«In Unione Sovietica, le “confessioni” dei processi staliniani erano frutto di violenza e di torture o erano tragiche recite di un supremo servizio alla causa. Non così in Cina; o non sempre; non istituzionalmente; non giustificata in sede teorica o morale. Dunque, tanto più straordinario l’oggettivo insinuarsi nella Cina del dopo Mao l’eccezione a questa regola: la vedova del Presidente che contrattacca ed accusa. Il dirigente operaio di Shangai, uno dei Quattro, processato, invece non parla. Questo rifiuto di «stare al gioco» (chi rammenta il silenzio di Saint-Just dopo Termidoro?) è l’atto politico di chi sa che a quel silenzio è affidata una eredità, quando che sia. Una verità, di cui «non si può dare testimonio se non morto», come disse un eretico toscano del ’400 sulla via del rogo.»
da "Risposta a un ragazzo di oggi. Su Mao" (Franco Fortini, 1986)
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