«Credo di non essere la persona più adatta a scrivere un libro sulla spe¬ranza: per me, il proverbiale bicchiere non solo è mezzo vuoto, ma con buona certezza contiene un liquido disgustoso e potenzialmente letale. La filosofia di alcuni è ‘mangia, bevi, sii contento, perché do¬mani si muore’, quella di altri, a me senza dubbio più congeniali, è ‘domani si muore’». Eppure, sostiene il grande critico inglese Terry Eagleton, può davvero sperare proprio chi non è ottimista. L’autentica speranza non è allegria, non è idealismo: essa nasce da un coraggioso confronto con le difficoltà della vita, con le tragedie della storia. Solo questo confronto può portare la salvezza. E la riflessione cristiana – cui è dedicata una parte importante di questo libro – è fra i capisaldi di questo pensiero. Anche Shakespeare lo è; e Benjamin, e naturalmente Marx. Erudito e colloquiale al contempo, Terry Eagleton offre in questo saggio un esempio fulgido di come si possa coniugare profondità filosofica, vastità d’interessi e capacità di coinvolgere il lettore in un corpo a corpo, duro e fecondo, con sé stesso e con le proprie più radicate convinzioni. Un libro di sterminata intelligenza, capace di informare e commuovere, di piantare il seme di una speranza – sofferta ma vibrante – nelle macerie della modernità.
(dal risvolto di copertina di: Terry Eagleton: Speranza (senza ottimismo). Una guida filosofica, Ponte alle Grazie)
Decalogo filosofico per aspiranti disperati
- di Maurizio Ferraris -
Al consolatorio «Poteva andar peggio» raramente si ha il coraggio di ribattere «no», ma si sospetta che proprio quella sarebbe stata la risposta giusta. Si ha un po’ questa impressione leggendo il cautissimo elogio della speranza proposto da Terry Eagleton. Eagleton è un illustre teorico post- marxista della letteratura e della cultura, e deve fare i conti con una grande caduta di speranza, probabilmente la più gran de del secolo scorso. Il suo Speranza ( senza ottimismo) (Ponte alle Grazie) è il frutto della elaborazione del lutto, e più che una guida alla speranza è una sorta di Education sentimentale, una autobiografia sulla perdita delle illusioni. Questo, insieme alla vasta erudizione e al gusto letterario è il suo pregio, il che non toglie che Eagleton parta da un presupposto fondamentalmente erroneo, e cioè che basti un libro — soprattutto se ragionevole — per ritrovare la speranza.
Quando è ovvio che la speranza, come il coraggio per don Abbondio, se uno non ce l’ha non è che se la possa dare, giacché si tratta di una tendenza vitale che non ha niente a che fare con il pensiero. Ciò che il pensiero può darci, semmai, è la consapevolezza che la causa delle nostre disperazioni siamo il più delle volte noi stessi, con le nostre speranze infondate e ambizioni sbagliate. Per illustrare questo assunto ben radicato, del resto, nel senso comune («chi vive sperando, muore disperato») propongo un decalogo costruito sulla scia delle Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick.
1. Coltivate speranze eccessive. È matematico: Cartesio diceva che la sola cosa infinita nell’uomo è la volontà, di cui le speranze smisurate sono, per così dire, la versione in panciolle. Speranze come quella di trovare un posto al ristorante o che il treno arrivi in orario rischiano di essere esaudite. Bisogna sperare altrimenti: se scrivete un libro, contate sul fatto che diventerà un best seller, se comprate un biglietto alla lotteria, chiedetevi come spendere i soldi del primo premio.
