mercoledì 13 dicembre 2017

Kafkiana

kafka blanchot


Blanchot, in "Da Kafka a Kafka", contrappone a K. - il protagonista de "Il Castello", figura dell'esilio e dell'ostinazione nell'esilio - l'inerzia di Joseph K., il quale crede di appartenere ancora a questo mondo, e che crede che «il processo possa essere qui vinto o perso». A causa di questa convinzione, il percorso dei due romanzi è distinto. Il protagonista de "Il Processo", scrive Blanchot, «nella sua negligenza, nella sua indifferenza, e nella situazione di uomo provvisto di una buona situazione sociale, non si rende conto di essere stato collocato fuori dall'esistenza». Se se ne fosse reso conto, avrebbe seguito il percorso di K., il percorso de "Il Castello", che conduce ad uno spazio intermedio fra la vita e la morte (come nel racconto de "Il cacciatore Gracchus", ad esempio). Ma in un certo qual modo, questa è anche la strada seguita da Joseph K.. Se è vero che il K. de Il Castello è Kafka stesso che scrive a Felice - come afferma Elias Canetti - dal luogo della sua assoluta extraterritorialità, del suo esilio e del suo distanziamento, è vero anche che Joseph K. si lascia vedere, e comunica, attraverso una distanza - la distanza dell'altro spazio intermedio, quello che collega sonno e veglia (come, ad esempio, nella Metamorfosi). Questo istante ampliato e quasi fuori dal tempo abbraccia non solo il suo brutale arresto, ma anche il suo sacrificio finale.

processo

CHRISTIAN SCHOLZ: Franz Kafka era uno scrittore cui di rado le fotografie hanno dato tregua. A Riva del Garda lei si è messo sulle tracce di Kafka e in Vertigini compare una sua fotografia.

W.G. SEBALD: Per Franz Kafka il conservare immagini era in fondo una cosa terribile. Ciò ha diverse ragioni, una delle quali, la più arcaica, che ho appena cercato di illustrare, è naturalmente la proibizione dell’immagine presente nella religione giudaico-ortodossa: la proibizione è un motivo centrale che ha agito anche in Kafka. Le immagini che egli produce nella sua prosa, o meglio con la sua prosa, hanno già in sé qualcosa di estremamente discreto. Kafka non raffigura quasi mai gli individui come tali, ma ne tratteggia solo i contorni. Tutti i ritratti che abbiamo di lui sono caratterizzati dal fatto che già in anticipo sia presente una sorta di trasparenza della persona, che poi aumenta man mano che l’uomo invecchia, ma che c’è già nel bambino.

CHRISTIAN SCHOLZ: Ha in mente un esempio particolare?

W.G. SEBALD: Si pensi a quella fotografia in cui Kafka è in piedi, con indosso un abito alla marinara, un piccolo bastone da passeggio nero, un cappello di paglia laccato nero, e un’espressione assolutamente sconsolata in volto, quegli enormi occhi scuri che guardano nell’obiettivo o per metà oltre l’obiettivo, lo sguardo abbassato, e ci si accorgerà che già in questa immagine è presente qualcosa che l’uomo adulto non potrà mai dominare. Ed è così in tutte le foto, fino alle ultime, in cui lo si vede poco prima della fine, ancora sorridente, in piedi nel giardino antistante la casa della sorella, in un cappotto troppo grande, con un cappello appoggiato insolitamente troppo in alto sulla testa, quasi un’apparizione sacra – a metà tra il copricapo di un clown e l’apparizione sacra, perché il cappello sembra quasi librarsi sulla sua testa. Queste immagini anticipano la trasparenza che le fotografie avranno più tardi, quando la persona che vi è ritratta non vivrà più. Sono tutte cose molto singolari.

