sabato 22 aprile 2017

Una cosa insolita

noia

Nel 1961, Kurt Vonnegut pubblicò quello che è ancora oggi uno dei migliori racconti distopici di sempre. "Harrison Bergeron" tratteggia in poche, dense pagine una società paralizzata (in un’America “senza tempo”), in cui viene tecnicamente impedito a tutti di pensare: la gente guarda orribili e inutili programmi in tv, e per quelli un pochino più intelligenti l’Handicapper General – che tutto vigila e controlla attraverso i suoi agenti – ha predisposto un dispositivo radiofonico nelle orecchie, che a intervalli regolari trasmette allarmi, campane, esplosioni che impediscono a persone come George, il padre di Harrison, di “trarre un indebito vantaggio dal proprio cervello”. Il presupposto è che la cultura sia intrinsecamente pericolosa, dal momento che esaspera le contraddizioni invece di comporle, e impedisce il conseguimento di un’agghiacciante “uguaglianza”, basata sullo spegnimento delle funzioni intellettuali e critiche,  sulla stupidità programmata.

Harrison Bergeron
- di Kurt Vonnegut -

Correva l'anno 2081 e, finalmente, tutti erano uguali. Non erano uguali solo di fronte a Dio e alla legge. Erano uguali in ogni singolo aspetto. Nessuno era più furbo di nessun altro. Nessuno era più bello di nessun altro. Nessuno era più forte o più veloce di nessun altro. Tutta questa uguaglianza era dovuta agli emendamenti 211, 212 e 213 della Costituzione e alla incessante vigilanza degli agenti del Generale Livellatore degli Stati Uniti.

Però, alcuni aspetti del vivere non erano ancora a posto. Aprile, per esempio, continuava a far impazzire la gente per il suo clima non primaverile.
 
E fu in quel mese umido che gli uomini del G-L si presero Harrison, il figlio quattordicenne di George e Hazel Bergeron.

Fu una cosa tragica, certo, ma George e Hazel non furono in grado di rifletterci eccessivamente. Hazel era dotata di un'intelligenza assolutamente nella media, il che implicava che non fosse in grado di pensare a nulla, se non per frangenti brevissimi. E George, per quanto la sua intelligenza fosse al di sopra della media, aveva una radiolina mentale disabilitante in un orecchio. Era tenuto per legge a portarla costantemente. Era sintonizzata sulla lunghezza di una trasmittente governativa. Più o meno ogni venti secondi, la trasmittente inviava un suono secco per evitare che persone come George facessero un uso indebito del proprio cervello.

George e Hazel stavano guardando la televisione. Sulle guance di Hazel c'erano delle lacrime, ma, in quel momento, non si ricordava più quale ne fosse la causa.

Sullo schermo del televisore apparivano delle ballerine.

Un segnale acustico risuonò nella testa di George. I suoi pensieri si dileguarono, in preda al panico, come banditi messi in fuga da un antifurto.

«Davvero bello il balletto che hanno appena fatto» disse Hazel.

«Eh?» disse George.

«Quel balletto è stato carino» disse Hazel.

«Già» disse George. Tentò di riflettere un po' su quelle ballerine. Non che fossero particolarmente brave, comunque non più brave di quanto sarebbe potuto essere chiunque altro. Erano appesantite da piombi e da sacchetti di pallini da caccia e avevano i volti mascherati di modo che nessuno, vedendo movenze libere e aggraziate oppure un bel viso, si sentisse sciatto. George stava flirtando con la vaga idea che, forse, delle ballerine non dovessero essere menomate. Ma quella riflessione non fece molta strada prima che un altro suono nel suo orecchio disperdesse i suoi pensieri.

George trasalì. E trasalirono pure due delle otto ballerine.

Hazel lo vide trasalire. Siccome lei non aveva handicap mentali, dovette chiedere a George che tipo di suono fosse stato l'ultimo che aveva sentito.

«Come se qualcuno avesse colpito una bottiglia di latte con un martello da muratore» disse George.

«Immagino che debba essere molto interessante poter udire tutti quei suoni diversi» disse Hazel, un po' invidiosa. «Tutte le cose che escogitano».

«Un paradosso» disse George.