2. Coltivate speranze indeterminate, quelle «speranze che non hanno nome» cantate da Nietzsche che difatti è finito malissimo. Una speranza determinata può realizzarsi, se realistica, oppure manifestare la propria totale irrealizzabilità. Una speranza indeterminata, invece, può sopravvivere a qualunque contestazione empirica, e rimanere sempre lì, attiva e frustrante. Mi raccomando: non commettete l’errore di trasformare questa indeterminatezza in una consolazione («non sono diventato ammiraglio, ma era proprio questo quello che volevo?»), e abbiate cura di tenere sempre desta la convinzione che qualcosa lo avrete combinato nella vita, ma non era quello che speravate.
3. Siate ottimisti. E non del solito ottimismo minimale, l’ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione. Convincetevi di vivere nel migliore dei mondi possibili. Come sostiene Schopenhauer, la più grande testimonianza dell’ottimismo è il suicidio, mentre non si è mai visto un pessimista suicida.
4. Siate messianici. Ogni giorno sia per voi niente più che attesa di un qualche evento salvifico, della venuta di qualcuno o di qualcosa capace di redimere il mondo. Prima o poi vi stancherete di aspettare e tra stancarsi di aspettare e incominciare a disperarsi non c’è che un passo (un grande messianico come Benjamin divenne talmente impaziente che si suicidò temendo che l’indomani non gli permettessero di entrare in Spagna salvandosi dai nazisti). Qualora poi continuaste ad aspettare (succede di rado, ma succede) non preoccupatevi, siete un caso disperato, e dunque avete oggettivamente raggiunto il vostro obiettivo.
5. Puntate tutto su una sola carta, possibilmente sbagliata, come quando Rousseau si mise in testa di comporre un’opera musicale senza sapere niente di musica. Le possibilità che le vostre aspirazioni si realizzino come le avete immaginate sono pari a zero, dunque avrete la certezza della delusione, utile preambolo alla disperazione.
6. Credete nell’umano, anzi, sviluppate una religione dell’umanità come quella che provocò abissi depressivi e crisi mistiche al suo inventore, Auguste Comte. Soprattutto, non commettete l’errore fatale di considerare l’umanità come una massa di imbecilli. Il vostro convincimento riceverà infinite conferme, rafforzando la vostra autostima e accendendo una scintilla di speranza.
7. Convincetevi che l’esistenza è piena di senso e che la storia è il racconto di magnifiche sorti e progressive. Basterà una domenica pomeriggio per convincervi del contrario.
8. Credete fermamente nel fatto che il tempo è galantuomo e che tutti, ma proprio tutti, i nodi vengono al pettine. Dopo un momento di conforto kantiano, vi renderete conto di essere i potenziali imputati del tribunale di cui avete auspicato la costruzione, e cadrete nello sconforto.
9. Sforzatevi di capire ogni cosa. Una diffusa e antica credenza suggerisce che l’intelligenza e il sapere rendono felici. È l’ottimismo infondato di Socrate che (a conferma di quanto detto al punto 3) è morto suicida, sebbene con la fattiva cooperazione dei governanti ateniesi. Chiaramente non è così: il mondo è pieno di imbecilli felici, potenti e ammirati, e di geni misconosciuti, disprezzati, e tristissimi. È dunque dalla parte del genio che va cercata la disperazione, mentre i poveri di spirito non hanno bisogno di aspettare il regno dei cieli per coltivare robuste speranze che (in deroga al punto 1) nel loro caso possono realizzarsi. 10. Leggete questo libro di Eagleton. Vedrete trattate come forme di speranza abbastanza ben dissimulata quelle che un osservatore meno parziale considererebbe disperazione bella e buona, per esempio la catastrofica fine di Adrian Leverkühn, il compositore del Doctor Faustus di Thomas Mann, che muore pazzo e indemoniato. Il lettore meno preparato potrebbe concluderne che ci sono pur sempre buoni motivi per sperare, anche nella sciagura; ma il vero professionista della disperazione ne concluderà che vale la reciproca, e che anche quando vi pare di essere speranzosi siete disperati a vostra insaputa.
- Maurizio Ferraris - Pubblicato su Repubblica del 16 febbraio 2017 -
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