CHARLES S. MAIER: Once Within Borders. Territories of Power, Wealth, and Belonging since 1500
HARVARD UNIVERSITY PRESS Pagine 416, e 27
Attenti alla deglobalizzazione
- di Marcello Flores -
Il 2016 potrebbe essere ricordato non solo per essere stato l’anno più caldo nella storia, ma anche per aver posto fine a un’epoca e aperto una nuova fase politica, perché il populismo, visto finora come una presenza ingombrante o una minaccia, sta diventando una vera e propria cultura di governo e di identità per chi vota e manda al potere i suoi campioni.
Gli storici hanno sempre operato, tra le prime cose della loro riflessione, una proposta di periodizzazione, e naturalmente l’hanno anche fatto per l’epoca a noi più vicina. Per molto tempo — e in parte ancora adesso — ha prevalso nelle università e nelle scuole la periodizzazione suggerita dallo storico inglese Eric Hobsbawm nel 1994, già evidente nel titolo del suo famoso e fortunato volume: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), in inglese The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991.
Per Hobsbawm il «secolo breve» faceva seguito al «lungo Ottocento» che era iniziato in realtà a fine Settecento con la Rivoluzione francese e si era protratto fino alla Prima guerra mondiale: il secolo della borghesia, dell’industrializzazione, degli Stati-nazione. Con la Grande guerra si era interrotto il cammino impetuoso del «progresso» ed era iniziata una nuova era, che lo storico inglese vedeva riassunta nella lotta e nella competizione tra capitalismo e comunismo, tanto che aveva posto nell’anno del crollo dell’Urss la fine del secolo breve.
Se nel momento in cui cadeva il comunismo sovietico l’ipotesi di Hobsbawm pareva anche un omaggio un po’ nostalgico al suo impegno nella sinistra, la sua ipotesi storiografica sembrava basarsi più su una narrazione «morale», come venne detto, che non su un’analisi delle strutture e delle dinamiche presenti in quell’epoca. La forte ideologizzazione di un secolo «breve» caratterizzato da guerre e genocidi (le catastrofi o gli extremes del titolo) sembrò perdere di fascino quando la globalizzazione si mostrò in tutta la sua potenza nell’ultimo decennio del secolo, rendendo esplicite le avvisaglie dei vent’anni precedenti.
È anche su una critica a Hobsbawm e alla sua visione che si fonda l’ipotesi di periodizzazione che ci ha dato uno dei grandi storici americani della contemporaneità, Charles S. Maier, secondo cui a partire dalla metà dell’Ottocento prendeva inizio un «secolo lungo», che sarebbe terminato tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. I caratteri originali di tale epoca, da lui definita «età industriale», erano un ordine fordista «fondato sull’acciaio e la chimica e sul movimento fisico di persone e merci» e una «organizzazione territoriale dell’umanità» centrata sullo Stato-nazione. A venire privilegiata, in questa ipotesi, era la storia dei mutamenti economici, sociali e istituzionali avvenuti su vasta scala e possibilmente a livello globale, con una caratteristica di lungo periodo che le vicende politiche non potevano avere.
Prima di queste ipotesi, maturate tutte alla fine del XX secolo, era stata proposta nel 1964, da parte dello storico britannico Geoffrey Barraclough, una periodizzazione diversa, fondata su periodi più brevi e fortemente influenzati dai fatti recenti. La storia contemporanea, per lui, nasceva addirittura a metà del XX secolo, con la fine della colonizzazione, il bipolarismo Usa-Urss e la minaccia termonucleare. Precedentemente si era avuto l’ultimo atto della «storia moderna», segnato dalla seconda industrializzazione e dall’imperialismo, e capace di assorbire insieme le due grandi guerre mondiali.
