Loro cercano di controllarci. Ci fanno credere che viviamo in società libere e democratiche e che siamo i padroni del nostro destino, ma non è così, lo sappiamo bene. Ci nascondono la verità.
Basta grattare sotto la superficie: l’omicidio di Kennedy, i vaccini, l’11 settembre, gli UFO, le scie chimiche, l’uomo sulla Luna, Bin Laden, i massoni, Lady D, gli Illuminati, Elvis Presley, il Nuovo Ordine Mondiale, i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, i rettiliani... Ovunque si guardi è evidente che c’è un piano colossale per manipolarci. Cosa si nasconde dietro le più articolate teorie del complotto e, soprattutto, chi sono i complottisti e come è possibile che così tante persone possano credere anche alle più ardite e immaginarie speculazioni?
Rob Brotherton, che da anni studia come funziona la «mentalità complottista», analizza in questo libro, accattivante, ironico, e anche un po’ inquietante, i motivi per cui le nostre menti ci inducono tanto spesso a credere a cose implausibili, non provate e, soprattutto, in nessun modo provabili. Il fatto è che queste storie si adeguano perfettamente a certi circuiti mentali che – volenti o nolenti – tutti noi ci portiamo dentro, confortando le nostre paure più profonde, i nostri desideri più nascosti e il nostro stesso modo di interpretare il mondo.
La psicologia del complotto è affascinante e svela molto su noi stessi e su come sono costruite le nostre menti. I complottismi non sono aberrazioni psichiche di pericolosi sociopatici, sono il prodotto del funzionamento del nostro cervello e la radice stessa del verbo «credere». Magari saranno in pochi a credere che il presidente degli Stati Uniti sia un mutaforma rettiliano (ma certamente sono più di quanti vorremmo che fossero!), ma sono ancora milioni (e continuano a crescere) coloro che credono alla correlazione tra autismo e vaccini (è dimostrato chiaramente che non ci sia, tanto per essere chiari).
Dopo aver letto Menti sospettose saremo sorpresi nel riconoscere come sia facile cedere alla narrazione complottista ma avremo ben chiaro come sia possibile sfuggirvi. È vero che i complotti nel mondo talvolta esistono, più spesso però è meglio essere prudenti e fare attenzione a cosa scegliamo di credere perché, alla fine, potremmo scoprire che i complottisti siamo noi.
(Dal risvolto di copertina di: Rob Brotherton: Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, Bollati Boringhieri)
Maestri del sospetto. Il fascino discreto del complotto
- di Damiano Palano -
In un racconto pubblicato nel 1926 sulla “Yale Review”, Julian Huxley immaginò la storia di uno scienziato che scopriva il modo per poter controllare le menti dei propri simili grazie alla telepatia. Resosi conto di essere diventato a sua volta molto sensibile al dominio psichico, lo studioso escogitava un rimedio infallibile. Per difendersi dai “raggi” telepatici era infatti sufficiente proteggere la testa con una sottile lamina di metallo, grazie per esempio a un cappellino di carta stagnola. Proprio per questo il cappellino di stagnola è diventato, soprattutto negli Stati Uniti, il simbolo per indicare tutti quegli individui che vedono ovunque immaginarie cospirazioni, o che ritengono che le trame di un potere invisibile si stendano come una piovra sulle nostre società. Ma, se i cultori delle “teorie del complotto” sono spesso considerati poco più che degli svitati, dei paranoici ottenebrati dalle loro fissazioni, il volume di Rob Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, punta invece a ribaltare questa immagine. Sintetizzando i risultati di ricerche condotte in campo psicologico, Brotherton cerca infatti di dimostrare che i “complottisti” non sono una minoranza di bizzarri individui paranoici, relegati ai margini della società. E che, in qualche modo, siamo un po’ tutti complottisti. Secondo lo studioso è possibile individuare un tipo di “mentalità complottista”, molto simile a qualsiasi altro tratto della personalità e caratterizzato principalmente dalla convinzione riposta in una serie di ipotesi generali su come funziona il mondo. Il “complottista” non crede cioè solo a una specifica teoria del complotto, ma tende di solito ad accettare più teorie del complotto (talvolta tra loro persino in contraddizione). Inoltre, cerca di spiegare tutto ciò che accade nel mondo come se si trattasse delle minuscole tessere di un grande mosaico. Ma i tratti della mentalità complottista sono in ogni caso molto più comuni di quanto si tenda a pensare. Perché, per esempio, si tratta di una mentalità strettamente correlata alla tendenza a concepire i conflitti storici come uno scontro tra bene e male, non diversamente da quanto suggerisce molto spesso la retorica politica. E perché i meccanismi psicologici che la caratterizzano, benché siano più marcati in alcuni individui, sono condivisi più o meno da tutti. Per esempio il meccanismo di proiezione, per cui tendiamo a considerare i nostri gusti e le nostre preferenze come caratteristiche molto diffuse. O il pregiudizio di proporzionalità, che in caso di grandi eventi ci spinge a ricercare cause proporzionali (e a non accontentarci di piccole casualità). O il pregiudizio di conferma, che, quando siamo in cerca di prove per una determinata ipotesi, ci induce inconsapevolmente a scegliere solo quei fatti che rafforzano le nostre convinzioni, facendoci tralasciare tutto ciò che invece non torna. Il libro di Brotherton ci suggerisce dunque di guardare i “complottisti” con meno sufficienza, sia perché non c’è poi una differenza così marcata tra “noi” e “loro”, sia perché, almeno in qualche caso, i loro sospetti possono rivelarsi fondati (a dispetto di spiegazioni persino bislacche). Ma le ricerche di cui lo psicologo espone i risultati sono utili anche per approfondire con maggiore rigore la discussione sulle fake news e sulla “post-verità”. La responsabilità non è infatti tanto (o soltanto) delle informazioni che ci vengono proposte, quanto soprattutto del tipo di informazione che ognuno di noi cerca. Anche se siamo sommersi da una selva di fonti differenti, quando clicchiamo online su un determinato link, o quando leggiamo le opinioni dei nostri “amici” sui social network, quasi sempre siamo alla ricerca solo di conferme a ciò che sappiamo. In altre parole, il pregiudizio di conferma è costantemente all’opera, rafforzato anche da un pregiudizio di assimilazione, che ci induce talvolta persino a filtrare tutto quello che non si adatta a ciò in cui già crediamo. E questo significa che, oltre alle “bolle” comunicative che costruiscono attorno a noi una sorta di “mondo su misura”, anche il nostro cervello può incapsulare le nostre convinzioni in una “bolla” protettiva altrettanto resistente.
- Damiano Palano - Pubblicato sull'Avvenire del 30/6/2017 -
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