SEBALD E KAFKA

Entrate nelle varianti del processo
- di Claudio Giunta -

Ci si era appena ripresi dalla meraviglia di Questo è Kafka?, la biografia in 99 frammenti scritta da Reiner Stach (recensito sulla Domenica da Domenico Scarpa il 26 marzo scorso), si avevano ancora gli occhi lucidi, ed ecco che al Martin-Gropius-Bau di Berlino fino al 28 agosto espongono il manoscritto del Processo. Ora, la mostra è una mostrina, due salette, venti minuti di visita, e non c’è niente che il Devoto di Kafka che abbia sfogliato l’edizione critica del manoscritto curata da Roland Reuss e Peter Staengle non abbia già visto o non possa vedere in biblioteca, ma il Devoto che si trova a Berlino o deve andarci quest’estate non può astenersi dal pellegrinaggio.
La prima sorpresa, per il visitatore ignorante, è scoprire che il Martin-Gropius-Bau non è un edificio Bauhaus bello squadrato a parallelepipedi bianchi e neri, perché quello del Bauhaus era Walter Gropius. Questo invece è il prozio Martin, anche lui geniale architetto, artefice nel 1881 di questo palazzone magnifico, assolutamente degno di visita, già Museo delle Arti applicate e oggi dirimpettaio, senza sua colpa, del sito urbano che è stato sobriamente ribattezzato Topographie des Terrors in memoria dei crimini dei nazisti, che qui avevano il loro quartier generale. Dimenticate queste tristezze, salite al primo piano. Allineate sottovetro, ecco tutte le pagine autografe del Processo (tutte, cioè la metà, perché se ne può vedere solo una facciata, e per esempio le ultime cinque righe del romanzo stanno a faccia in giù: forse, con tanto spazio a disposizione, si poteva trovare un modo migliore per esporle). Sono fogli non rigati, senza margini, che Kafka riempie per intero di una scrittura molto corsiva ma quasi sempre leggibile; dove non si legge bene, l’amico Max Brod è intervenuto in calce, riscrivendo il passo a beneficio del tipografo.
Il manoscritto ha una storia accidentata, come e più di quella degli altri autografi di Kafka. Il 12 luglio del 1914, dopo un colloquio nell’albergo di Berlino in cui alloggiava, l’Askanischer Hof (allora era a due passi dal palazzo Gropius, oggi non c’è più), Kafka rompe il fidanzamento con Felice Bauer. Scriverà più tardi che quel giorno gli era parso di trovarsi non in un albergo ma in «una corte di giustizia». Pochi giorni dopo comincia a lavorare al Processo. È un lavoro febbrile. «Nel pomeriggio – annota nel diario – sono rimasto sul divano svogliatamente, senza sonno per tre ore; stessa cosa la notte. Questo non deve fermarmi». Nel gennaio del 1915 il romanzo è quasi finito, ne legge qualche pagina proprio a Felice. A settembre pubblica sulla rivista sionista «Selbstwehr» un frammento celebre, la parabola che s’intitola Davanti alla legge, e che nel romanzo occupa un paio di pagine del capitolo Nella cattedrale. Come tutti gli altri manoscritti di Kafka, anche Il processo viene affidato a Brod, che lo riordina e lo pubblica nel 1925. Nel 1939 Brod lascia frettolosamente Praga poco prima che in città arrivino i tedeschi, e porta con sé le carte dell’amico. Si stabilisce a Tel Aviv, e prima di morire regala il manoscritto alla sua amica Esther Hoffe. Nel 1988 la Hoffe lo vende al governo tedesco per tre milioni e mezzo di marchi.
Nelle due sale contigue a quella principale, i consueti memorabilia: una piccola mostra di piccolissime fotografie di Franz e dei famigliari, non meno commoventi per il fatto che sono tutte ben note, tutte già raccolte da Klaus Wagenbach nel volume Franz Kafka. Bilder aus seinem Leben (la più commovente non è un volto ma una casa: la facciata della casetta berlinese nel verde che a Kafka fu particolarmente cara); una collezione di edizioni del Processo in varie lingue, a partire dalla princeps berlinese del 1925, collezione un po’ casuale ma utile perché vi si legge bene il farsi pluridecennale della mitologia-pacchianeria kafkiana: tante copertine con ritratti scavatissimi, emunti, dell’autore tubercolotico; tante