Una interpretazione ristretta da un punto di vista cronologico, ma assai importante nel dibattito storiografico, fu quella di Arno J. Mayer, che rese famosa l’immagine di una «guerra dei Trent’anni del Novecento», suggerendo di guardare al periodo 1914-1945 come a una crisi seguita alla rapida modernizzazione dell’Ottocento. Il rigido ordine politico, che non era stato in grado di accompagnare — modernizzandosi anch’esso — la crescita economica, si era dimostrato incapace di rispondere alle dinamiche sociali dirompenti che lo sviluppo aveva creato. Per Mayer, che aveva dedicato diversi studi alla Prima guerra mondiale e alla pace di Parigi, quel conflitto andava visto in gran parte come una sorta di attacco controrivoluzionario preventivo lanciato dalle élite europee per distrarre con una politica estera pericolosa l’attenzione delle masse turbolente, alla vigilia di una guerra civile in molti Paesi del continente. Nel XXI secolo altre interpretazioni hanno dato respiro a vecchie periodizzazioni, rendendole più adeguate a comprendere il nuovo grande interrogativo: la globalizzazione, le sue tappe, la sua origine. Christopher A. Bayly, per esempio, ha ricalcato il lungo Ottocento di Hobsbawm, per individuarne però le «multiple modernità» che avevano luogo parallelamente nei diversi continenti e delle cui interdipendenze cercava di dare conto.
Sullo stesso arco cronologico ha lavorato Jürgen Osterhammel, che ha ripercorso la grande «trasformazione del mondo» che avviene tra il 1780 e il 1914, trovando nel ventennio 1860-1880 il momento di svolta tra le due fasi interne al medesimo periodo. Un altro autore che ha contribuito in modo notevole al rinnovamento del dibattito e al confronto tra diverse periodizzazioni, il cui scopo, come aveva osservato Krzysztof Pomian, era quello di rendere pensabili «i fatti», è stato Kenneth Pomeranz che, in La grande divergenza (il Mulino, 2004), spiegava le ragioni del rapido e crescente distacco che si era aperto nell’Ottocento tra l’Europa e l’Asia, dopo un lunghissimo cammino che le aveva viste percorrere uno sviluppo analogo e non troppo distante.
Proprio nell’esame del percorso che ha portato, negli ultimi anni, a una repentina chiusura della forbice euroasiatica iniziata due secoli fa si situa la più recente e articolata interpretazione italiana. Secondo Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, una svolta fondamentale fu segnata nella seconda metà del Settecento dall’industrializzazione e dalle rivoluzioni americana e francese, che aprirono la strada al «lungo Ottocento» in cui si sviluppò la prima globalizzazione contemporanea. Le due guerre mondiali segnarono una «deglobalizzazione» (ma globalizzazione di ideologie assolute), mentre dal 1945 si aprì una nuova fase di globalizzazione, destinata a non interrompersi fino ad oggi. All’interno di questa fase gli autori collocano una svolta nel decennio intorno al 1970, segnata dal ruolo centrale dei Paesi «in via di sviluppo», che ha aperto la strada a una sorta di «grande convergenza» dopo la «grande divergenza» fra l’Occidente e il resto del mondo aperta dalla rivoluzione industriale.
Ora però la riduzione di volume degli scambi internazionali e l’ascesa di forze protezioniste e populiste anche nei Paesi più avanzati fanno pensare che si possa avviare una nuova fase di deglobalizzazione, dagli sviluppi imprevedibili. Forse gli eventi del 2016 hanno segnato davvero un’importante discontinuità.
- Marcello Flores - Pubblicato sul Il Corriere/La lettura del 20 novembre 2016 -
Intervista: Parla il docente di Harvard che ha contraddetto Eric Hobsbawm
Maier: il ’900 non è stato breve semmai lungo -
Per decenni Charles Maier è stato l’unico docente di Harvard a mantenere vivo l’interesse per la storia italiana. Nato a New York nel 1939, ha al suo attivo una produzione scientifica vastissima, tradotta in varie lingue: il suo ultimo libro "Once Within Borders" («Un tempo dentro i confini») conclude un lungo lavoro di ricerca dedicato al tema della dimensione spaziale nei processi storici.
Anni or sono mi raccontò del suo primo viaggio in Italia, avvenuto nel 1960: fu quella l’occasione che fece scattare l’interesse per la nostra storia?
