Dalla sofferenza del lavoro alla sua riabilitazione
-Una critica di Christophe Desjours -
di Deun
Il tema della "sofferenza da lavoro" è d'attualità, attraverso lo stress, i suicidi riconosciuti come dovuti a cause professionali, ecc.. Un certo numero di specialisti del lavoro (psicologhi, sociologhi, medici, consulenti o ricercatori) si sono espressi pubblicamente denunciando questa sofferenza, in quanto essa sarebbe dovuta a nuove forme gestionali. Si tratta soprattutto della tesi di Christophe Dejours, il quale sostiene che i collettivi di lavoro vengono distrutti da delle valutazioni individuali. Per cui, i lavoratori non arrivano più a fare ciò che ritengono di dover fare, e soffrono di un'immagine degradata di sé stessi.
Questa spiegazione si basa sull'idea che il lavoro rimane centrale. Il documentario di Jean-Michel Carré, del 2004, « J’ai (très) mal au travail » (n.d.T.: "Ho (molto) male al lavoro") si chiude su delle immagini di rivolte urbane, con un commento di Christophe Dejours che ci dice che tutto ciò conferma la centralità del lavoro del passato (con l'integrazione dei migranti, grazie al sindacato, nelle fabbriche in cui vengono integrati) e che oggi non c'è niente per sostituirlo. Dobbiamo quindi tornare a formare dei collettivi di lavoro, una solidarietà basata sul lavoro. Se volete criticare il lavoro in tali condizioni, quindi cercate di affilare bene i vostri argomenti perché ben presto si supporrà che state predicando la pigrizia. Come se fuori dal lavoro, non si facesse niente di importante e di vitale. Come se resistere al lavoro dovesse essere necessariamente una tattica individuale... Ecco perciò, qui di seguito, una piccola messa a punto...
Di fronte alla sofferenza da lavoro, forse può essere utile rimettere in discussione la "centralità" del lavoro. Nell'emergenza di un male, bisogna proteggersi da ciò che ci causa troppa sofferenza. Ma, cosa curiosa, gli specialisti della sofferenza sul lavoro, psicologhi e sociologhi, difendono anche l'idea della centralità del lavoro. Perché è il lavoro centrale, socializzante, ciò che fa soffrire, ma tuttavia loro non rimettono in discussione questa centralità. Non ci sono alternative. Il lavoro è naturale, è per esso, è per il lavoro che le persone si mettono insieme, e non solo, essendo l'uomo un "animale sociale", il lavoro è anche naturale, in quanto partecipazione ad un'opera o a quell'organizzazione collettiva che è l'impresa (non è caricaturale: sono queste le idee che stanno anche alla base dei critici del "neo-management"). Ma il lavoro non è affatto naturale, in quanto emerge storicamente, e neppure ha il monopolio di quello che riguarda il collettivo. Il lavoro emerge storicamente in quanto legato allo sviluppo della "economia", una parola la cui etimologia è ambigua ("gestione della casa") proprio perché l'economia che si sviluppa è dovuta al fatto che la vita quotidiana domestica dipende sempre più da ciò che domestico non è, in quanto viene concepito, prodotto, all'esterno della casa, prodotto per l'impresa, organizzato da burocrati pubblici, ecc..