«Se io fossi il Generale Livellatore, sai cosa farei?» disse Hazel. In effetti, Hazel assomigliava tanto al Generale Periziatore, una certa Diana Moon Glampers. «Se io fossi Diana Moon Glampers» disse Hazel «farei suonare le campane di domenica. Semplici campane. Sostanzialmente in onore della religione».

«Se fossero solo campane, riuscirei a pensare» disse George.

«Be', magari le farei suonare a volume davvero alto» disse Hazel. «Credo che sarei davvero un bravo Generale Livellatore».

«Brava come tutti» disse George.

«Chi più di me sa che cos'è normale?» disse Hazel.

«Esatto» disse George. Iniziò a fare sprazzi di riflessioni sul suo figlio anormale, Harrison, che in quel momento era in carcere, ma una salva di ventun cannoni nella sua testa li interruppe.

«Cribbio» disse Hazel. «Una cosa insolita, vero?».

Talmente insolita che George era sbiancato e tremava tutto e aveva le lacrime ai margini dei suoi occhi rossi. Due delle otto ballerine erano crollate sul pavimento dello studio e si stringevano le tempie.

«Hai un'aria improvvisamente stanchissima» disse Hazel. «Perché non ti stendi sul divano, per posare sui cuscini il sacco delle menomazioni, tesoro?». Si riferiva ai ventuno chili di pallini da caccia contenuti in un sacco di tela, stretto intorno al collo di George senza che lui potesse sfilarselo. «Va' a posare il sacco per un po'» gli disse. «Non mi importa se per un po' non sei uguale a me».

George soppesò il sacco con le mani. «Non mi dà fastidio» disse. «Ormai, non me ne accorgo nemmeno più. Fa parte di me».

«Da qualche tempo sei stanchissimo, un po' esaurito» disse Hazel. «Se esistesse un modo per aprire un buco nel fondo del sacco e per tirarne fuori qualche pallino di piombo... Qualche pallino, niente di più».

«Due anni di prigione e duemila dollari di multa per ogni pallino che dovessi tirare fuori» disse George. «Non mi pare un grande affare».

«Se solo potessi tirarne fuori qualcuno quando torni a casa dal lavoro» disse Hazel. «Voglio dire, qui non devi competere con nessuno. Qui, devi semplicemente oziare».

«Se cercassi di trovare una via d'uscita» disse George «lo farebbe anche qualcun altro e in breve tempo ci ritroveremmo in un periodo di oscurantismo, con tutti che competono contro tutti. Non ti piacerebbe, vero?».

«Lo odierei» disse Hazel.

«Esatto» disse George. «Secondo te, nel preciso istante in cui la gente dovesse mettersi a frodare la legge, cosa succederebbe alla società?».

Se Hazel non fosse riuscita a tirar fuori una risposta a quella domanda, George non gliene avrebbe potuto fornire una. Una sirena stava scattando nella sua testa.

«Immagino che si sgretolerebbe» disse Hazel.

«Che cosa si sgretolerebbe?» disse George, con uno sguardo vacuo.

«La società» disse Hazel, senza troppa convinzione. «Non è quello che hai appena detto?».

«Chi lo sa?» disse George.

La trasmissione venne interrotta bruscamente da un'edizione straordinaria del telegiornale. All'inizio, non era chiaro quale fosse l'argomento dell'edizione straordinaria, dato che l'annunciatore, come tutti gli annunciatori, soffriva di una grave balbuzie. Per circa mezzo minuto e in uno stato di profondo nervosismo, l'annunciatore cercò di dire, «Signore e Signori».

Alla fine, rinunciò e consegnò il bollettino a una ballerina perché fosse lei a leggerlo.

«Ci ha provato» disse Hazel a proposito dell'annunciatore. «L'importante è quello. Ha fatto del suo meglio, con il corredo che Dio gli ha dato. Dovrebbero assegnargli un bell'aumento di stipendio per lo sforzo che ha fatto».

«Signore e Signori» disse la ballerina, leggendo il bollettino. Doveva essere stata una bellezza straordinaria, considerato quant'era raccapricciante la maschera che indossava. Ed era facile capire che era la più forte e la più aggraziata tra tutte le danzatrici, perché i suoi sacchi delle menomazioni erano grossi come quelli indossati da uomini di novanta chili.

