domenica 31 dicembre 2017

Senza.

capitalismo senza

Capitalismo senza capitale - O Capitale senza capitalismo?
- di Michael Roberts -

È uscito un nuovo libro dal titolo "Capitalism without capital – the rise of the intangible economy" [Capitalismo senza capitale - l'ascesa dell'economia intangibile]. Gli autori, Jonathan Haskel dell'Imperial College e Stian Westlake del Nesta, intendono sottolineare un grande cambiamento nella natura della moderna accumulazione di capitale - ossia che gli investimenti sempre più crescenti da parte di grandi e piccole aziende non consistono più in ciò che una volta erano beni tangibili, macchinari, fabbriche, uffici, ecc., ma di beni "immateriali", di ricerca e sviluppo, di software, di database, di "branding & design". E su questo terreno che gli investimenti stanno crescendo rapidamente rispetto agli investimenti in oggetti materiali.
Gli autori chiamano tutto questo "capitalismo senza capitale". Ma ovviamente, stanno usando "capitale" nel suo senso fisico, non in quanto modo di produzione e come relazione sociale; che è il modo in cui la teoria marxista utilizza la parola "capitale". Per la teoria marxista, ciò che conta è la relazione di sfruttamento che esiste fra i possessori dei mezzi di produzione (tangibili ed intangibili) ed i produttori di valore, a prescindere dal fatto che essi siano lavoratori manuali o "mentali".
Come ha spiegato G. Carchedi, non c'è alcuna differenza fondamentale fra lavoro manuale e lavoro mentale quando si parla dello sfruttamento sotto il capitalismo. In questo senso, il capitalismo senza capitale non può esistere.
La conoscenza viene prodotta per mezzo del lavoro mentale, ma in definitiva questo non è diverso dal lavoro manuale. Entrambi richiedono dispendio di energia umana. Il cervello umano - ci viene detto - consuma il 20% di tutta l'energia che traiamo dal nutrimento, e lo sviluppo della conoscenza nel cervello produce cambiamenti materiali nel sistema nervoso insieme a cambiamenti sinaptici che possono essere misurati. Una volta che abbiamo stabilito la natura materiale della conoscenza, ne consegue la natura materiale del lavoro mentale. Il lavoro produttivo (manuale o mentale che sia) trasforma il valore d'uso esistente in nuovo valore d'uso (realizzato come valore di scambio). Il lavoro mentale è lavoro che trasforma il valore d'uso mentale in nuovo valore d'uso mentale. Il lavoro manuale consiste nella trasformazione oggettiva del mondo esterno rispetto a noi; il lavoro mentale consiste nella trasformazione della nostra percezione e della nostra conoscenza di quel mondo. Ma entrambi sono lavori materiali.
Il punto è che le scoperte - che ora vengono fatte generalmente da team di lavoratori mentali - vengono appropriate dal capitale e sono controllate attraverso i brevetti, per mezzo della proprietà intellettuale di tali mezzi. La produzione della conoscenza è rivolta al profitto. La ricerca medica, ad esempio, è diretta a sviluppare medicine per curare le malattie, non per prevenirle, la ricerca agricola è diretta a sviluppare piante che il capitale possa possedere e controllare, e non a debellare la fame.
Ciò di cui Haskell e Westlake si sono resi conto, è che gli investimenti in attività intangibili ora eccedono gli investimenti in attività tangibili.

capitalismo senza intangible

E pensano che questo stia cambiando la natura del capitalismo moderno. In effetti, questo potrebbe rendere evidente l'inutilità della cosiddetta economia di mercato. L'argomento è quello secondo cui un bene intangibile (come un software) può essere utilizzato più e più volte a basso costo, permettendo ad un'azienda di crescere molto rapidamente. Ovviamente, si tratta di un'esagerazione in quanto anche i beni tangibili come i macchinari possono essere usati più e più volte, ma è anche vero che sono soggetti ad "usura e logorio" [wear and tear] e a deprezzamento. Ma poi anche il software diventa obsoleto e "stanco" a causa dei continui cambiamenti di scopo che gli vengono richiesti.
In effetti, il "deprezzamento morale" degli oggetti intangibili è con ogni probabilità anche più grande di quello relativo agli oggetti tangibili, ed in questo modo incrementa ulteriormente le contraddizioni dell'accumulazione capitalista. Per un singolo capitalista, proteggere il profitto ottenuto grazie ad una nuova ricerca o ad un nuovo software, o proteggere il marchio dell'azienda, diventa molto più difficoltoso quando il software può essere facilmente replicato ed il marchio può essere copiato.
Brett Christophers ha mostrato nel suo libro, "The Great Leveller", che il capitalismo si confronta continuamente con una tensione dinamica fra le soggiacenti forze della concorrenza ed il monopolio. «Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce monopolio» (Marx).
È questo il motivo per cui le aziende sono così entusiaste riguardo ai Diritti sulla Proprietà Intellettuale. Ma i DPI in realtà sono attualmente inefficienti nello sviluppare produzione. "Spillover" [straripamento], come lo chiamano gli autori, laddove il beneficio derivante da qualsiasi nuova scoperta condivisa dalla comunità, è più produttivo, ma quasi per definizione lo è possibilmente solo al di fuori del capitalismo e del profitto privato - in altre parole, piuttosto che di capitalismo senza capitale, si tratta di capitale senza capitalismo!
Come sostiene Martin Woll, del Financial Time, nella sua analisi dell'ascesa degli "intangibili", «i beni intangibili mostrano delle sinergie. Questo va contro gli "spillover". Le sinergie incoraggiano la collaborazione e la cooperazione fra imprese (o le fusioni definitive), mentre è probabile che gli "spillover" le scoraggino. Chi è che vuole davvero offrire un pranzo gratis alla concorrenza?» Quindi «Prese tutte insieme, queste caratteristiche spiegano altre due cose che si trovano alla base dell'economia intangibile: l'incertezza e l'assenza di controversie. L'economia di mercato smette di funzionare in maniera familiare.»
Sotto il capitalismo, l'ascesa degli investimenti intangibili sta portando ad sempre maggior disuguaglianza fra i capitalisti. Le aziende leader controllano lo sviluppo delle idee, della ricerca e del design e bloccano lo "spillover" verso gli altri. Come risultato le "aziende squalo" stanno guadagnando rendite da monopolio, ma lo stanno facendo a spese della redditività degli altri, riducendoli allo status di zombi (limitandosi solo a coprire i loro debiti, senza essere in grado di espandersi o di investire).

capitalsimo senzawinners

Infatti, il controllo dei beni intangibili da parte di un piccolo numero di mega aziende potrebbe indebolire la capacità di trovare nuove idee e svilupparle. Nel settore dei semiconduttori, la produttività della ricerca è in calo al tasso di circa il 6,8% l'anno. In altri termini, siamo a corto di idee. Sono queste le conclusioni cui sono arrivati i ricercatori economici della Stanford University e del Massachusetts Institute of Technology Innovation [MIT]. A loro avviso, per continuare a mantenere in funzione la Legge di Moore - secondo la quale il numero di componenti elettronici (ad esempio i transistor) che formano un chip raddoppia circa ogni due anni - ora ci vogliono 18 volte più scienziati di quanti ce ne volevano negli anni 1970. Ciò significa che oggi la produzione di ogni ricercatore è 18 volte meno efficace in termini di generazione di valore economico di quanto lo fosse diversi decenni fa.
Così ci troviamo nella situazione in cui i nuovi settori guida stanno incrementando gli investimenti intangibili mentre gli investimenti complessivi crollano insieme alla produttività e alla redditività. La legge della redditività di Marx non si è modificata, ma si è intensificata.
L'ascesa dei beni intangibili significa un incremento nella concentrazione e nella centralizzazione del capitale. Il capitale senza capitalismo diventa un imperativo socialista!

- Michael Roberts - Pubblicato il 10/12/2017 su Michael Roberts Blog -

sabato 30 dicembre 2017

Arabesco

asiatico

In un saggio sul "discorso di Foucault" ("La storiografia dell'anti-umanesimo", pubblicato nella raccolta "The Content of the Form"), Hayden White afferma che la retorica dell'autore di "Sorvegliare e punire" sia deliberatamente contraria alla "chiarezza" dell'eredità cartesiana. Contro l'«Atticismo» della generazione precedente, Foucault sarebbe "Asiatico". Ancora una volta, la questione torna ad essere quella di "Greci e Barbari".
Una questione che ha un'importanza significativa nella storia della filosofia, nella storia della letteratura - dove lo stile pende, ora dalla parte del "Greco", ora dalla parte dello "Asiatico". White sottolinea che si tratta di una caratteristica che non è solamente di Foucault, bensì di tutta una "generazione" (Deleuze, Barthes, Derrida, Lyotard?). La questione è centrale anche per Deridda, soprattutto per quel che attiene alla sua lettura incrociata di Hegel e di Kant: laddove, nel sistema di Hegel, Kant occupa la posizione dello "ebreo" - dice Derrida - mentre Levinas la occupa nel sistema di Heidegger. Un tema che poi Derrida recupera anche in James Joyce: nel saggio su «Violenza e metafisica», che fa parte de «La scrittura e la differenza», parlando di Levinas, Derrida recupera una frase dello "Ulisse" di Joyce:
«Woman's reason. Jewgreek is greekjew. Extremes meet.» ["Ragionamento da donna. L'ebreo-greco è greco-ebreo. Gli estremi si toccano."]
L'assunto circola! Lo si trova nella lettura che Edward Said fa di Freud, quando propone un asse obliquo, "asiatico", fra Freud e i non-europei; o ancora, in Peter Sloterdijk, quando parla di Derrida come di un "egizio" (riprendendo, nel far questo, anche Hegel e la lettura di Hegel fatta da Derrida nel suo saggio «Il pozzo e la piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel»); Guy Davenport, da parte sua, scrive che «l'intuizione più produttiva di Oward Spengler è stata quella di suddividere le culture del mondo in tre grandi stili: l'apollineo, o greco-romano; il faustiano, o nord-europeo; ed il magiaro, o asiatico e islamico», e quel che è più interessante, conclude, «è che le categorie di Spengler sono esattamente quelle di Edgar Allan Poe [nel suo "Racconti del grottesco e dell'arabesco"]».

venerdì 29 dicembre 2017

Secessioni...