E tutto questo fino ad arrivare ad un punto critico in cui non si riesce nemmeno ad immaginare che si possa fare diversamente. La vita quotidiana invasa dall'economia, è l'impossibilità a non fare altro se non comprare quello che serve per vivere, anche le cose assolutamente vitali. Ora, quest'esistenza economica non è esistita sempre, in quanto una parte variabile delle condizioni di sussistenza veniva, e può sempre essere, presa in carico all'interno di uno spazio domestico più o meno ampio che in genere eccedeva i contorni della famiglia (soprattutto quelli dell'attuale famiglia nucleare). Ora il lavoro è legato all'economia. Non è affatto un'attività come le altre, ma è un'attività che viene svolta in cambio di denaro. Il fatto che la vita quotidiana dipende dall'acquisto di oggetti o di servizi ha la sua contropartita nelle partecipazione alla produzione di tali merci. Il denaro permette di far circolare le merci in un senso, ed il lavoro che le produce, anch'esso merce, le fa circolare nell'altro senso. Non ha niente di naturale. Abituale, banale, difficilmente contestabile e criticabile. Ma niente affatto naturale. Si può combattere la sofferenza del lavoro senza rimettere in discussione una tale organizzazione sociale? Gli specialisti del lavoro e della sua sofferenza non la rimettono affatto in discussione: ci dicono che è "centrale". Riguardo alla sofferenza dovuta al lavoro non hanno altra soluzione (ne condannano gli eccessi, nel mentre che gli eccessi sono la caratteristica propria dell'economia) se non quella di invocare la solidarietà, ciò che manca così tanto agli individui, che si vengono a trovare isolati e colpevoli di fronte ad una macchina-lavoro che dice loro che sono inutili o incapaci. Ovviamente, questa mancanza di solidarietà non impedisce al lavoro di essere svolto. La partecipazione a quel compito comune che è l'impresa produttrice di merci crea benissimo una sorta di solidarietà, ma si tratta della solidarietà della disposizione degli ingranaggi che si incastrano fra di loro per attuare un meccanismo.
Quando una rotella fallisce, il meccanismo non è particolarmente solidale ma desidera ripristinare il suo funzionamento adattandosi ad essa, o rimpiazzandola, se questo non è possibile. Alla fine, non solo il lavoro non è naturale, ma si possono anche avere dei grossi dubbi sulla natura della vita collettiva che esso instaura. Alla base del problema, c'è il fatto che ciò che la macchina ci domanda di fare assai raramente ha molto senso. Intendo dire che il ruolo che ci viene chiesto di svolgere non risponde affatto ai nostri bisogni, ma a quelli di una meccanica che va al di là di noi. Per contro, noi abbiamo bisogno di denaro per comprare ciò che non sappiamo/possiamo produrre, e quindi abbiamo bisogno di lavorare. Ma questo bisogno di denaro non crea veramente senso, per cui in genere ci si ostina a trovare un senso positivo nel lavoro, senza che fondamentalmente non riveli un bisogno immediato.
Fare questo lavoro al suo posto è impossibile. Anche quando rileva un bisogno legato alla sussistenza (mangiare, avere cura di sé, ecc..), assumerlo come scambio di denaro rimane bizzarro, non è più naturale del fatto che ci si deve limitare ad un bisogno solamente, che poi diverrà una professione, una specialità, qualcosa che si farà tutti i giorni per tutta la settimana, continuando a comprare tutto il resto, vale a dire quasi tutto. Progressivamente, il dispiegarsi dell'economia, vale a dire la crescita economica, ha portato ad una vita quotidiana impossibile senza il denaro, rendendo difficile la critica del lavoro. In fondo, il lavoro non è altro che un ricatto per la sussistenza. Non è il lavoro a dover essere centrale, bensì la sussistenza. Ma il lavoro non garantisce questa sussistenza, bensì rende solo possibile, e perpetua, questo ricatto. Perciò bisogna lavorare, non per assicurare a noi stessi tale sussistenza, ma per scambiarla col denaro, secondo un principio di equivalenza laddove le ore passate a produrre delle patate sono comparabili con le ore passate a produrre qualsiasi altra cosa, non importa chi la compra e dove la compri. Diventa quindi chiaro che lasciando crescere l'economia, si è tutti legati ad un sistema iniquo, in cui i valori come la libertà vengono proclamati orizzonti irraggiungibili, impossibili da vivere. Se, ad esempio, si parla di decrescita, lo si fa nel senso di un'alternativa all'economia, per cui è chiaro che i suoi principi di base sono quelli della povertà: rendendo scambiabile ciò che è indispensabile per vivere e per riprodurre la vita, si parte da delle pessime basi politiche. Non si può propugnare la libertà e allo stesso tempo basare la vita sociale sul ricatto della sussistenza. La società del dopoguerra, quella dei nostri genitori, ha creduto che si potesse disinnescare tale ricatto attraverso l'idea di un'abbondanza creata proprio dall'economia... come se a partire da una certa soglia di sviluppo, il lavoro permettesse un accesso incondizionato ed universale alla sussistenza. Quest'idea è ancora presente a tutt'oggi, nel progetti di dare del denaro a tutti, anche senza lavorare (reddito garantito). Quindi, malgrado tutto, l'economia deve crescere, fino a che essa non abbia più bisogno di noi per produrre le condizioni della nostra sussistenza. In realtà, l'eliminazione dell'uomo nella produzione di queste condizioni di sussistenza non cambia molto per quel che riguarda la sua dipendenza dall'economia. Il ricatto può scattare in qualsiasi momento, ed è tanto più imprevedibile quando non sappiamo come tutto questo funzioni. Ed è proprio questo che sta succedendo con l'attuale crisi economica: abbiamo effettivamente perso il controllo della megamacchina che produce la nostra sussistenza, ed abbiamo scoperto con stupore che essa funziona davvero comunque, devastando le risorse materiali indispensabili e continuando a farlo senza fermarsi. Questa crisi ecologica, contrariamente a quanto si sente dire spesso, non è dovuta ad una volontà di dominio che ha superato il limite, ma è piuttosto dovuta al fatto che questo dominio del mondo avviene senza di noi, reso possibile dal fatto che si attiva per mezzo del lavoro, ciecamente, in cambio di denaro, di una promozione, ecc., ma mai per riprendere in mano la nostra sussistenza.
