lavoro astratto viene riconosciuto come socialmente valido, o che si manifestano gli attributi specificamente sociali del lavoro privato. Perciò, per quanto possa essere utile, nessun prodotto del lavoro umano ha valore, se non le merci, che sono: «i prodotti di lavori privati svolti indipendentemente gli uni dagli altri. L'insieme di questi lavori privati è ciò che costituisce il lavoro sociale globale.» (Federici).
I lavori privati non diventano realtà, in quanto parte del lavoro sociale, se non per mezzo delle relazioni che vengono stabilite dallo scambio tra i prodotti del lavoro. Così, le relazioni sociali smettano di essere relazioni dirette tra le persone, e diventano «relazioni peculiari delle cose che avvengono fra le persone e relazioni sociali fra cose» (Federici): il feticismo della merce. La forma finita del mondo delle merci, la forma del denaro nasconde, piuttosto che rivelare, «il carattere sociale dei lavori privati, e pertanto, le relazioni sociali fra i lavoratori individuali.» (Federici).
Lavoro produttivo capitalista: una maledizione
Nella società capitalista, dove ci sono stati alcuni che, per mezzo delle procedure storiche che abbiamo visto, si sono appropriati dei mezzi di produzione; per il lavoratore, la propria forza lavoro riveste «la forma di una merce che gli appartiene» (Federici). La vendita della propria forza lavoro è l'unica via di accesso al lavoro sociale globale che gli viene offerto da questa società. A sua volta, questa merce, diversamente da tutte le altre, presenta la «peculiarità di essere fonte di valore» (Federici), vale a dire che il suo consumo, il suo utilizzo nel processo di produzione, crea valore per il suo acquirente: il capitalista che paga sotto forma di salario il suo valore in quanto forza lavoro. Tutte le ore lavorate dal lavoratore, una volta ottenuto quel che gli è necessario per la sua riproduzione, vengono appropriate dal capitalista come profitto: il plusvalore.
Nel capitalismo, è produttivo soltanto «il lavoratore che produce plusvalore per il capitalista, o che serve per l'auto-valorizzazione del capitale» (Marx). Quindi «la produzione capitalista non solo è produzione di merci; essa è essenzialmente produzione di plusvalore. Il lavoratore non produce per sé, ma per il capitale» (Federici). Ciò non risponde ad un appetito personale di Marx o ad un disaccordo da parte sua relativo, per esempio, al lavoro domestico, ma ad una determinazione specifica della società capitalista che, governata dalla necessità di valorizzare il valore, stabilisce una cesura inedita fra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, facendo ricadere quest'ultimo, storicamente, sulle donne. In tale contesto, essere lavoratore produttivo non implica meramente una relazione fra attività ed effetto utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma implica anche una relazione di produzione specificamente sociale, che imprime sul lavoratore la funzione di mezzo diretto della valorizzazione del capitale. È a partire da questo che si arriva a capire come essere un lavoratore produttivo non rappresenti una fortuna, bensì una maledizione.
Femminismo e Teoria del Valore
Ipoteticamente, anche se le donne abbandonassero la sfera della riproduzione, e questi compiti ricadessero sugli uomini che, direttamente, venissero del tutto mercificati, ciò le lascerebbe comunque sotto il dominio della contraddizione capitale-lavoro (della quale anche le donne soffrono direttamente). Affermare ciò, non significa attribuire un carattere secondario alle lotte contro le altre dimensioni oppressive, né sottovalutare l'importanza di interrogarsi, come fa Federici, sulle condizioni storiche che hanno fatto ricadere sulle donne il lavoro domestico, con tutte le sue conseguenze. Ma semmai significa voler riconoscere l'attualità della teoria del valore.
Infatti, anche se Il Capitale non riserva uno sviluppo esplicito riguardo la forma storica concreta assunta dalla sfera riproduttiva, riteniamo, come dimostrano altre femministe, che la teoria del valore, lungi dall'essere un ostacolo, offre elementi per l'analisi della natura del lavoro domestico nel capitalismo, essenziali per problematizzarne la sua concretizzazione storica.
Per esempio, Wally Seccombe (2005) afferma: «Se il salario equivale al valore della forza lavoro e, inoltre, il lavoro domestico appare nel valore della forza lavoro, ma tale lavoro domestico non viene pagato con il salario, tale equivalenza non sarebbe squilibrata? Questo è un problema di apparenza borghese che si verifica in quanto risultato della forma fenomenologica del salario. Il salario si presenta in sé come un pagamento per il lavoro, piuttosto che come un pagamento pe riprodurre la forza lavoro. Marx ha sottolineato tale inganno in relazione al lavoro salariato, e ciò si applica anche al lavoro domestico.»