americanwar

«Nella luce vermiglia del crepuscolo, i Chestnut entrarono in quell’immensa favela fatta di tende che, fino alla notte del grande massacro, sarebbe diventata la loro città.» Quando scoppia la guerra civile, nel 2074, Sarat Chestnut ha solo sei anni, eppure sa già perfettamente che il petrolio è fuorilegge, che metà della Louisiana, dove vive, è sommersa dalle acque del mare e che i Corvi, minacciosi droni che solcano il cielo, non sono lì per proteggere lei e i suoi fratelli. Il giorno in cui la guerra arriva a lambire la loro casa, la famiglia fugge nel cuore del territorio dei Rossi, i secessionisti, fino a Camp Patience, un immenso accampamento per le decine di migliaia di profughi del Sud.È qui che Sarat diventerà adolescente e poi donna, abbandonando i giochi da maschiaccio e i sogni da bambina per scoprirsi improvvisamente troppo adulta. È qui che incontrerà un misterioso uomo, Gaines, che le aprirà gli occhi sulle ingiustizie che la sua gente subisce per mano dei soldati Blu dell’Unione. Ed è sempre qui, dopo il terribile massacro che spazzerà via le ultime speranze di una vita normale, che Sarat imparerà il sapore della violenza e della vendetta. American War è uno spaccato crudele e senza riserve sull’incommensurabile rovina che la guerra porta nella vita di una nazione, di una comunità, di una famiglia, di un singolo individuo. L’esordio di Omar El Akkad, «intenso e terrificante» come lo ha definito il Washington Post, ci mostra un futuro molto vicino, un paesaggio immaginato eppure sempre più realistico, lo scatto vivido, inquietante, di cosa potrebbe accadere se gli Stati Uniti usassero su se stessi le loro devastanti politiche, contro gli americani le armi dei loro eserciti.

(dal risvolto di copertina di: Omar El Akkad: American War, Rizzoli, pagg. 448, euro 22.)

La Seconda guerra civile americana si svolse negli anni compresi tra il 2074 e il 2095. Fu combattuta tra l'Unione e gli Stati secessionisti del Mississippi, dell'Alabama, della Georgia e della South Carolina (nonché del Texas, prima dell'annessione al Messico). La causa principale del conflitto fu l'opposizione sudista alla legge sul Futuro sostenibile, che vietava l'uso dei combustibili fossili in tutto il territorio degli Stati Uniti. La legge, sostenuta dal presidente Daniel Ki, era in parte una risposta ai drammatici effetti degli sconvolgimenti climatici registrati nei decenni precedenti, all'importanza economica sempre minore dei combustibili fossili, e al drammatico deragliamento di un treno cisterna per il trasporto di petrolio, avvenuto a Williston, North Dakota, nel 2069. Tra i principali eventi che portarono all'inizio delle ostilità ricordiamo l'assassinio del presidente Ki, avvenuto a Jackson, Mississippi, nel dicembre del 2073, per mano dell'attentatrice suicida Julia Templestowe, e l'uccisione di alcuni manifestanti sudisti nel corso di una sparatoria davanti alla base militare di Fort Jackson, South Carolina, nel marzo del 2074. Gli Stati secessionisti (uniti sotto la bandiera del «Libero Stato del Sud») dichiararono l'indipendenza il primo ottobre del 2074, data che molti fanno coincidere con l'inizio ufficiale della guerra. In seguito a una serie di importanti vittorie militari dell'Unione, nel corso dei primi cinque anni di conflitto - soprattutto nel Texas orientale e lungo i confini settentrionali di Mississippi, Alabama e Georgia (la cosiddetta «Linea mag») - gli scontri si ridussero sensibilmente. Ciononostante, alcuni gruppi di ribelli insurrezionalisti, in parte sostenuti da agenti segreti stranieri e sabotatori antiamericani, continuarono a cimentarsi in azioni di guerriglia per altri cinque anni. Dopo un estenuante processo di negoziazione, conclusosi ampiamente a favore dell'Unione, la fine della guerra venne ufficializzata con la Cerimonia del Giorno della riunificazione, celebrata nella capitale federale di Columbus, Ohio, il 3 luglio del 2095. In quell'occasione, un terrorista secessionista riuscì a varcare la frontiera, introducendosi nei territori del Nord e liberando un agente biologico (il cosiddetto «Morbo della riunificazione») che scatenò un'epidemia a livello nazionale. Gli effetti dell'epidemia, che stando alle stime ha causato circa centodieci milioni di morti, si avvertirono in buona parte del Paese nel corso dei dieci anni successivi. L'identità del terrorista responsabile resta a tutt'oggi sconosciuta.

- Tratto dalle: Linee guida per il programma federale di studi di storia, modulo otto: la Seconda guerra civile. Compendio ( di Omar El Akkad ) (© 2017 Rizzoli Libri S.p.A./ Rizzoli, Milano) -

giovedì 28 dicembre 2017

Fine di un sogno

rabinbach

Il libro "L'Eclissi delle Utopie del Lavoro" traccia il percorso che segna il passaggio dal concetto dell'uomo come macchina, del XVII secolo, al concetto di organismi digitali, della fine del ventesimo secolo.
Passo dopo passo - da Jacques de Vaucanson e la sua anatra digeritirice, al Capitale di Karl Marx, alla termodinamica sociale di Hermann von Helmholtz, ad Albert Spear ed il suo programma della Bellezza del Lavoro nella Germania nazista, e fino al posto di lavoro post-fordista – Anson Rabinbach mostra come la società, il corpo, e le Utopie del Lavoro hanno sognato le società future ed hanno lavorato per realizzarle.
Questo magistrale seguito al precedente libro, "The Human Motor" - un brillante studio sulla scienza europea del lavoro –, collega fra di loro la storia intellettuale, la storia del lavoro, e la storia del corpo. Mostra il modo in cui le ragioni politiche e quelle intellettuali abbiano potuto portare l'Utopia del Corpo come Motore ad essere ampiamente accettata e ad andare oltre il modello dell'«Uomo come Macchina», prima che, dopo il 1945, avvenisse il suo rapido declino – e, insieme ad esso, l'eclissi delle grande speranze secondo le quali un più efficiente posto di lavoro avrebbe potuto fornire le basi di una nuova società, socialmente più soddisfacente.

- Anson Rabinbach - The Eclipse of the Utopias of Labor- - ISBN: 9780823278572 - Paperback - Fordham University Press - 6 x 9 - 232 Pages - February 2018 - Price: $30.00

mercoledì 27 dicembre 2017

Passaggio

tragedia

Nella sua Introduzione alla Tragedia di Sofocle, una delle sue prime opere (note del corso tenuto all'Università di Basilea nell'estate del 1870), Nietzsche dà inizio a quello che poi approfondirà ne La nascita della tragedia: la questione - tanto filosofica quanto filologica - del passaggio dal "sentimento" alla “ragione”, il passaggio dal "gesto patetico" del rituale dionisiaco alla "messinscena", alla "conoscenza cosciente". Per Nietzsche, Sofocle è stato l'ultimo grande poeta tragico greco, una figura che opera all'interno di quel passaggio, che vive simultaneamente in entrambi i lati della questione - il lato della "visione tragica" corporale ed anche quello della "visione contemplativa" del "logos".

Walter Benjamin, nel suo saggio su Proust, "Un'immagine di Proust", parla della reiterazione di quest'idea, parla di questo procedimento critico. Benjamin commenta che spesso si parla, "a ragione", di come le grandi opere inaugurano o superino i generi. In breve, le grandi opere vivono in quel momento di passaggio dentro il quale anche Nietzsche colloca Sofocle. Più che una caratteristica essenziale comune tanto a Sofocle quanto a Proust, quello che qui Benjamin e Nietzsche rappresentano è proprio questo procedimento critico ricorrente, che consiste nell'eleggere un punto di rottura - che è anche un punto di permanenza - rispetto alla tradizione ed esplorare, in maniera discorsiva, le sue caratteristiche, i segnali e gli indizi che confermano una tale elezione.

Il lavoro di Auerbach su Dante, "Dante also Dichter der Irdischen Welt", è basato interamente su questo procedimento (procedimento che verrà poi ampliato e migliorato nel corso di tutto il suo libro, "Mimesis", anch'esso interessato ai diversi casi di personaggi-limite della tradizione occidentale). Auerbach analizza Dante nell'ottica di questa sua duplice appartenenza, nel suo posizionamento al centro di un passaggio - dal divino al mondano, dal latino al volgare, dal medievale al moderno, o perfino dalla parola all'immagine (quando Auerbach accosta, ad esempio, Dante a Giotto).

Parlando di Sofocle e della tragedia greca, Nietzsche introduce quella che sarà la questione centrale della sua opera: il confronto fra apolinneo e dionisiaco, e i possibili attraversamenti fra "lógos" e "páthos".  Una questione centrale anche per Warburg, a partire da Nietzsche, anche se implica un passaggio dal "dionisico" al "demoniaco"; termine assai più ampio, come viene sottolineato da Didi-Huberman. E questa polarità si trova annunciata già in Omero, soprattutto ne L'Iliade: da un lato ci sono i greci, dall'altro i "barbari", ossia, quelli che parlano il greco e che mentre lo parlano sembrano balbuzienti (bar, bar, bar...).

Scrive Pierre Vidal-Naquet: «L'opposizione fra greci e barbari compare in tutte le Storie di Erodoto, che desiderava sapere da cosa proveniva il conflitto fra greci e persiani e, fra gli antefatti di questo conflitto, aveva incluso il rapimento di Elena da parte di Paride; episodio che aveva scatenato la guerra di Troia. Pertanto, per loro i troiani sono barbari, e lo stesso avviene per quanto riguarda i grandi poeti tragici del V secolo: Eschilo, Sofocle ed Euripide. Troia per loro è una città barbara, anche se Euripide si interroga, chiaramente, circa il valore di tale opposizione.» (“Il mondo di Omero”, Donzelli). E più avanti: «Come si distingue Troia dagli assediatori? Agli occhi dei greci, essa ha alcune tracce orientali: l'abbondante presenza di oro nella città, per esempio, e anche negli ornamenti dei guerrieri alleati con Troia.»