Che si scambino le nostre condizioni di sussistenza con il denaro, o che si deleghi massicciamente la produzione di tali condizioni, i risultato rispetto alla nostra libertà è il medesimo. I guasti ambientali mostrano che il mondo si trasforma senza di noi, che la vita continua senza di noi, in quanto abbiamo una concezione infantile dell'abbondanza, dove non ci si preoccupa affatto di essere autonomi, rifornendoci di qualcosa che vada oltre il nostro nutrimento. Ragion per cui, alcune cose essenziali non hanno bisogno di essere cambiate, pena la perdita della libertà, in quanto ci confrontiamo con una moltitudine crescente di avvenimenti cui non prendiamo parte e su cui non abbiamo alcun controllo. La crisi ecologica significa innanzi tutto la scoperta dell'estraneità e dell'umiliazione di fronte ad un mondo che reputiamo minacciato da noi, ma che in realtà scambiamo per delle immagini che rappresentano persone che controllano il mondo, e che chiamiamo in maniera assai generica con il nome di «tecnici».
Queste immagini non sono scomparse in quanto l'idea di un dominio dei danni ambientali da parte dei tecnici continua ad essere molto forte, anche se l'esperienza ordinaria dei tecnici differisce radicalmente dall'immagine che viene venduta. La libertà del tecnico non esiste al di fuori di un quadro sempre più ristretto, ma malgrado tutto rimane tenace l'idea che sia possibile coordinare strettamente milioni di specialisti, tendendo viva l'idea di libertà... Ancora una volta, l'economia gioca il suo ruolo liberticida, moltiplicando le possibilità di coordinare delle attività sulla base di uno scambio fra le condizioni di sussistenza e quelle attività pericolose, i cui «autori» non comprenderebbero più quali sono le conseguenze.
In quanto un'altra caratteristica del lavoro consiste nell'impossibilità di assumere le sue finalità, sia che esse siano difficili da comprendere o che siano chiaramente dannose, oppure diluite nel gigantismo delle organizzazioni, come avviene nel caso degli infermieri degli ospedali che sorvegliano a distanza per mezzo di videocamere il travaglio delle donne in sala parto.
Il fatto di scambiare la partecipazione a qualcosa con la sussistenza, fa sì che questo qualcosa in genere non ha importanza, vale a dire si tratta di qualcosa per cui si trovi qualcuno da assumere, anche in alto luogo. È così che le giustificazioni delle imprese più complesse, per quanto poco si metta in discussione la loro pertinenza, sono generalmente inesistenti, rimanendo nell'ambito della grossolanità come il progresso, la crescita o altre sciocchezze che non ingannano nessuno.
Più precisamente, la persona che, anziché assumere l'assenza di senso di ciò che fa, invoca queste generalità, svolge anche un ruolo nella sua organizzazione, per dover recitare il suo testo con un minimo di convinzione...
- Deun - pubblicato il 2 maggio 2008 - su SORTIR DE L'ECONOMIE Bulletin critique de la machine-travail planétaire -
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