E dovette scusarsi subito per la sua voce, una voce che una donna non avrebbe dovuto usare. La sua voce era una melodia calda, chiara, senza tempo. «Scusate» disse, ricominciando e facendo in modo che la sua voce fosse assolutamente non competitiva.

«Harrison Bergeron, quattordici anni» disse, con una specie di squittio, «è appena evaso dal carcere, dove si trovava, sospettato di aver tramato per rovesciare il governo. È un genio e un atleta, è sotto-menomato e va ritenuto estremamente pericoloso».

Una foto segnaletica di Harrison Bergeron apparve sullo schermo, capovolta, poi sghemba, poi nuovamente capovolta e poi nel verso giusto. La foto mostrava Harrison nella sua altezza completa, indicata da un fondale su cui appariva una scala di misurazione in metri e centimetri. Era alto esattamente due metri e tredici.

Per il resto, Harrison si presentava come una specie di pupazzo di ferro. Nessuno aveva mai portato menomazioni più pesanti. Aveva imparato a ignorare gli impacci più rapidamente di quanto gli uomini del G-P riuscissero a concepirli. Al posto della radiolina impiantata in un orecchio, come menomazione mentale indossava un paio di pazzesche cuffie e occhiali dalle lenti spesse e torbide. Gli occhiali erano concepiti non solo per renderlo mezzo cieco, ma pure per procurargli roboanti emicranie.

Addosso a lui erano appesi rottami vari di metallo. Di norma, c'era una certa simmetria, un ordine militare nelle pastoie assegnate alle persone forti, ma Harrison sembrava un deposito rottami ambulante. Nella corsa della vita, Harrison si portava appresso centotrentacinque chili.

E, per offuscare il suo bell'aspetto, gli uomini del G-P lo costringevano a indossare costantemente una palla di gomma rossa sul naso, a tenere i sopraccigli rasati e a coprire i denti bianchi e ben fatti con capsule nere che lo facessero sembrare sdentato.

«Ripeto, se doveste vedere questo ragazzo, non cercate di ragionarci» disse la ballerina.

Si udì il forte cigolio di una porta strappata dai cardini.

Grida e urla di costernazione uscirono dal televisore. La foto di Harrison Bergeron sussultò più volte sullo schermo, come se stesse ballando al ritmo di un terremoto.

George Bergeron identificò esattamente la natura di quel terremoto e non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che la sua casa aveva ballato spesso sul tempo di quella stessa melodia fragorosa. «Mio Dio» disse George. «Deve trattarsi di Harrison!».

Una presa di coscienza che deflagrò dalla sua mente nel preciso istante in cui udì nella sua testa il rumore di uno scontro automobilistico.

Quando George riuscì a riaprire gli occhi, la foto di Harrison non c'era più. A riempire lo schermo era Harrison in carne e ossa.

Harrison, sferragliante, clownesco e gigantesco, si ergeva al centro dello studio. Stringeva ancora in mano il pomello sradicato della porta dello studio. Ballerine, tecnici, musicisti e annunciatori si erano rannicchiati sui ginocchi davanti a lui, convinti di essere sul punto di morire.

«Sono l'Imperatore!» urlò Harrison. «Avete sentito? Sono l'Imperatore! Tutti devono fare immediatamente come dico io!». Sbatté un piede in terra e lo studio tremò tutto.

«Malgrado le mie menomazioni, le pastoie che mi porto appresso, i malanni che mi affliggono» tuonò «sono un sovrano più potente di qualsiasi uomo mai venuto al mondo! E ora guardatemi mentre mi trasformo in ciò in cui posso trasformarmi!».

Harrison si strappò le cinghie dell'imbracatura delle sue pastoie, come se fossero di cellulosa, strappò cinghie concepite per sopportare un peso di duemilatrecento chili.

I rottami di ferro che rappresentavano le pastoie di Harrison caddero fragorosamente sul pavimento.

Harrison infilò i pollici sotto il lucchetto che assicurava l'imbracatura intorno alla sua testa. Il lucchetto si spezzò come un gambo di sedano. Harrison distrusse le sue cuffie e i suoi occhiali, scagliandoli contro il muro.