Nella sezione n°12 de La Nascita della Tragedia, Nietzsche indica Le Baccanti di Euripide come una sorta di ritrattazione di ogni tendenza anti-dionisiaca delle sue opere precedenti. Da parte sua, Said, in Sullo Stile tardo, riabilita Euripide in contrapposizione a Sofocle, mostrando l'ambivalenza del primo, il suo intenso utilizzo di riferimenti storici ed il suo attraversare il contemporaneo; qualcosa che nel secondo non è poi così tanto presente.

martedì 26 dicembre 2017

Credenze

sospetto

Loro cercano di controllarci. Ci fanno credere che viviamo in società libere e democratiche e che siamo i padroni del nostro destino, ma non è così, lo sappiamo bene. Ci nascondono la verità.
Basta grattare sotto la superficie: l’omicidio di Kennedy, i vaccini, l’11 settembre, gli UFO, le scie chimiche, l’uomo sulla Luna, Bin Laden, i massoni, Lady D, gli Illuminati, Elvis Presley, il Nuovo Ordine Mondiale, i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, i rettiliani... Ovunque si guardi è evidente che c’è un piano colossale per manipolarci. Cosa si nasconde dietro le più articolate teorie del complotto e, soprattutto, chi sono i complottisti e come è possibile che così tante persone possano credere anche alle più ardite e immaginarie speculazioni?
Rob Brotherton, che da anni studia come funziona la «mentalità complottista», analizza in questo libro, accattivante, ironico, e anche un po’ inquietante, i motivi per cui le nostre menti ci inducono tanto spesso a credere a cose implausibili, non provate e, soprattutto, in nessun modo provabili. Il fatto è che queste storie si adeguano perfettamente a certi  circuiti mentali che – volenti o nolenti – tutti noi ci portiamo dentro, confortando le nostre paure più profonde, i nostri desideri più nascosti e il nostro stesso modo di interpretare il mondo. La psicologia del complotto è affascinante e svela molto su noi stessi e su come sono costruite le nostre menti. I complottismi non sono aberrazioni psichiche di pericolosi sociopatici, sono il prodotto del funzionamento del nostro cervello e la radice stessa del verbo «credere». Magari saranno in pochi a credere che il presidente degli Stati Uniti sia un mutaforma rettiliano (ma certamente sono più di quanti vorremmo che fossero!), ma sono ancora milioni (e continuano a crescere) coloro che credono alla correlazione tra autismo e vaccini (è dimostrato chiaramente che non ci sia, tanto per essere chiari).
Dopo aver letto Menti sospettose saremo sorpresi nel riconoscere come sia facile cedere alla narrazione complottista ma avremo ben chiaro come sia possibile sfuggirvi. È vero che i complotti nel mondo talvolta esistono, più spesso però è meglio essere prudenti e fare attenzione a cosa scegliamo di credere perché, alla fine, potremmo scoprire che i complottisti siamo noi.

(Dal risvolto di copertina di: Rob Brotherton:  Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, Bollati Boringhieri)

Maestri del sospetto. Il fascino discreto del complotto
- di Damiano Palano -

In un racconto pubblicato nel 1926 sulla “Yale Review”, Julian Huxley immaginò la storia di uno scienziato che scopriva il modo per poter controllare le menti dei propri simili grazie alla telepatia. Resosi conto di essere diventato a sua volta molto sensibile al dominio psichico, lo studioso escogitava un rimedio infallibile. Per difendersi dai “raggi” telepatici era infatti sufficiente proteggere la testa con una sottile lamina di metallo, grazie per esempio a un cappellino di carta stagnola. Proprio per questo il cappellino di stagnola è diventato, soprattutto negli Stati Uniti, il simbolo per indicare tutti quegli individui che vedono ovunque immaginarie cospirazioni, o che ritengono che le trame di un potere invisibile si stendano come una piovra sulle nostre società. Ma, se i cultori delle “teorie del complotto” sono spesso considerati poco più che degli svitati, dei paranoici ottenebrati dalle loro fissazioni, il volume di Rob Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti, punta invece a ribaltare questa immagine. Sintetizzando i risultati di ricerche condotte in campo psicologico, Brotherton cerca infatti di dimostrare che i “complottisti” non sono una minoranza di bizzarri individui paranoici, relegati ai margini della società. E che, in qualche modo, siamo un po’ tutti complottisti. Secondo lo studioso è possibile individuare un tipo di “mentalità complottista”, molto simile a qualsiasi altro tratto della personalità e caratterizzato principalmente dalla convinzione riposta in una serie di ipotesi generali su come funziona il mondo. Il “complottista” non crede cioè solo a una specifica teoria del complotto, ma tende di solito ad accettare più teorie del complotto (talvolta tra loro persino in contraddizione). Inoltre, cerca di spiegare tutto ciò che accade nel mondo come se si trattasse delle minuscole tessere di un grande mosaico. Ma i tratti della mentalità complottista sono in ogni caso molto più comuni di quanto si tenda a pensare. Perché, per esempio, si tratta di una mentalità strettamente correlata alla tendenza a concepire i conflitti storici come uno scontro tra bene e male, non diversamente da quanto suggerisce molto spesso la retorica politica. E perché i meccanismi psicologici che la caratterizzano, benché siano più marcati in alcuni individui, sono condivisi più o meno da tutti. Per esempio il meccanismo di proiezione, per cui tendiamo a considerare i nostri gusti e le nostre preferenze come caratteristiche molto diffuse. O il pregiudizio di proporzionalità, che in caso di grandi eventi ci spinge a ricercare cause proporzionali (e a non accontentarci di piccole casualità). O il pregiudizio di conferma, che, quando siamo in cerca di prove per una determinata ipotesi, ci induce inconsapevolmente a scegliere solo quei fatti che rafforzano le nostre convinzioni, facendoci tralasciare tutto ciò che invece non torna. Il libro di Brotherton ci suggerisce dunque di guardare i “complottisti” con meno sufficienza, sia perché non c’è poi una differenza così marcata tra “noi” e “loro”, sia perché, almeno in qualche caso, i loro sospetti possono rivelarsi fondati (a dispetto di spiegazioni persino bislacche). Ma le ricerche di cui lo psicologo espone i risultati sono utili anche per approfondire con maggiore rigore la discussione sulle fake news e sulla “post-verità”. La responsabilità non è infatti tanto (o soltanto) delle informazioni che ci vengono proposte, quanto soprattutto del tipo di informazione che ognuno di noi cerca. Anche se siamo sommersi da una selva di fonti differenti, quando clicchiamo online su un determinato link, o quando leggiamo le opinioni dei nostri “amici” sui social network, quasi sempre siamo alla ricerca solo di conferme a ciò che sappiamo. In altre parole, il pregiudizio di conferma è costantemente all’opera, rafforzato anche da un pregiudizio di assimilazione, che ci induce talvolta persino a filtrare tutto quello che non si adatta a ciò in cui già crediamo. E questo significa che, oltre alle “bolle” comunicative che costruiscono attorno a noi una sorta di “mondo su misura”, anche il nostro cervello può incapsulare le nostre convinzioni in una “bolla” protettiva altrettanto resistente.

- Damiano Palano - Pubblicato sull'Avvenire del 30/6/2017 -

Un dialogo interminabile

rovelli

Lezioni di fisica buddhista: le cose sono solo relazioni
- di Carlo Rovelli -

Capita poche volte di incontrare un libro capace di influenzare nettamente il nostro modo di pensare. Ancora più raramente di incontrarne uno di cui non sapevamo nulla. Mi è capitato. Non è un testo sconosciuto: al contrario è famosissimo, commentato da secoli da generazioni di studiosi, addirittura venerato. Io non lo conoscevo, e penso che molti dei miei connazionali italiani, come me, non lo conoscano. L’autore si chiama Nagarjuna. È un breve e asciutto testo filosofico scritto 18 secoli fa in India e divenuto classico di riferimento della filosofia buddhista. Il titolo è una di quelle interminabili parole indiane, Mulamadhyamakakarika, reso in vari modi, per esempio I versi fondamentali del cammino di mezzo. L’ho letto nella traduzione inglese di un filosofo, Jay Garfield, accompagnata da un ottimo commento che aiuta a penetrarne il linguaggio. Garfield conosce a fondo la tradizione orientale, ma viene dalla filosofia analitica anglosassone, e presenta le idee di Nagarjuna con la chiarezza e la concretezza che caratterizzano questa scuola, mettendole in relazione con il pensiero occidentale.
Non sono capitato su questo libro per caso. Persone disparate mi chiedevano: «Hai letto Nagarjuna?», soprattutto a seguito di discussioni sulla meccanica quantistica, o altri argomenti di fondamenti della fisica. Io non ho mai guardato con simpatia ai tentativi di legare scienza moderna e pensiero orientale antico: mi sono sempre sembrati tirati per i capelli, riduttivi da entrambi i lati. Ma all’ennesimo: «Hai letto Nagarjuna?», ho deciso di farlo, ed è stata una scoperta stupefacente. Il pensiero di Nagarjuna è centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sé. Tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro. Il termine usato da Nagarjuna per descrivere questa mancanza di essenza propria è «vacuità» (sunyata): le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di, qualcosa d’altro. Se guardo un cielo nuvoloso — per fare un esempio ingenuo — posso vedervi un castello e un drago. Esistono veramente là nel cielo un drago e un castello? No, ovviamente: nascono dall’incontro fra l’apparenza delle nubi e sensazioni e pensieri nella mia testa, di per sé sono entità vuote, non ci sono. Fin qui è facile. Ma Nagarjuna suggerisce che anche le nubi, il cielo, le sensazioni, i pensieri, e la mia testa stessa, siano egualmente null’altro che cose che nascono dall’incontro fra altre cose: entità vuote.
E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi vede la stella allora? Nessuno, dice Nagarjuna. Vedere la stella è una componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamo il mio essere io. «Quello che esprime il linguaggio non esiste. Il cerchio dei pensieri non esiste» (XVIII, 7). Non c’è nessuna essenza ultima o misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere. «Io» non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di concentrazione occidentale sul soggetto svaniscono nell’aria come brina la mattina.

