1) Il processo di definizione di quello che è "nazionale", attività che in Germania occupava tanto la sinistra quanto la destra all'inizio del decennio 1930, appare in Benjamin come una questione aperta, qualcosa che si riflette anche nei suoi rapporti con gli individui della sua cerchia più ristretta: in questo periodo, le sue lettere a Gershom Scholem sono al quanto evasive per quel che attiene al progetto di stabilirsi, alla fine, in Palestina. Da Benjamin, l'«appartenenza nazionale» viene osservata nei gesti, nelle usanze e nei testi che circolano in questo periodo, qualcosa che si intensifica o che diventa chiara in due punti fondamentali: il legame con la terra ed il legame con la lingua.
2) In tale prospettiva, è degno di nota il fatto che la lettera scritta da Benjamin a Scholem il 20 gennaio del 2030, rompendo un silenzio di quasi tre mesi, sia stata scritta in francese: «Voi probabilmente penserete che sono pazzo», scrive Benjamin, «ma trovo immensamente difficile mettere fine al mio silenzio e parlare con voi dei miei progetti. Lo trovo talmente difficile che forse non posso fare altro che ricorrere a quell'alibi che è per me il francese. Lasciatemi subito dire che fino a quando il mio divorzio non sarà completo, non mi sentirò in grado di pensare al mio viaggio in Palestina. E non credo che questo possa risolversi in breve tempo». Inoltre, Benjamin si riferisce sempre a Scholem chiamandolo Gerhard, ed in questa lettera specifica come «Cher Gerhard», e così farà fino alla fine, senza mai usare quindi il nome palestinese di Sholem, Gershom, da lui adottato a partire dal 1923.
3) Scholem e Benjamin, attraverso la tradizione ermeneutica ebraica, davano enorme importanza ai nomi, come viene evidenziato dal frammento di Benjamin del 1933, "Agesilaus Santander”, su cui Sholem scriverà un saggio nel 1972, "Walter Benjamin e il suo angelo", e un breve articolo nel 1978, "I nomi segreti di Walter Benjamin". Jacques Derrida, in "Forza di Legge", facendo una lettura minuziosa del saggio di Benjamin del 1921, "Per una critica della violenza", argomenta circa il fatto che quest'ultimo termine "violenza" ("Gewalt"), porti in sé non tanto la presenza di Walter Benjamin, quanto piuttosto lo spazio indecidibile che collega personalità ed impersonalità all'interno della performance del linguaggio. Scrive Derrida: «La chance della lingua e del nome proprio, un viale all'incrocio del più comune e del più singolare, legge del destino unico, il "gioco" fra walten e Walter, questo gioco proprio qui, fra questo Walter e quello che egli dice del Walten, si deve sapere che non dà luogo a nessuna conoscenza, nessuna dimostrazione, nessuna certezza. Questo è il paradosso della sua forza "dimostrativa"». - (Jacques Derrida, Forza di Legge) -
La lettera scritta in francese da Benjamin a Scholem (il 20 gennaio del 1930), pone la triplice questione della lingua come lingua straniera, del nome proprio e del come firma (l'articolazione di Walten e Walter, per Derrida). Già nel saggio su "Le affinità elettive di Goethe" (concluso nel 1922), in cui si occupa anche delle scelte fatte da Goethe circa i nomi dei personaggi («Difficilmente si avrà in qualche altra letteratura una narrativa dell'estensione delle Affinità elettive in cui si trovano così pochi nomi»), Benjamin scrive:
«Non lega tanto l'essere umano al linguaggio quanto piuttosto al suo nome.»
Di fronte a questo, vale la pena salvare il breve estratto in cui Harald Weinrich, nel teorizzare una "linguistica della menzogna", utilizza un frammento di Goethe. Il punto principale di contatto è quella lettera scritta in francese dall'innamorato di Aurelie, esattamente come fa Benjamin con Sholem ( e lo fa deliberatamente, per poter meglio confessare che non vuole andare in Palestina). È innegabile che anche Benjamin lega il francese alla menzogna, o quanto meno alla dissimulazione (egli cerca di ristabilire il contatto con Sholem ma non riesce ad essere diretto rispetto al suo desiderio di non andare in Palestina). Sarà che Benjamin aveva in mente quel passo di Goethe, che del resto conosceva talmente bene?
Di conseguenza, un paio di volte si sono alzate voci per accusare anche la lingua quando gli uomini la usano per mentire. Nell'Enrico V (Atto V, scena 2) di Shakespeare, c'è scritto in francese: "O bon Dieu! Les langues des hommes sont pleines de tromperies"["Mio Dio! Le lingue degli uomini sono piene di inganni"]. Forse una lingua di più, un'altra di meno. Ne Gli Anni di Apprendistato di Wilhelm Meister, di Goethe, laddove si tratta del buono e del meglio del teatro francese, si osserva che Aurelie si astiene dal partecipare. Interrogata, ne rivela il motivo: odia la lingua francese. Il suo fidanzato infedele ci ha preso gusto. Poiché quando erano innamorati lui le scriveva lettere in tedesco: "gli è che il tedesco è cordiale, sincero, vigoroso"! Ma non appena si cominciò ad estinguere quell'amore, lui passò a scriverle lettere in francese, cosa che prima accadeva per gioco. Aurelie aveva capito assai bene il cambiamento. "Perché, per il non detto, per le mezze parole e le menzogne, il francese è una lingua eccellente, una lingua perfida![...] Il francese è a ragione la lingua del mondo, degna di essere la lingua universale, perché tutti possano per mezzo di essa ingannarsi e mentire gli uni agli altri!" Quindi, se Aurelia aveva ragione con le "sue manifestazioni capricciose", la lingua tedesca diverrebbe la verità, e la lingua francese, la menzogna.
Ora, si tratta di meri aneddoti, Shakespeare e Goethe erano consapevoli di questo. Ma può essere che la lingua, come una volta in passato aveva pensato Wittgenstein, non è l'abbigliamento, bensì il travestimento del pensiero ("Tractatus logico-philosophicus")». (Harald Weinrich - "La lingua bugiarda. Possono le parole nascondere i pensieri?, Bologna: Il mulino, 2007)
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