«Sì, certo. Mi ero da poco laureato e assieme alla mia fidanzata (Pauline Rubbelke, scomparsa nell’agosto del 2013, storica, docente al Mit, che Maier sposò nel giugno del 1961, ndr), decidemmo di organizzare il viaggio. Da lì iniziò la mia passione per la cultura e l’arte italiane, passione che in seguito divenne anche un interesse professionale. Nella primavera del 1965 ebbi la mia prima lunga esperienza di lavoro in Italia, quando mi stabilii a Roma per frequentare l’Archivio centrale
dello Stato. Fu un periodo particolarmente positivo che ricordo con grande piacere. Dopo quell’occasione la mia presenza nel vostro Paese divenne regolare e cominciai a stringere rapporti di amicizia e di collaborazione con studiosi italiani destinati a durare».
Nel 1975 uscì in edizione originale «La rifondazione dell’Europa borghese» (De Donato, 1979), che fu accolto con largo favore dalla storiografia italiana.
«Nel 1980 il libro vinse il Premio Acqui Storia e la cerchia delle mie amicizie italiane si allargò. Poi negli anni Novanta fui coinvolto in altre iniziative: ricordo con piacere la collaborazione con la Società per lo studio della storia contemporanea (Sissco), con la rivista “Parolechiave”, al tempo diretta da Claudio Pavone, e con l’editrice Il Mulino».
A quegli anni risalgono alcuni interventi in cui lei propose una lettura del Novecento diversa da quella avanzata da Eric Hobsbawm con «Il secolo breve».
«L’occasione mi fu data dalla relazione presentata a un convegno organizzato dalla Sissco a Pisa nel maggio del 1996. Ma non era mia intenzione aprire una polemica con lo storico inglese. Io avevo semplicemente posto una serie di problemi di metodo che mi portavano a ipotizzare un’interpretazione del secolo scorso che teneva conto di altre variabili. In poche parole è la scelta dell’oggetto di studio a determinare la durata dell’epoca di cui stiamo parlando. Il breve XX secolo di Hobsbawm coincide con l’ascesa e la caduta del progetto socialista, inclusa la sua variante comunista. Al centro della mia analisi, invece, vi era l’idea di un’epoca più lunga, iniziata alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento e conclusa tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta del Novecento. Quest’epoca era stata caratterizzata dalla centralità del progresso economico e tecnologico e dal culmine dell’organizzazione territoriale dell’umanità, temi che ho approfondito negli ultimi anni, occupandomi di Global History, e che ho sviluppato nel mio libro Leviathan 2.0, sulla reinvenzione dello Stato moderno, e nel mio ultimo saggio».
Indubbiamente si trattava di una lezione di metodo: non l’unica, dal momento che nello stesso articolo lei ribadiva anche l’idea di storia a cui è rimasto sempre fedele.
«In sostanza, spiegavo che compito degli storici è spiegare perché gli avvenimenti accadono e quando accadono. È una regola, a mio avviso, di cui tenere sempre conto».
Nessuna polemica con i cosiddetti cultural studies?
«No, credo che noi storici dobbiamo sempre accettare il confronto con quanto emerge dentro e fuori il nostro campo di studi. Allo stesso modo giudico positivamente il fatto che la nostra disciplina (e in generale tutte quelle umanistiche) imparino a utilizzare sempre di più le possibilità offerte dalla tecnologia».
Nel corso della sua carriera, lei è sempre stato un attento osservatore delle vicende americane ed europee. Come giudica gli attuali rapporti tra Stati Uniti e
Europa?
«Molto semplicemente possiamo dire (nel rispondermi Maier tratteggia con una matita una serie di schizzi su un pezzo di carta, ndr) che l’area degli interessi comuni tra Europa e America si è ridotta di molto negli ultimi decenni. Rimangono alcuni importanti scambi culturali, ma il baricentro degli interessi economici americani si è da tempo spostato verso l’Asia: questo è un processo senza ritorno, frutto di precise scelte geopolitiche»
- Intervista pubblicata su Il Corriere/La lettura del 20 novembre 2016 -
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