Nagarjuna distingue due livelli, come fanno tanta filosofia e scienza: la realtà convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa distinzione in una direzione sorprendente: la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità. Non c’è. Ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui tutto il resto possa dipendere: il punto di partenza può essere la materia, Dio, lo spirito, le forme platoniche, il soggetto, i momenti elementari di coscienza, energia, esperienza, linguaggio, circoli ermeneutici o quant’altro. Nagarjuna suggerisce che semplicemente la sostanza ultima… non c’è.
Ci sono intuizioni più o meno simili nella filosofia occidentale che vanno da Eraclito alla contemporanea metafisica delle relazioni, toccando Nietzsche, Whitehead, Heidegger, Nancy, Putnam… Ma quella di Nagarjuna è una prospettiva radicalmente relazionale. L’esistenza convenzionale quotidiana non è negata, è affermata in tutta la sua complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere studiata, esplorata, analizzata, ma non ha senso cercarne il sostrato ultimo. L’illusorietà del mondo, il Samsara, è tema generale del buddhismo; riconoscerla è raggiungere il Nirvana, la liberazione e la beatitudine. Ma per Nagarjuna Samsara e Nirvana sono la stessa cosa: entrambi vuoti. Non esistenti.
Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive Nagarjuna, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, compresa la prospettiva di Nagarjuna: anche la vacuità è vuota di essenza: è convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La vacuità è vuota. Non prendete alla lettera questo mio impacciato tentativo di sintetizzare Nagarjuna. Ci mancherebbe. Ma da parte mia ho trovato questa prospettiva straordinaria e sorprendentemente efficace, e continuo a ripensarci. In primo luogo perché aiuta a dare forma ai tentativi di pensare coerentemente la meccanica quantistica, dove gli oggetti sembrano misteriosamente esistere solo influenzando altri oggetti. Nagarjuna non sapeva nulla di quanti, ovviamente, ma nulla vieta che la sua filosofia possa offrire pinze utili per fare ordine in scoperte moderne. La meccanica quantistica non quadra con un realismo ingenuo, materialista o altro; ancora meno con ogni forma di idealismo. Come comprenderla?

Nagarjuna offre uno strumento: si può pensare l’interdipendenza senza essenze autonome. Anzi l’interdipendenza — questo è il suo argomentare chiave — richiede di dimenticare essenze autonome. La fisica moderna pullula di nozioni relazionali, non solo nei quanti: la velocità di un oggetto non esiste in sé, esiste solo rispetto a un altro oggetto; un campo in sé non è elettrico o magnetico, lo è solo rispetto ad altro, e così via. La lunga ricerca della «sostanza ultima» della fisica è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale… Forse un antico pensatore indiano ci offre qualche strumento concettuale in più per districarci… È sempre dagli altri che si impara, dal diverso; e nonostante millenni di dialogo ininterrotto, Oriente e Occidente hanno ancora cose da dirsi. Come nei migliori matrimoni.
Ma il fascino di questo pensiero va al di là dei problemi della fisica moderna. La prospettiva di Nagarjuna ha qualcosa di vertiginoso. Sembra risuonare con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con la dissoluzione delle domande mal poste di Wittgenstein. Nagarjuna non cade nelle trappole in cui si impiglia tanta filosofia postulando punti di partenza che finiscono sempre per rivelarsi a lungo andare insoddisfacenti. Parla della realtà e della sua complessità, schermandoci dalla trappola concettuale di volerne trovare il fondamento.
È un linguaggio vicino all’anti-fondazionalismo contemporaneo. La sua non è stravaganza metafisica: è semplicemente sobrietà. E nutre un atteggiamento etico profondamente rasserenante: è comprendere che non esistiamo che ci può liberare dall’attaccamento e dalla sofferenza; è proprio per la sua impermanenza, per l’assenza di ogni assoluto, che la vita ha senso.

Questo è il Nagarjuna filtrato da Garfield. Esistono interpretazioni diverse del testo, commentato da secoli. Oggi se ne discutono di kantiane, pragmatiste, neoplatoniche, misticheggianti, zen… La molteplicità di possibili letture non è una debolezza del libro. Al contrario, è la testimonianza della vitalità e della capacità di parlare che può avere uno straordinario testo antico. Quello che davvero ci interessa non è cosa effettivamente pensasse il priore di un monastero nel Sud dell’India di quasi due millenni or sono — quelli sono affari suoi; ciò che ci interessa è la forza di idee che emana oggi dalle righe che lui ha scritto, e quanto queste, intersecandosi con la nostra cultura e il nostro sapere, possano aprirci spazi di pensieri nuovi. Perché questa è la cultura: un dialogo interminabile che ci arricchisce continuando a nutrirsi di esperienze, sapere e soprattutto scambi.

- Carlo Rovelli - Pubblicato su La lettura del 10/12/2017 -


Bibliografia
Il testo inglese di Jay Garfield a cui si fa riferimento nell’articolo è The Fundamental Wisdom of the Middle Way: Nagarjuna’s Mulamadhyamakakarika (Oxford University Press, 1995). Garfield traduce dalla lingua tibetana. Un’ottima traduzione direttamente dall’originale sanscrito, con commento, è Nagarjuna’s Middle Way: Mulamadhyamakakarika (Wisdom Publications, 2013) di Mark Siderits e Shoryu Katsura.
Un’eccellente analisi filosofica del testo è Nagarjuna’s Madhyamaka: A Philosophical Introduction (Oxford University Press, 2009) di Jan Westerhoff. In italiano esiste una traduzione del Mulamadhyamakakarika di Raniero Gnoli, pubblicata da Boringhieri nel 1979, con un’introduzione che lo mette in relazione con tradizioni neoplatoniche. Segnaliamo poi Nagarjuna. Logica, dialettica e soteriologia (Mimesis, 2013)di Emanuela Magno, curatrice anche di Nagarjuna. Il cammino di mezzo tradotto da Marcello Meli (edizione multilingue, Unipress, 2004). Un’altra edizione italiana è quella a cura di Thubten Rinchen ed Edmondo Turci (La via di mezzo. Con le stanze di Nagarjuna Madhyamaka Karika, editore Psiche, 2000). Come testi generali, Laterza ha ripubblicato nel 2012 la Storia della filosofia indiana di Giuseppe Tucci, un classico, mentre di quattro anni prima è Il pensiero dell’India. Un’introduzione di Raffaele Torella (Carocci)

lunedì 25 dicembre 2017

A domanda risponde...

inevitabile

Il comunismo è inevitabile?
- di Jehu -

Questa domanda è il sotto-testo di quasi ogni discussione di politica o di economia, oggi fra comunisti. E la risposta a tale domanda per lo più è "No."
In generale, i comunisti sono disposti a considerare l'idea che ci possa essere una fine al lavoro salariato, determinata da una rivoluzione politica. Alcuni potrebbero anche considerare l'idea che il capitalismo potrebbe, in qualche modo, collassare da sé solo (si veda ad esempio questo mio vecchio post su Postone e Kurz). Ma l'idea stessa che il comunismo sia il risultato inevitabile di un collasso del lavoro salariato viene respinta quasi universalmente. Permettetemi di dissentire.
Per farlo, voglio apportate un argomento tecnico per mezzo dell'idea che non solo il capitalismo collassa da sé solo, ma anche con quella secondo cui il comunismo è l'inevitabile risultato di un tale collasso. A tal fine non farò uso di nessuno dei tradizionali argomenti che sono a favore o contro quest'idea. Il mio approccio sarà del tutto tecnico.

Il capitalismo sostituisce progressivamente la produzione individuale che viene svolta separatamente e poi viene distribuita attraverso lo scambio con la produzione sociale diretta. Nella produzione individuale, gli individui entrano in un rapporto definito gli uni con gli altri solo nell'atto dello scambio. Il modo in cui si relazionano, rispetto a quelli che sono i vari atti della produzione, trova la sua necessaria proporzione durante lo scambio. Al contrario, nella produzione sociale diretta, queste proporzioni vengono stabilite prima dell'atto della produzione.
Ciò ha diverse implicazioni, delle quali menzionerò soltanto i mezzi di produzione e l'amministrazione. Nella misura in cui l'atto di produrre acquisisce un carattere sempre maggiore, anche i mezzi impiegati nella produzione diventano a loro volta sempre più importanti socialmente. E nella misura in cui i mezzi di produzione diventano sempre più sociali, l'amministrazione dell'atto della produzione acquisisce anch'esso un carattere sociale.
Logicamente, dovremmo aspettarci che, via via che l'atto della produzione diventa sempre più sociale, a questo segua il fatto che anche i mezzi e l'amministrazione della produzione lo diventino. La ragione di questo è che il lavoro sociale cooperativo è assai più produttivo di quello individuale svolto separatamente. Il lavoro individuale lascia il posto ad una assai più produttiva cooperazione sociale.

Ma questo solleva un'importante questione: se la produzione è socializzata in maniera sempre più crescente, che cosa avviene del consumo? La produzione è solo il primo atto. La produzione basata direttamente sul lavoro sociale cooperativo fa sì che venga confrontata sempre più con il consumo basato sull'appropriazione privata. Quest'antagonismo viene oggi generalmente riconosciuto, ma il riconoscimento all'inizio si limita alla stessa sfera della produzione. Il problema dell'incremento di forme sociali di lavoro nella produzione inizialmente si manifesta nella contraddizione con il lavoro sociale, e nella divisione del lavoro sociale in numerosi capitali individuali che agiscono separatamente.
La ragione per cui si manifesta prima in questo modo è che la produzione è essa stessa una forma di consumo (nella produzione, i mezzi esistenti vengono consumati). Quella che dev'essere amministrata non è solo la produzione, ma il consumo dei mezzi di produzione, così come l'atto stesso della produzione. Il bisogno di un equilibrio fra le varie sfere del lavoro dev'essere coordinato e questo si esprime in forme peculiari di crisi. I minchioni borghesi ed alcuni marxisti scambiano queste peculiari forme di crisi per endemiche del modo di produzione, quando invece esse sono attualmente forme transitorie.