Gettò via la palla di gomma che gli faceva da naso e mise in luce un uomo di cui Thor, il dio del tuono, avrebbe avuto una certa soggezione.

«Ora sceglierò la mia Imperatrice!» disse, posando lo sguardo sulle persone rannicchiate. «Che la prima donna che osa alzarsi in piedi si scelga il compagno e il trono!».

Trascorse un momento e poi una ballerina si alzò in piedi, ondeggiando come un salice.

Harrison le staccò la menomazione mentale dall'orecchio, le strappò di dosso le menomazioni fisiche con estrema delicatezza. Per finire, le sfilò la maschera.

La ragazza era di una bellezza abbacinante.

«Illustriamo alla gente il significato della parola ballo?» disse Harrison, prendendola per mano. «Musica!» ordinò.

I musicisti si affrettarono, con qualche impaccio, a raggiungere le proprie sedie e Harrison strappò via anche le loro pastoie. «Suonate al meglio delle vostre capacità e io vi farò baroni, duchi e conti».

La musica iniziò. Dapprima, fu normale: banale, sciocca, finta. Ma Harrison fece scattare i musicisti sulle sedie, li fece ondeggiare a bacchetta mentre cantava la musica nel modo in cui voleva che loro la suonassero. E li riportò bruscamente sulle loro sedie.

La musica riprese, decisamente migliore di prima.

Harrison e la sua Imperatrice per un po' si limitarono ad ascoltare la musica, ad ascoltare con aria solenne, come se stessero sincronizzando i battiti del loro cuore con il ritmo di quella musica.

Spostarono il proprio peso sulle punte delle dita dei piedi.

Harrison posò le sue grosse mani sul vitino della ragazza, facendole avvertire l'assenza di gravità che presto sarebbe stata sua.

E poi, con un'esplosione di gioia e grazia, i due spiccarono un balzo nell'aria!

Non solo vennero abbandonate le leggi della terra, ma pure la legge di gravità e le leggi motorie.

Fecero piroette, mulinelli, avvitamenti, scatti, balzi, capriole e volteggi.

Saltellarono come cervi sulla luna.

Il soffitto dello studio raggiungeva un'altezza di nove metri, ma, ogni volta che quei due ballerini spiccavano un salto, vi si avvicinavano sempre più.

Baciare il soffitto divenne il loro obbiettivo chiaro. E lo baciarono.

E poi, neutralizzando la forza di gravità con l'amore e la mera forza di volontà, rimasero sospesi nell'aria a pochi centimetri dal soffitto e si scambiarono un bacio lungo, molto lungo.

Fu allora che Diana Moon Clampers, il Generale Livellatore, mise piede nello studio, armata di una doppietta di grosso calibro. Fece fuoco due volte e l'Imperatore e l'Imperatrice morirono ancor prima di cadere sul pavimento.

Diana Moon Clampers ricaricò il fucile. Lo puntò contro i musicisti e comunicò loro che avevano dieci secondi per indossare nuovamente le rispettive pastoie.

Fu in quel momento che il tubo catodico del televisore dei Bergeron esplose.

Hazel si voltò per dire qualcosa a George a proposito di quel blackout. Ma George era uscito dalla stanza per andare in cucina a prendersi una lattina di birra.

George tornò nella stanza con la birra e si fermò, quando un segnale di menomazione lo scosse. E poi tornò a sedersi. «Hai pianto» disse a Hazel.

«Già» gli disse lei.

«Per cosa?» le disse.

«Non mi ricordo» disse la donna. «Qualcosa di vero detto in televisione».

«Che cosa?» le disse.

«È tutto confuso nella mia mente» disse Hazel.

«Scordati delle cose tristi» disse George.

«Lo faccio sempre» disse Hazel.

«Ora sì che ti riconosco» disse George. Trasalì. Nella sua testa, udì il rumore di una sparachiodi.

«Cribbio... Ho capito che era una cosa insolita» disse Hazel.

«Puoi ripeterlo».

«Cribbio» disse Hazel. «Ho capito che era una cosa insolita».

***

- Kurt Vonnegut -

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