Il ciclope Polifemo e Yuri Gagarin
di Raffaele K. Salinari
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana – l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena – poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena – nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere – bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente. A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti – il terribile peccato della hybris – dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso – l’archetipo della vita indistruttibile – alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene. Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento – cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine – rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile. Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato. Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlano, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
Raffaele K. Salinari
Pubblicato sul Manifesto del 10 settembre 2016
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