Il carattere transitorio di queste particolari forme di crisi è dimostrato quando, come in Unione Sovietica, la società intraprende la produzione secondo un piano. Il carattere transitorio di queste peculiare forme di crisi è dimostrato anche quando, come lo ha dimostrato la Germania nazista, la produzione di plusvalore viene amministrata dallo Stato fascista.
La socializzazione del consumo all'interno della produzione segue velocemente la socializzazione della produzione stessa, spinta da quest'ultimo.
Il progresso della produzione sociale è tale che, in generale, i mezzi, l'amministrazione ed il consumo tende a ritardare il progresso del lavoro stesso. Per dirla in altre parole, una volta che la produzione sociale prende piede, la socializzazione del consumo inevitabile.
La socializzazione del consumo, ovvero quello che noi chiamiamo comunismo, significa che il consumo non può essere più lasciato all'appropriazione privata, allo stesso modo in cui la gestione della produzione non può più essere lasciata ai produttori individuali che agiscono separatamente.
Qui, quest'argomentazione logica, se è valida, afferma semplicemente che la società non può avere un modo di produzione basato sul lavoro sociale da una parte ed avere accanto un modo di consumo basato sull'appropriazione individuale, dall'altra. La socializzazione sempre più crescente del primo presuppone la socializzazione sempre più crescente del secondo. delle due l'una, o il consumo deve diventare direttamente sociale, o la produzione sociale deve crollare.
Qui non si tratta di preferenze della società; la produzione sociale è letteralmente troppo produttiva di ricchezza materiale per essere limitata alle esigenze del consumo privato. Per dirla con Marx, un modo di consumo basato sull'appropriazione individuale dei mezzi di consumo è una base miserabile per la produzione sociale perché l'appropriazione è basata sul lavoro. Lo sviluppo delle forze di produzione, legato direttamente al lavoro sociale sta rendendo sempre più superfluo il lavoro vivente.

Se consideriamo l'evoluzione sopra descritta come uno sviluppo strettamente tecnico, otteniamo che:

- Il progressivo emergere di un singolo produttore sociale, composto però da miliardi di produttori individuali il cui lavoro viene svolto secondo un unico piano;

- un unico mezzo di produzione, composto però da molti differenti singoli mezzi di produzione, messi in moto dall'unico produttore sociale; e, alla fine

- un unico prodotto sociale del lavoro, composto però da molti differenti singoli mezzi di consumo.

Questo singolo produttore sociale è necessario per poter soddisfare i bisogni del singolo produttore sociale, che accede a questi mezzi alle stesse condizioni cui accedeva precedentemente il singolo produttore individuale prima-delle-merci, vale a dire secondo i suoi bisogni. Certo, il processo attuale è sostanzialmente più complesso di questa descrizione tecnica, in quanto coinvolge le classi e la società di classe, ma spero che la descrizione tecnica serva a chiarire la direzione necessaria del movimento reale della società e, soprattutto, perché il comunismo è un risultato necessario. Un processo che comincia con la transizione che dalla semplice produzione di merci, alla produzione direttamente sociale deve, necessariamente, finire col comunismo. Il consumo deve seguire la produzione, non importa quanto la società si rifiuti ostinatamente di riconoscerne la necessità.

- Jehu - Pubblicato su The Real Movement, il 1° novembre 2017 -

domenica 24 dicembre 2017

La visibilità dell'invisibile

derrida

Anche Marx fa ricorso a Shakespeare per parlare dell'estraneità della lingua, della lingua come qualcosa che ossessiona, che non è mai del tutto integrata. Harald Weinrich lega insieme Shakespeare e Goethe nell'analogia del francese visto come lingua della menzogna. Derrida, da dentro tale lingua, in "Spettri di Marx" commenta "Il 18 brumaio" di Marx, soprattutto per quel che riguarda la parte in cui Viene detto che «indossa la maschera dell'apostolo Paolo», allo stesso modo in cui la Rivoluzione del 1789-1814 «ha indossato alternativamente come quelle della Repubblica romana e quella dell'Impero romano.»
Si può qui ricordare che nel suo saggio dedicato a Lutero, Aby Warburg affronta quella figura storica mettendo in evidenza la sua dimensione di traduttore e di mediatore culturale (allo stesso modo di Erasmo, Lutero è stato uno dei pochi a dominare il greco nel XVI secolo, traducendo, a partire dal 1921, il Nuovo Testamento in tedesco). Lutero, in quanto operatore della differenza sia linguistica che ideologica, opera sui passaggi, sulle contaminazioni: «Attraverso la mediazione fedele di quelle vie migratorie che portano l'ellenismo in Arabia, in Spagna, in Italia e in Germania», scrive Warburg, «gli dei planetari sono sopravvissuti nelle parole e nelle immagini come divinità viventi», e più avanti: «L'astrologo dell'epoca della Riforma attraversa questi due estremi opposti - l'astrazione matematica ed il vincolo culturale -, irreconciliabili per il naturalista di oggi giorno, come se fosse il punto di inversione di uno stato d'animo omogeneo e di un'ampia oscillazione» (Aby Warburg, Divinazione antica pagana in testi e immagini dell'età di Lutero).
Da Paolo a Lutero, da Roma alla Francia di Napoleone - secondo Derrida, si tratta di una questione di traduzione riguardo Marx. Nel passo di Derrida precedentemente citato, Marx continua: riferendosi ad un principiante che apprende un nuovo idioma e che traduce le parole nuove nella sua lingua natale, «ma non riesce ad appropriarsi dello spirito di questa nuova lingua né a riprodurla liberamente, se non quando può maneggiarla senza richiamare la sua propria lingua materna, e perfino dimenticandosi di quest'ultima». Commenta Derrida: «l'appropriazione di un'altra lingua appare qui come una rivoluzione». Ma quello che dev'essere dimenticato continua ad essere "indispensabile": «Se ne deve dimenticare lo spettro e parodia, sembra dire Marx, affinché la storia possa continuare». Va presa la misura esatta dell'oblio, che suggerisca sia la fluidità nella nuova lingua che la presenza di spirito nella lingua precedente (Jacques Derrida, Spettri di Marx).

bachtin

In "Spettri di Marx", Derrida commenta che lo "spettro" è, innanzitutto, captare una frequenza, «la frequenza di una certa visibilità, ma la visibilità dell'invisibile». Come avviene nel caso dello spettro del padre di Amleto, l'esempio principale in Derrida (insieme a quello del Marx della "Ideologia tedesca"), questa frequenza avviene tanto nel visibile quanto nell'invisibile. Così, la cosa ha a che fare ancora una volta con quel che avviene con Lutero - e che ricorre in Marx (e anche in Warburg): mentre traduceva il greco del Nuovo Testamento nel tedesco del XVI secolo, Lutero aveva l'abitudine di camminare per le strade e per le fiere delle città vicine proprio per catturare la frequenza del tedesco popolare, eterogeneo, oscillante.
Si può notare la vicinanza di questo progetto di cattura (spettrale) della frequenza della lingua popolare, da parte di Lutero (1483-1546), con quell'altro progetto, analogo, del suo contemporaneo François Rabelais (1494-1553). L'eterogeneità del linguaggio di Rabelais è il motivo centrale nella "carnevalizzazione" così come viene proposta da Bachtin, in "L'opera di Rabelais e la cultura popolare". Ma si lega anche a "Le voci di Marrakech" ["Stimmen von Marrakesch”], libro in cui Canetti riferisce circa il suo «abbandonarsi all'ascolto» di quello che non capisce nelle strade e nel mercato della città marocchina. 
«Cosa c'è nella lingua? Che cosa ci nasconde? Di cosa ci priva?», domanda Canetti, e continua: «Durante le settimane che ho trascorso in Marocco, non ho tentato di imparare né l'arabo né alcuna delle lingue berbere. Non volevo perdere nulla della forza di quelle strane grida. Volevo essere colpito da quei suoni per ciò che essi erano, e non volevo che nulla fosse attenuato da cognizioni inadeguate e artificiose. Sul paese non avevo letto niente. I suoi costumi mi erano estranei come la sua gente. A ciascuno capita d'imparare nel corso di una vita qualcosa su tutti i paesi e su tutti i popoli, ma quel poco lo smarrii nelle prime ore.».
«Oh, l'amore di Marx per Shakespeare! È ben noto», scrive Derrida in "Spettri di Marx", e continua: «Benché Marx citi più spesso il Timone d'Atene, sin dalla sua apertura il Manifesto sembra evocare o convocare, su quella terrazza di Elsinore che in questo caso è la vecchia Europa, la prima venuta del fantasma silenzioso, l'apparizione dello spirito che non risponde.». Derrida qui commenta, e continuerà a commentare, la prima frase del Manifesto Comunista: «Uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo», ["Ein Gespenst geht um in Europa - das Gespenst des Kommunismus”]. Questa convivenza dello "spettro" con la "Europa" è un segno del disordine del tempo, afferma Derrida, e in questo modo ancora una volta lega Marx a Shakespeare, a partire dal discorso di Amleto: il tempo è fuori di sesto.
Derrida parla dello spettro del Manifesto come della «disgiunzione nella presenza stessa del presente», «questa sorta di non-contemporaneità del tempo presente a sé stesso». Un'ideale di Europa che non si mantiene in forma omogenea, da qui la rivoluzione, il desiderio di rivoluzione, il confronto fra la lingua natale e la nuova lingua di cui Marx parla nello stesso Manifesto. È ben noto l'ideale di Europa di cui parla Goethe nel 1827, ventun anni prima del Manifesto, usando il termine di "Weltliteratur", "letteratura mondiale", un'Europa che ad esempio potrebbe essere fatta anche della poesia persiana (Goethe leggeva il poeta Hafez nella traduzione dell'orientalista Joseph von Hammer Purgstall). Marx ed Engels avevano familiarità con il termine utilizzato da Goethe, avendolo citato anche nel Manifesto: «E come è dei prodotti materiali, così accade anche dei prodotti intellettuali. I prodotti intellettuali di ogni singola nazione divengono la proprietà comune di tutte. L'esclusivismo nazionale diviene sempre più impossibile, e dalle molte letterature nazionali e locali vien fuori una letteratura mondiale.»

ginzburg

L'epigrafe scelta da Warburg per il suo testo su Lutero (del 1920) proviene dal Goethe del Faust II: «Quello che sto sfogliando è un vecchio libro, da Harz all'Ellade, sono tutti parenti». Nel 1923, nella clinica Kreuzlingen diretta da Ludwig Binswanger, Warburg tiene la conferenza sul rituale del serpente, una sorta di dichiarazione pubblica di sanità mentale. Usa lo stesso verso di Goethe, ma ora con un importante cambiamento, che sembra intensificare lo stesso gesto di Goethe in direzione di un oltre-l'Europa. Come riassume Carlo Ginzburg: «L'epigrafe della conferenza di Warburg, che è stato pubblicata solo dopo la sua morte, era una citazione modificata dei due versi della seconda parte del Faust di Goethe: "E come sfogliare un vecchio libro: /Atene e Oraibi, sono tutti cugini" [(Es ist ein altes Buch zu blättern/Athen, Oraibi, alles Vettern)]. A Oraibi, un villaggio perduto, scavato nella roccia, Warburg aveva raccolto testimonianze sul rito Pueblo del serpente. Nel 1920, aveva usato i versi di Goethe, nella loro versione autentica - "Da Harz alla Grecia, tutti sono cugini" - come epigrafe del suo grande saggio su Lutero e sulle profezie astrologiche. Sostituendo Harz con Oraibi, il fondatore di una biblioteca dedicata allo studio del "Nachleben" della tradizione classica, sottolineava la necessità di estendere l'analisi dei fenomeni culturali al di là dei confini non solo del Mediterraneo, ma di tutta l'Europa. L'incontro con gli indigeni Pueblo aveva permesso a Warburg di analizzare il Rinascimento italiano sotto una prospettiva vigorosa e originalissima, oggi più viva che mai» (Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova - Feltrinelli).