col dito teso, accusatorio, puntato sul lettore; qualcuna più inventiva (in una, un telefono staccato, che forse andava meglio per Il castello, in un’altra, chissà perché, un close up sul bavero di uno smoking); qualcuna intelligentemente sobria, senza immagini, come la nostra Frassinelli 1963 tutta rossa a righine bianche (ma la princeps italiana è addirittura di trent’anni prima); e soprattutto, pezzo forte dei memorabilia, la proiezione su grande schermo del film di Welles del 1962, che ci ricordavamo bello e che dalle poche scene che abbiamo il tempo di vedere – Romy Schneider e Anthony Perkins che amoreggiano sdraiati sul pavimento, in mezzo alle scartoffie dell’avvocato, lei che gli mostra le mani con le dita palmate – sembra addirittura magnifico (sul «Tagesspiegel» del primo luglio Gregor Dotzauer, che non ha apprezzato la mostra, ha chiamato «ein Sakrileg» l’accostamento tra il manoscritto e il film, tanto wellesiano e tanto poco kafkiano. Ma no, ma no).
Finita la visita alle sale, viste e riviste le pagine dei taccuini, ci si siede davanti a uno dei due schermi sui quali si proiettano affiancate, prendendole dall’edizione Reuss-Staengle, la pagina autografa e la sua trascrizione a stampa, con l’indicazione precisa di tutte le cancellature, le varianti, le aggiunte sopra il rigo. Qui tutti i dubbi che il Devoto poteva aver avuto sul senso del suo pellegrinaggio, sulla seduzione del feticcio, si dissolvono. Si sfogliano le immagini col dito, si rileggono pagine celebri che ovviamente si erano dimenticate, si resta impressionati dal fatto che la scrittura corra così veloce, che le cancellature siano così poche: possibile che una prima redazione sia venuta fuori già così perfetta? Che una delle metafore più geniali e potenti della storia della letteratura sia stata pensata e messa su carta così di getto, senza approssimazioni o ripensamenti? E poi si prova a vedere non proprio ’come lavorava Kafka’, che sarebbe lungo, ma come suonavano in prima stesura certi passi che, quand’eravamo adolescenti, ci hanno lasciato senza fiato. Adeste fideles.
Nella pagina che poi diventerà Davanti alla legge il campagnolo che si presenta davanti al guardiano cerca di sbirciare al di là della porta. Kafka aveva scritto che il guardiano, notando il tentativo, lo tiene lontano col bastone e gli dice «Non puoi neanche guardare dentro». Kafka cancella queste due righe, e il passo diventa quello che i Devoti conoscono a memoria: «Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: “Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Ma…”». Si esagera se si dice che la minaccia col bastone e il divieto di guardare dentro avrebbero guastato tutto? Perché nell’intero racconto il guardiano non solo non è mai violento, ma neppure ostile al campagnolo, e parte della sublime ferocia dell’apologo risiede appunto nel contrasto tra il destino atroce del postulante e l’imbarazzata cortesia del funzionario che glielo somministra.
E poi naturalmente si salta al finale: «“Wie ein Hund!”» sagte er, es war, als sollte die Scham ihn überleben» («Come un cane, disse, e fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli»). Ma è una semplicità, e una forza, che Kafka conquista attraverso due ripensamenti: la prima stesura suonava infatti: «Il sentimento con cui lasciò la vita (sein letztes Lebensgefühl) fu la vergogna»; la seconda: «Fino in punto di morte la vergogna non gli venne risparmiata». Resta intatta la vergogna, ma nella versione finale è una vergogna così cocente che sembra destinata a durare oltre il limite della vita. Tempo fa ho scritto che la filologia d’autore, il confronto tra le varie stesure dei testi degli scrittori contemporanei, con tutto l’ipertrofico apparato che dà conto delle correzioni, delle aggiunte, è un esercizio un po’ inutile, che quello che si legge nelle edizioni a stampa basta e avanza. Mi rimangio tutto.

- Claudio Giunta - Pubblicato sul Sole del 9/7/2017 -

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