Quel che resta dell'utopia
- di Maurizio Ferraris -
Nel 1771 Louis-Sébastien Mercier pubblica "L'anno 2440", in cui si descrive una Parigi del futuro piena di progressi scientifici e civili ma in cui regna ancora un Luigi, il trentaquattresimo della serie. Se l'utopia ci dice poco sul futuro è invece estremamente istruttiva sul presente degli utopisti, sui loro mondi e le loro aspirazioni, e non è un caso se proprio il Settecento, l'età dell'Illuminismo, è stata al tempo stesso l'epoca della massima fioritura dell'utopia.
Questo il senso del monumentale "Dictionnaire critique de l'utopie au temps des Lumières", oltre mille e quattrocento pagine, cinquantaquattro voci di collaboratori internazionali, tanti quante sono le città dell'isola di Utopia di Tommaso Moro, l'opera che diede un nome a questa variante della letteratura profetica. Pubblicato dall'editore ginevrino Georg nel 2016, quinto centenario dell'Utopia di Moro, il dizionario costituisce il compimento della ricerca di un grande storico delle idee polacco, Bronislaw Baczko, professore a Ginevra, che lo ha diretto insieme a Michel Porett e Francois Rosset nel quadro di un progetto finanziato dalla Fondazione Balzan, e che ha ancora fatto in tempo a vederlo stampato, morendo, a novantadue anni, meno di due mesi dopo la pubblicazione dell'opera. Ne parleranno il 21 giugno a Milano Enrico Deeleva, Salvatore Veca, Carlo Capra, Gianni Francioni, Michel Porre e Francois Rosset. Ma che cos'è l'utopia? L'etimo è indicativo, visto che comprende al proprio interno tanto il riferimento a un luogo inesistente (ou-topos) quanto il richiamo a un luogo desiderabile (eu-topos).
La forma è greca, ma la parola è stata coniata nel Cinquecento, e niente è più lontano dal pensiero dei Greci antichi quanto la prospezione di un futuro desiderabile chiamato a riscattare il presente. Perché il pensiero utopico prenda tutto il suo vigore ci vuole almeno l'intervento di una religione messianica come il Cristianesimo, l'incontro con dei mondi nuovi, e soprattutto una certa impazienza rispetto ai tempi lunghi prospettati dal messianismo, e il desiderio di intervenire nel presente attraverso l'anticipazione del futuro, concependo non un paradiso dono di Dio, né un albero della cuccagna, interruzione festiva di una vita grama e monotona, ma appunto una utopia, come costruzione umana che vuole creare un mondo nuovo.
Tutto questo fa del periodo che dalla metà del diciassettesimo secolo giunge all'inizio dell'Ottocento l'età utopica per eccellenza. È l'epoca in cui Leibniz, nella Teodicea (1710) fornisce una versione metafisica dell'utopia, con la teoria dei mondi possibili di cui il mondo reale, quello che conosciamo noi, è solo una versione - la migliore, secondo quell'inguaribile ottimista.
O in cui nascono i primi romanzi di fantascienza (come quelli scritti da Cyrano de Bergerac, che non è solo un signore con il naso lungo nella commedia di Rostand, ma un filosofo, scrittore e soldato vivo e attivo nel diciassettesimo secolo). E in cui una progettazione e una pianificazione dell'umanità si traduce, intanto, nel vagheggiamento di mondi perfetti (per esempio, quello dei "selvaggi", eretti a modello di vita filosofica dopo essere stati per lo più sterminati perché brutali e pagani) o nella creazione di comunità ideali, come i falansteri di Fourier, sempre pericolosamente vicini a ideali concentrazionari (dopotutto, anche il Panopticon di Bentham, la prigione ideale, è un frutto del pensiero utopico, e Gabriel de Foigny immagina dei campi in cui rinchiudere chi abbia deficit fisici o psichici).
Illuminista è anche la scelta del dizionario per illustrare le creazioni del secolo dell'utopia. Baczko ricalca consapevolmente il "Dizionario storico critico" di Pierre Bayle, uscito nel 1697, e che mostra l'altra anima dell'illuminismo, la forza scettica (quella che ritroviamo nel Dizionario filosofico di Voltaire). Tante utopie messe in lista come nel catalogo di Don Giovanni, da "America" a "Viaggio" passando per "Amore", "Diritti umani", "Lusso", "Pirateria", "Scienze e Tecniche" e "Sessualità" (e con una scelta iconografica ricca e intelligente) si annullano a vicenda, o meglio si rivelano per quello che sono, un ramo della letteratura fantastica e satirica, il cui capostipite è un capolavoro come "I viaggi di Gulliver" (1726).
Cosa resta oggi dell'utopia? Ben poco si direbbe. Eppure non è così: viviamo ancora a tutti gli effetti, nell'orizzonte dell'utopia come qualcosa da realizzare e come un senso della storia, a partire da quella gigantesca utopia che sta alla base delle istituzioni contemporanee che si chiama "democrazia", e che, come aveva visto giustamente Derrida, non si può declinare altrimenti che come una democrazia a venire, un ideale che non si è ancora realizzato ma che deve guidare la nostra azione.
Si può dunque essere scettici verso le utopie senza per questo escluderle dal proprio orizzonte. È anzitutto il caso di Baczko. Ufficiale dell'armata di liberazione polacca (non quella nazionalista ma quella voluta da Stalin e addestrata in Russia), aveva partecipato alla Battaglia di Berlino nel 1945, e aveva cominciato a leggere Rousseau, di cui diventerà uno dei massimi esperti, nelle rovine di Varsavia. Alla fine degli anni sessanta, isolato per le sue opinioni eterodosse, dovette abbandonare l'insegnamento in Polonia, trasferendosi prima in Francia, poi in Svizzera.
Conosceva dunque meglio di chiunque altro i limiti delle utopie, e in effetti questo suo concentrarsi sul pensiero utopico e sul secolo delle utopie, a cui ha dato innumerevoli e fondamentali contributi, è stato un modo per tenere insieme l'esigenza utopica dell'illuminismo con la consapevolezza del fatto che le utopie non si realizzano, e che forse è meglio così. E non sembra un caso se la voce che Baczko ha scelto per sé in questo dizionario è la voce "Male".
- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Robinson del 18 giugno 2017 -
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