Warburg amleto

Tanto Marx quanto Warburg usano Lutero per pensare alla sopravvivenza, al ripresentarsi delle idee e delle forme delle forze storiche. Entrambi usano Goethe - il concetto di Weltliteratur all'interno del Manifesto, l'epigrafe dal Faust II che Warburg mette all'interno del saggio su Lutero e che ripete, trasformata per gli indios Hopi, nella conferenza sul rituale del serpente. Da Laocoonte ai Pueblo, tutti cugini!
Da parte sua, Derrida insiste, in "Spettri di Marx", sulla presenza di Shakespeare in Marx, insiste proprio sull'idea di eredità, di responsabilità che tale presenza comporta - Marx rivendica continuamente Shakespeare così come fa Amleto nel suo dramma (dentro il dramma) con il fantasma del padre. «Uno spettro si aggira per l'Europa», scrive Marx, così come Shakespeare aveva scritto «C'è del marcio in Danimarca». Una frase di Amleto che non viene citata da Derrida, offre ancora più materiale per questa relazione fra eredità e spettro, fra tradizione e sopravvivenza. Nella terza scena del quarto atto, Amleto dice a Claudio: «A man may fish with the worm that hath eat of a king, and eat of the fish that hath fed of that worm. ["Un uomo può pescare con il verme che si è nutrito di un re, e mangiare il pesce che ha abboccato a quel verme]»
Per mezzo del verme che ha mangiato il corpo del re, il pescatore può pescare il pesce, pesce che permetterà all'uomo di continuare a vivere - e, insieme a lui, continuerà a vivere lo stesso corpo del re, trasformato dall'intervento del verme. Cosa vuol dire questo?, domanda Claudio. E Amleto risponde: «Nothing but to show you how a king may go a progress through the guts of a beggar.» ["Solo mostrarti come un re possa fare un bel viaggio attraverso le budella di un mendicante"].
Sorprende che Derrida non faccia uso di questi brani di Amleto, così legati alla questione del passaggio fra il corporeo (il materiale) e l'etereo (il metafisico), il contatto fra il corpo e lo spirito. È sorprendente anche perché queste citazioni sono state intensamente rimaneggiate (come fa Warburg con Goethe) da Paul Valery, assiduo lettore di Shakespeare e di Amleto, nella famosa frase:
«Niente di più originale, niente di più "Sé" che nutrirsi degli altri. Ma bisogna digerirli. Il leone è fatto di pecora assimilata.»
Derrida non cita neanche questa frase di Valery (niente è originale, il leone è fatta di carme assimilata; il mendicante è fatto di re assimilato) sebbene sia proprio Valery la grande figura inaugurale del suo "Spettri di Marx", usando il saggio che aveva pubblicato Valery nel 1919, proprio su Amleto, in cui parla di una "crisi dello spirito" in Europa.
  «Ora, su un’immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Colonia, che tocca le sabbie di Newport, le paludi della Somme, i gessi di Champagne, i graniti di Alsazia – l’Amleto europeo guarda migliaia di spettri. Ma è un Amleto intellettuale. Medita sulla vita e sulla morte delle verità. Ha per fantasma tutti gli oggetti delle nostre controversie; per rimorso tutti i titoli della nostra gloria (…). Se tocca un teschio, è un teschio illustre. – Whose was it? – Quello fu Leonardo. (…) E quest’altro teschio è quello di Leibniz che sognò la pace universale. E quello fu Kant qui genuit Hegel, qui genuit Marx, qui genuit… Amleto non sa bene che farsene d tutti questi teschi. Ma se li abbandona!… Smetterà di essere se stesso.» (P. Valéry, La Crisi della coscienza europea, 1919)

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In ”Spettri di Marx”, Derrida analizza il contatto fra Marx e Max Stirner nella "Ideologia Tedesca", libro in cui il primo rivisita una certa tradizione hegeliana con l'intento di sottolineate, fra le altre cose, una differenziazione fra lo "Spirito" e lo "spettro". «Marx sembra prevenire Stirner: se si vogliono evocare i fantasmi», scrive Derrida, «la conversione egologica non è sufficiente, neppure la riduzione fenomenologica, bisogna lavorare - praticamente, effettivamente. Marx è molto fermo su questo punto: quando si distrugge un corpo fantasmatico, rimane il corpo reale». E ancora: «bisogna attraversare e lavorare su le strutture pratiche, sulle mediazioni solidali dell'effettività reale, "empirica", ecc. Diversamente, si sarà evocata la fantasmabilità del corpo, non il corpo stesso del fantasma, ossia, la realtà dello Stato, dell'imperatore, della nazione, della patria ecc.».
Il collegamento fra la fantasmabilità del corpo ed il corso stesso del fantasma, che in Derrida rasenta quasi l'aporia, sembra essere uno degli sforzi di Balzac ne "Il colonnello Chabert", il colonnello di Napoleone che viene dato per morto, ritorna anni dopo e, nonostante il ritorno, anche se c'è il corpo stesso del fantasma, la fantasmabilità del corpo viene continuamente rivendicata, messa in primo piano (e in questo caso specifico di Chabert e Balzac, "la realtà dell'imperatore" come esempio del corpo stesso del fantasma è eloquente, dal momento che il ritorno di Chabert è anche il ritorno dell'imperatore, un indizio del fatto che l'esorcismo non è stato del tutto efficace, che qualcosa del passato sopravvivrà sempre nel presente, ecc.).
E quindi, tanto l'idea dell'imperatore quanto la materializzazione del colonnello che è in gioco nel suo ritorno così come viene presentato da Balzac. «Quando si distrugge un corpo fantasmatico, rimane il corpo reale», scrive Derrida a partire da Marx, ma anche il contrario, in una dialettica del corpo e del fantasma, come avviene nella lettura che ne fa John Berger della fotografia di Che Guevara morto (“immagine dell'imperialismo”, che entra in risonanza con Rembrandt, con Mantegna, ma anche con l'insistenza di Thomas Bernhard, per esempio, secondo cui anche il "corpo fantasmatico" del nazionalsocialismo, una volta morto, è riconoscibile nei gesti, nelle parole, nel movimento dei "corpi reali" dei suoi familiari, dei suoi contemporanei.

sabato 23 dicembre 2017

E se fosse già successo?!?

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Dobbiamo cominciare a immaginare la fine del mondo
- di Jehu -

Ci sono due enormi deficit in Endnotes e riguardano il loro insistere sul fatto che il catastrofismo è sbagliato e che la catastrofe non c'è già stata. Chiunque pensi che Endnotes apporti nuove idee riguardo i problemi da affrontare, deve tener conto della loro mancanza di strategia e di una chiara comprensione di ciò che sta accadendo. Ci sono delle notevoli somiglianze fra la comunizzazione di Endnotes e l'afro-pessimismo di Wilderson. Se Wilderson asserisce che il mondo è irreconciliabilmente anti-nero, Endnotes asserisce che non è solo irreconciliabilmente anti-nero, ma è anche irreconciliabilmente anti-comunista. Penso che sia più corretto riferirsi alla comunizzazione come "pessimismo comunista". Nel mondo di oggi, non c'è spazio per qualsiasi cosa si avvicini al comunismo. Per realizzare il comunismo, dobbiamo distruggere letteralmente il mondo. L'osservazione di Zizek, secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, ci offre in qualche modo una soluzione: dobbiamo cominciare ad immaginare la fine del mondo. Se il mondo è irreconciliabilmente anti-nero e se il mondo è irreconciliabilmente anti-comunista, la nostra unica possibilità è quella di tentare la completa distruzione del mondo. Non sto parlando metaforicamente. È il mondo stesso che oggi deve essere distrutto nel senso "landiano" del termine. I comunisti oggi devono essere nichilisti quanto lo è l'accelerazionismo landiano!

Come spiega l'autore di questo articolo, si tratta di un grosso problema per i comunisti:
«È difficile rinunciare all'idea che ci potrebbero essere delle misure intermedie che possano collegare il mondo in cui viviamo con il mondo che preferiremmo. Il concetto secondo cui la crescente complessità e l'interdipendenza dell'economia punta alla “abolizione della stessa produzione capitalista(Il Capitale III) ha sempre costituito la parte più eccitante del marxismo, la qualità che lo distingue dal millenarismo religioso della ribellione esistenziale. Un altro mondo non solo è possibile, ma sta già prendendo forma - in maniera non uniforme, incompleto - attorno a noi, per tutto il tempo. Se non altro, questa filosofia consente la possibilità che le lotte in corso potrebbero avere successo; qualcosa che Endnotes ha difficoltà ad immaginare.»
Potrebbe essere difficile rinunciare all'idea che esiste uno stadio intermedio fra il mondo in cui viviamo ed il mondo che vogliamo, ma questo è esattamente ciò che dobbiamo fare. Dobbiamo rinunciare all'idea che può esserci una fase di transizione che porta al comunismo. Tutti i passi che mancano per arrivare al comunismo sono fatalmente infetti di anti-neritudine e di anti-comunismo. Non c'è spazio per uno stadio intermedio che porti ad un mondo che non sia anti-nero o anti-comunista. È questa la risposta ad un certo numero di enigmi.