Ciò che il lavoratore riceve come pagamento è quel che è necessario alla sua riproduzione, determinato dal «tempo di lavoro necessario per la produzione, e quindi per la riproduzione di questo specifico articolo» ma, a differenza delle altre merci, «la determinazione del valore della forza lavoro contiene un elemento storico e morale» (Marx). In questo senso, Gayle Rubin (1986) sostiene che è dentro questo «elemento storico e morale» che dobbiamo comprendere la forma che assume il lavoro domestico. È in tale contesto che «"la moglie" è una delle necessità del lavoratore, che il lavoro domestico venga fatto dalle donne e non dagli uomini.» Una donna «si converte in domestica, moglie, merce, coniglietta di Playboy, prostituta o in riproduttore umano solo in determinate relazioni. Al di fuori di queste relazioni non è l'aiutante dell'uomo, allo stesso modo in cui l'oro in sé non è denaro.»
Roswitha Scholz, alludendo alla scissione tra lavoro riproduttivo e valore/lavoro astratto, propone il concetto di "scissione del valore". Si tratta di un aspetto della società capitalista che «si stabilisce insieme al valore, ed attiene necessariamente ad esso; ma, dall'altro lato, si trova fuori di esso e, perciò, è anche la sua precondizione.» Per analizzare le relazioni capitalistiche di genere, contempla, oltre al fattore materiale, la dimensione psico-sociale. In questo modo, mette in evidenza un modello civilizzatore, il "patriarcato produttore di merci", in cui determinate proprietà ed attività (sensualità, emozione, debolezza, cura, ecc.) vengono attribuite alla donna, costituendola come un genere subordinato all'uomo (attivo, aggressivo, competitivo, trasformatore della natura con capacità, razionalità e utilizzo efficiente del tempo). Ma, sarebbe sufficiente decostruire questa concezione dualistica moderna di genere, come propongono alcune correnti culturaliste? Scholz avverte:
«È passato molto tempo da quando sono state viste "decostruzioni reali", ad esempio, nella "duplice socializzazione" delle donne, per quel che riguarda il vestire ed il comportamento degli uomini e delle donne, ecc., senza che per questo sia sparita la gerarchia di genere».
Bisogna dotare la critica di una prospettiva materiale: «la scissione del valore, la quale, in quanto principio formale determina tutti i piani sociali».
Lungi dal considerarla una posizione senza sbocco, intendiamo dimostrare, al contrario di Federici che, nonostante il dibattito riguardo la natura del lavoro domestico rimanga aperto, la teoria del valore non ostruisce, ma piuttosto offre una comprensione fondamentale della scissione capitalista delle sfere della produzione e della riproduzione e, quindi, del problema storico della femminilizzazione della sfera riproduttiva, sia che si manifesti nell'esclusione dal mercato del lavoro sia che si manifesti nella sua inclusione precarizzata e/o diventata "duplice giornata lavorativa".
Femminismo e critica del capitale
Di fronte ad un capitalismo che ha dimostrato, nonostante crisi successive, capacità di riciclarsi, è di primaria importanza dotare la lotta anticapitalista di una prospettiva integrale che evidenzi e combatta il capitalismo nella sua essenza e nelle forme storiche concrete in cui si manifesta: tutte quante. Assistendo in maniera permanente, fra le tante aberrazioni, alla femminilizzazione della povertà, alla violenza, al femminicidio, allo svantaggio e alla precarizzazione lavorativa, all'etero-normatività, ai suoi dualismi oppressivi e ad altri meccanismi più sottili, ma non per questo meno perversi, oggi, un progetto rivoluzionario eticamente completo deve innanzitutto porsi anche sul piano della lotta contro il dominio patriarcale. A questo proposito, il rinnovato carattere di massa internazionale del movimento delle donne, nonostante la sua eterogeneità, porta in sé delle lezioni pertinenti.
- Ana Villar - Pubblicato su Passa Palabra - Ottobre 2017 -
Bibliografia:
Federici, Silvia - Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria. Mimesis 2015
Federici, Silvia - Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista. Ombre Corte 2014
Marx, Karl. Il Capitale
Rubin, Gayle (1986). Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud.
Scholz, Roswitha (2013) “El patriarcado productor de mercancías. Tesis sobre capitalismo y relaciones de género”. Em Constelaciones-Revista de Teoría Crítica 5.
Seccombe, Wally. “El trabajo del ama de casa en el capitalismo”. Em Rodríguez, D. y J. Cooper comp. (2005) El debate sobre el trabajo doméstico. Antología
NOTE:
[*1] - Anche se affrontarlo trascende le possibilità di questo scritto, nel libro appaiono indicazioni su altri punti molto dibattuti, fra cui, la confusione a proposito del concetto di accumulazione primitiva, fatta dalla Federici, fra condizioni storiche necessarie per lo sviluppo del modo di produzione capitalista e, come conseguenza, una delle sue tesi principali basata sul concepire fenomeni attuali come parte di quello che sarebbe un "nuovo ciclo di accumulazione primitiva".
[*2] - Parafrasi che illustra un punto soggiacente a Calibano e la strega e che viene enunciato in un articolo più recente a proposito della critica di alcune femministe: «l'analisi che fa Marx del capitalismo è lastricata dalla sua incapacità a concepire il lavoro produttore di valore se non come produzione di merci e dalla sua conseguente cecità rispetto all'impotenza del lavoro non salariato delle donne nel processo di accumulazione capitalista.» (Federici)
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