Per prima cosa, significa che non ci assumiamo la responsabilità di gestire l'economia. Non ci interessa l'economia. Non ci interessa la produzione. Non ci interessa il lavoro. Non ci interessa il modo in verranno prodotti quei congegni che poi verranno razionati sotto il comunismo. E trattiamo come se fosse il nemico chiunque sia preoccupato per queste banalità. Chiedere come verranno prodotti dei videogiochi sotto il comunismo equivale a chiedere come sarebbe stato gestito dalla legge negli anni '50 il matrimonio interrazziale, dopo che fosse finita la segregazione. Secondo quest'articolo, Endnotes e Théorie Communiste affermano che Marx non era un "cattivo" marxista, ma semplicemente che egli viveva in una fase diversa del capitalismo. Come la maggior parte dei radicali che sentono che c'è stata una discontinuità intorno agli anni 1970 che sostanzialmente ha reso obsoleta la strategia di Marx. Dopo il 1970, la classe operaia industriale non poteva più essere al centro della strategia comunista, in quanto sta per essere resa rapidamente superflua per la produzione di ricchezza materiale.
Certamente, le statistiche fasciste mostrano che l'occupazione industriale ha raggiunto il picco negli Stati Uniti, negli anni 1970, ma perché questo suggerisce la necessità di un cambiamento nella strategia? In tutti i loro documenti, i radicali ed i comunisti indicano gli anni 1970 come uno spartiacque nella storia del capitalismo. Ma non abbiamo ancora visto lo stesso consenso su una causa che sia d'accordo con la teoria del valore lavoro secondo la quale gli anni 1970 sono stati uno spartiacque.
Quello che è accaduto dopo il 1970 non è stata una catastrofe, ma è stato abbastanza potente da invalidare più di un secolo di strategia comunista? Chi è che sta comprando queste stronzate? Dal 1848 al 1970, è stato il programmatismo a governare il pollaio. In qualche modo tutto questo è finito nel 1971.

E casualmente è finito anche il Gold Standard. Il 1970 è stato un anno interessante perché è stato l'ultimo anno prima che il Gold Standard alla fine collassasse. Endnotes non offre nessuna spiegazione per cui il Gold Standard collassi nel 1970, dal momento che loro, come hanno scritto, non sono "catastrofisti".
Qui, non sto cercando di essere catastrofista, ma è possibile che questi due eventi siano correlati? Vale a dire, il picco dell'occupazione industriale negli anni 1970, il collasso del Gold Standard ed i 132 anni di strategia comunista che diventa obsoleta. Che straordinaria coincidenza! L'ordine su cui si basava tutto il dopoguerra si è risolto nel giro di pochi mesi, ma non "catastroficamente", intendiamoci.
Per mostrarti a cosa assomiglia, ecco qui il PIL degli Stati Uniti dopo il 1970, e come appare in dollari e come appare in oro:

Distruzione pil usa


Come si può vedere, nel primo grafico il PIL in dollari degli USA mostra una familiare caratteristica traiettoria tipica della crescita economica costante. Il secondo grafico, tuttavia, dove il PIL degli Usa viene misurato in oro, mostra una profonda e protratta depressione. Abbastanza stranamente - dal momento in cui il Gold Standard è crollato, nel 1971 - il PIL statunitense - sia in termini di oro che in quelli di dollari - non è più in linea con la crescita che ha avuto luogo negli anni 1970. Prima, le due misurazioni del PIL erano sempre concordi, ma ora non lo sono più.
Indovina quale dei due grafici indica in maniera più accurata l'inizio del picco dell'occupazione industriale ed il collasso del programmatismo comunista! Mi si lasci dire che non collaboro ad Endnotes, e non ho mai sostenuto - come fanno loro - che il programmatismo sia collassato dopo gli anni 1970. Questo è il loro argomento, non il mio. Tutto ciò che ho fatto, e che ho mostrato per mezzo dei dati empirici, consiste nell'asserire che ci sono delle prove per la loro argomentazione, e che queste prove suggeriscono che in effetti dopo il 1970 c'è stato un collasso catastrofico del modo di produzione. Tale collasso catastrofico è stato il collasso finale del Gold Standard.
Ma ecco il punto: il Gold Standard era semplicemente una forma di merce denaro. E la merce denaro è semplicemente una forma del valore di scambio. Allora, che cos'era che prefigurava la fine della produzione basata sul valore di scambio, ovvero basata sulla merce denaro, ovvero basata sul Gold Standard?

- Jehu - Pubblicato l'8/11/2017 su The Real Movement -

Cappotti

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Il tema del confronto fra lo scrittore maturo e il giovane scrittore, oppure anche il tema del confronto del medesimo scrittore in due sue diverse versioni della propria vita. Il periodo che Paul Auster chiama «dalla mano alla bocca» - vivendo con poco, incerto per quel che riguarda il futuro. Vi è quasi un senso di colpa da parte dello scrittore maturo  nel rivisitare questo periodo della vita e, dalla parte del lettore, una sorta di disappunto, di delusione, di fronte al successo a venire (la cupa visione del giovane scrittore di solito non regge, non dura).

I diari di Emilio Renzi/Ricardo Piglia, soprattutto il primo volume relativo agli "anni della formazione", sono pieni di situazioni che ampliano e commentano questa logica. Perciò, è fondamentale tenere in mente che i diari di Renzi sono delle rielaborazioni tardive di un Ricardo Piglia maturo, che ha avuto successo, ed è vicino alla morte.
Scrive Renzi il 24 marzo del 1967: «Guardo criticamente certe decisioni della mia vita che sono state prese in ragione del futuro della mia letteratura. Per esempio, vivere senza niente, senza proprietà, senza niente di materiale che mi leghi o che mi dia degli obblighi. Per me, scegliere vuol dire scartare, trascurare. Questo genere di vita definisce il mio stile, spoglio, veloce. Bisogna essere rapidi e sempre ponti ad abbandonare tutto e a scappare.»

Poi, il 29 marzo 1967 Renzi torna sul tema: «La paura mi attanaglia fin da quando ho lasciato l'università, subito dopo il Golpe di Ongania, e mi sono unito agli insegnanti che chiedevano l'esonero, precludendomi così la possibilità di avere un impiego stabile. Non ha molto senso ed è assurdo che io abbia paura per un futuro che estenda oltre i sei mesi. Posso vivere confidando in un'economia che mi garantisca alcuni mesi sicuri, non tutta la vita, ciò sarebbe ridicolo. Adesso ho già pronto il libro dei racconti ed ho messo da parte duecentomila pesos (come anticipo sulle vendite editoriali). Queste idee sono emerse perché ho speso 22.500 pesos in un cappotto italiano che ho comprato ieri.»

Ecco un enigma economico indagato da Marx che è anche una questione narrativa: non è possibile raccontare ogni astrazione sociale senza fare ricorso alla singola esperienza. In questo senso, è degno di nota che ciò che ha motivato il commento di Renzi/Piglia sia stato proprio un cappotto, cosa che riporta alla mente tutta la narrativa saggistica di Peter Stallybrass, che verte tutta intorno al "cappotto di Marx". Al contrario dell'esperienza di Auster, tuttavia, il confronto fra Piglia e la sua versione giovane e senza futuro (intrinseca ironia del dilemma: il diario viene scritto a partire da una fiducia di un futuro, di una lettura postuma) passa per la dittatura, passa per lo stato di eccezione, un marchio decisivo della letteratura del XX secolo in generale (da Nabokov a Imre Kertész).  

venerdì 22 dicembre 2017

Gente

GENTE

Dieci anni fa usciva La casta, un libro che ridefiniva il discorso politico italiano: la fine dei partiti tradizionali, l’odio per le élite in generale, l’indignazione di chi si sentiva escluso e defraudato. Oggi quel risentimento si è rovesciato in orgoglio: la fine della politica come la conoscevamo non ha generato un vuoto, ma una galassia esplosa di esperienze tra il grottesco, il tragico e l’apocalittico. Dai forconi alle sentinelle in piedi, dai «cittadini» che s’improvvisano giustizieri alle proteste antimigranti, La Gente è il ritratto cubista dell’Italia contemporanea: un paese popolato da milioni di persone che hanno abbandonato il principio di realtà per inseguire incubi privati, mentre movimenti politici vecchi e nuovi cavalcano quegli incubi spacciandoli per ideologie. Leonardo Bianchi ha scritto il miglior reportage possibile su un paese che non si può raccontare se non a partire dalle sue derive, e l’ha fatto seguendo ogni storia con la passione di un giornalista d’altri tempi, il rigore dello studioso che dispone di una prospettiva e di un respiro internazionali, e un talento autenticamente narrativo, capace di attingere a una ferocia e a una forza profetica degne di un romanzo di James Ballard.

(Dal risvolto di copertina di: Leonardo Bianchi: La Gente. Viaggio nell'Italia del risentimento, minimum fax)

Il risentimento che ci riguarda e l’invenzione del «gentismo»
- di Giuliano Santoro -

La rete è ormai precipitata sulla terra. L’uso superficiale del mix di linguaggi vecchi e nuovi – che chiamiamo per semplicità web 2.0 – è arrivato in strada, ha contagiato un pezzo di mondo intellettuale, colonizzato il confronto politico mainstream, ha smesso di essere soltanto una bolla virtuale. Ciò produce effetti concreti e rapidissimi. È accaduto di recente. La demonizzazione delle Ong operanti nel Mediterraneo è partita da un video virale, poi ha trovato sponda in Striscia la Notizia e Luigi di Maio e infine è approdata ai tavoli strategici del Viminale. Di questi fenomeni si occupa La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento (Minimum Fax, pp. 362, euro 18), libro con cui il giornalista Leonardo Bianchi raccoglie anni di studi e osservazioni di un fenomeno che, adottando una definizione ancora sperimentale ma urgente, viene chiamato «gentismo».
Bianchi parla di un tema globale, è impossibile non pensare alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ma nel paese che ha inventato la Lega e Berlusconi, questa storia assume caratteri peculiari. Il titolo rimanda direttamente a «La Casta», il mega-seller figlio di una campagna stampa messa in piedi anni fa dal Corriere della Sera. Secondo alcuni testimoni, il tutto era funzionale alla discesa in campo dell’ennesimo imprenditore da contrapporre ai «politici di professione». Come è noto, se ne avvantaggiarono Grillo e Casaleggio, che rimodularono la loro comunicazione sui temi degli sprechi della politica corrotta. Se già è difficile definire il concetto di populismo, non è affatto semplice cogliere l’essenza del gentismo. Obbligati ad una certa approssimazione, diremmo che se il populismo è la capacità di costruire un popolo sul quale poi esercitare sovranità, il gentismo è una sua variante. Muove i primi passi nelle piazze microfonate inventate da Michele Santoro ai tempi di Tangentopoli e poi traslocate nei preserali a tema unico (immigrati e rom) di Mediaset come dai comizi su YouTube di leader autoproclamatisi voce della «gente».
Il capo gentista usa i media per dialogare col suo popolo, ma è al tempo stesso consapevole del fatto che il suo discorso è impossibile da disarticolare perché non ha, e non può avere, nessuna linearità. È una narrazione sincretistica e disarmonica, priva di ogni consequenzialità. Solo così, ad esempio, è possibile spiegare per quale motivo Yair Netanyahu, figlio del premier israeliano, abbia potuto diffondere via social la paccottiglia antisemita sul miliardario ebreo Soros visto come burattinaio occulto del mondo. O capire come, per tornare in Italia, ad un convegno sui beni comuni si sia finiti a discutere anche della bufala della Hazard Circular, una lettera tra banchieri scritta al tempo dell’abolizione della schiavitù negli Usa, che conterrebbe il disegno del governo della moneta come forma più sottile e subdola di sottomissione.
Il gentista può infischiarsene delle contraddizioni: attinge dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, si appiglia ai cardini del liberalismo e al tempo stesso sventola lo spettro di una qualche dittatura stalinista e/o nazista. Grazie alle micro-nicchie di cui è composto l’audience cui ogni gentista si rivolge, il suo argomentare sarà composto da brandelli di storie rimescolate alla bisogna. Siamo oltre le fake news: è lo spappolamento della verità.
Il tema comporta due rischi, opposti e speculari, che Leonardo Bianchi evita con perizia. Da un lato, si potrebbe cedere alla tentazione di porsi su di un piedistallo, inarcare il sopracciglio e giudicare con scalpore lo sgrammaticare della «ggente». D’altro canto, c’è il pericolo parallelo di blandire questa parodia della rivoluzione. Questo secondo atteggiamento, a ben vedere, è ancora più elitario del primo, è animato dalla pretesa di indirizzare gli umori della gente dall’alto di una qualche posizione d’avanguardia, manovrando le leve della comunicazione e della tattica. Bianchi bada all’osso, come quando ripercorre l’origine del fantomatico Piano Kalergi, volto a sostituire le popolazioni occidentali con masse di schiavi meticci.
Fino a pochi anni fa argomento da neonazisti, oggi quel testo viene citato con piglio serioso dal sedicente marxista Diego Fusaro (vero filosofo del gentismo, apprezzato da xenofobi e indignati qualunque, ben introdotto nei salotti televisivi e pubblicato dalle grandi case editrici progressiste).
Si sarà capito: questo non è un libro sul web o sulla comunicazione, contiene pagine scritte sull’asfalto rovente, che raccontano il tentativo neofascista di prendersi le periferie romane modulando il discorso gentista. Dulcis in fundo, documenta le tattiche gentiste sul web di certa comunicazione renziana. Ennesima prova del fatto che i primi gentisti non erano bizzarri agitatori ma pionieri esponenti di una nuova mutazione della politica dopo la fine della rappresentanza

- Giuliano Santoro - Pubblicato sul Manifesto del 12/10/2017 -

La gente perde, il popolo vince
- di Daniele Giglioli -

Per chi è abituato a pensare con le orecchie, e cioè a riflettere e magari a fantasticare un po’ sulle parole che ascolta, il termine «gente», nel senso in cui lo si usa oggi nella comunicazione pubblica, è un tremendo adescatore, un vero dongiovanni. Non significa nulla. Meglio: significa esattamente il fatto di non significare nulla. Non dà forma all’indeterminato, lo indica (è una cosa difficilissima, provateci un po’ voi; e già che ci siete provate anche a definirlo in modo plausibile). Non suggerisce tratti specifici, né in positivo — si è gente quando… — né in negativo — non si è gente se… Chiunque può essere «gente», anzi deve. Che cos’altro mai potremmo essere? In confronto il suo concorrente «popolo», da cui oggi l’abusata categoria di populismo, si presenta  vecchiotto, tardigrado, sovraccarico di connotazioni per lo più negative e polemiche, e anche di un bel po’ di storia reale e non sempre spregevole — il populismo russo della seconda metà dell’Ottocento, quello degli agricoltori americani degli Stati del sud, quello argentino… Non stupisce che «gente» gli dia la birra. Affascinante, onnipotente, e come tutti i grandi seduttori anche un po’ sinistro. Finché resta da solo ha un’aria innocua. Appena si accoppia mostra subito però il suo lato inquietante (anche se ormai è troppo tardi): i bisogni della gente; le paure della gente; la giusta indignazione della gente;  la gente comune; la gente onesta che lavora (pericolosissimo, questo!). Chi può sentire senza un brivido e un sobbalzo espressioni siffatte è qualcuno di cui invidiare il sonno, la digestione e la pressione sanguigna. È come vedere Don Giovanni trasformarsi in Dracula. Essendo pieno di nulla (ciò che a rigore è già un controsenso: non se ne esce), «gente» riesce a parassitare tutto, spogliandolo di ogni contenuto politico e di ogni forza vitale. Quando ci si sente apostrofare come «gente» conviene subito fare una qualche forma di scongiuro, o più prosaicamente mettere la mano al portafoglio. La fregatura è assicurata.
Per fortuna ora disponiamo se non proprio ancora di un vero manuale di esorcismi, quanto meno di una fenomenologia accurata e documentata del contagio, grazie al bel libro di Leonardo Bianchi, La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento.
Vi si impara tantissimo, attraverso una casistica scritta con la mano del cronista e l’intelligenza dell’antropologo. Intanto un po’ di storia. Per quanto il termine non sia certo nato allora, Bianchi assegna alla sua neoformazione la data di nascita simbolica del 2007, quando si inaugurò il fortunato filone editoriale delle varie Caste, negli anni del crepuscolo del berlusconismo e della nascita del Movimento 5 stelle. Ma con intorno tutta una galassia di personaggi ed episodi che hanno incredibilmente tenuto la ribalta delle prime pagine per poi altrettanto incredibilmente ritornare nel nulla: la rivoluzione del 9 febbraio promossa dai Forconi (chi scrive qui ne ha un ricordo molto vago), il benzinaio Stacchio diventato un eroe per aver sparato ai banditi (io lo avevo dimenticato), le barricate di Gorino (dov’è poi Gorino?) contro una decina di migranti, le polemiche contro i vaccini, le scie chimiche, l’ideologia gender e centinaia di altri casi, nomi, luoghi prontamente ripresi dai media e dai social. A riguardarli adesso sembrano leggende metropolitane, invece è tutto vero, tutto cronaca, tutto documentato. Poi un po’ di morfologia. Quello che si capisce benissimo dal libro di Bianchi è che, essendo informe e insignificante, il termine «gente» può acquisire un surrogato di concretezza soltanto contrapponendosi a qualcosa: la Casta, appunto, gli immigrati, i rom, gli statali, le multinazionali, le banche, le Ong… Qualcosa che viene arbitrariamente ritagliato ed espulso dall’intero per dare all’intero almeno un senso di «meno 1». I politici, per esempio, non sono «gente» (anche se a guardarli intervistati dalle Iene la differenza onestamente non si nota). La gente esiste solo se c’è un nemico della gente. Poi la psicologia: il risentimento, come dice il titolo. Su questa antipatica passione uno pensava di sapere tutto grazie ad autori come Nietzsche, Scheler, Girard. Ma Bianchi mostra una volta di più come la quantità si trasformi oltre una certa soglia in quantità, e come il risentimento, un tempo un solvente che divide e disunisce, sia diventato la principale forma di aggregazione sociale, onnipresente, impermeabile a ogni critica, autoimmune. Infine, in un colpo solo, la causa e il destino — ovvero come andrà finire. La causa è una sola: non l’ingiustizia, come si crederebbe (quella c’è sempre stata) ma l’assoluta impotenza a contrastarla. L’impotenza e la sua consapevolezza. Il popolo qualche battaglia la vinceva. We, the PeopleLa sovranità appartiene al popoloIn nome del popolo italiano… Sono tutte testimonianze di vittorie. La gente invece perde sempre. Per definizione. E lo sa. Per questo manifesta inutilmente, posta insulti inutilmente, spara inutilmente. L’indignazione non ha nulla a che fare con la collera, passione anticamente ascritta a dèi ed eroi da religioni e miti. A vincere è soltanto chi la raggira facendole credere di parlare in suo nome. E in qualche modo lo fa. Nel definirsi «gente» c’è un osceno e masochistico piacere di perdere che inibisce ogni empatia. Se la gente è tutti e nessuno, a chi interessano le faccende di nessuno, come già rimproveravano i Ciclopi a Polifemo?

- Daniele Giglioli - Pubblicato su La Lettura del 10/12/2017 -

giovedì 21 dicembre 2017

Di fatto!

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Il problema centrale della strategia comunista
- di Jehu -

Il problema centrale della strategia comunista consiste in questo: Il capitale odia il lavoro salariato più di quanto lo odi tu! Sebbene i capitalisti siano assolutamente dipendenti dal lavoro salariato, e i proletari lo sono solo nella misura in cui devono avere dei salari per la loro sussistenza, nella pratica i capitalisti odiano il lavoro salariato più di  quanto lo odiano i proletari. È lo stesso lavoro salariato a rivelare come i capitalisti possono farne a meno, nel mentre che, allo stesso tempo, mostra come i proletari, in mancanza di esso, morirebbero di fame. I comunisti non hanno mai immaginato come sviluppare una strategia in grado di affrontare questa curiosa inversione della realtà materiale. Non c'è rimasto molto tempo per riuscire a immaginarselo.

«Il mese scorso, hanno cominciato a circolare dei rapporti che affermano che nei prossimi mesi "Waymo" - la divisione di Google/Alphabet che si occupa di autovetture autonome - avrebbe lanciato un servizio di trasporto automobilistico privato. Ora, dopo otto anni di sviluppo, Waymo ha ufficialmente annunciato che le loro auto adesso sono pienamente autonome, e ben presto forniranno trasporto come parte di un nuovo servizio di "ride-hailing" che verra lanciato molto presto. » ( https://futurism.com/waymo-ride-hailing-service-launching-soon-fully-autonomous-cars/ )

- Jehu - Pubblicato il 23/11/2017 su The Real Movement -