La storia raccontata da Joseph Roth, in "La leggenda del santo bevitore", reca in sé grandi possibilità di essere proprio quello che dice di essere, una leggenda, l'allucinazione di un alcolizzato. Gli elementi magici e fantastici abbondano, così come le visioni religiose, le coincidenze e gli incontri inesplicabili. Tutto quanto all'interno di una struttura narrativa di finzione impeccabile, tipica di Roth, dove i fatti, i dati, le immagini e le svolte narrative stanno sempre al posto giusto.
"In una notte di primavera del 1934, un signore già maturo negli anni scende gli scalini di pietra che, da uno dei ponti della Senna, portano alla riva del fiume. Lì, come quasi tutti sanno - ma che merita di essere rammentato in quest'occasione - sono soliti dormire o, per meglio dire, accamparsi i senzatetto di Parigi".
Il delirio dell'ubriaco si mescola ad una locazione geografica adatta al proliferare dei deliri e delle allucinazioni; il ponte sulla Senna ed i suoi angoli scuri, vere e proprie porte che si aprono sul mistero e sul degrado. E Roth insiste a lungo, nel corso della sua storia, a dimostrare come l'ubriaco sia vicino al narratore, a come l'alcol possa facilitare l'accesso alla narrazione; come se si formasse una sorta di comunità intorno al bere, uno spazio magico di ricezione della narrativa, come i poeti arcaici intorno al fuoco, come Omero, prima della scrittura.
Come ne "La confessione di un assassino", il «romanzo russo» di Roth, del 1936, dove tutta la storia si sprigiona a partire da un incontro al bar, e diventa sempre più complessa ed intricata via via che aumenta la quantità di alcol nelle vene del narratore. Il "santo bevitore" di Roth è una specie di sciamano del periodo fra le due guerre che costruisce la sua propria mitologia in quanto la vive (o in quanto ripassa tutta la sua vita nel breve delirio che precede la sua morte).
George Orwell, in un testo del 1931 (The Spike), assai vicino alle vicissitudini, sia di Roth che del "santo bevitore", parla di questo potente vincolo tra gli individui, il bere e la narrazione. Anche nella sobrietà, l'alcol viene evocato come propizio alla narrazione, gli ubriachi evocano la bevuta e la sua assenza, e nel farlo evocano anche la narrazione che l'accompagna, che ne viene facilitata e, addirittura, creata.
"Bill l'impiccione, quello messo meglio fra noi tutti, un mendicante erculeo che continuava a puzzare di birra anche dopo dodici ore di ospedale, raccontava storie di furti, e di pinte di birra tracannate nelle taverne, e di un prete che aveva fatto la spia con la polizia e gli aveva fatto fare sette giorni di cella. William e Fred, due giovani ex-pescatori di Norfolk, cantavano una canzone triste che parlava di un'infelice di nome Bella che era stata tradita ed era morta nella neve. L'imbecille cianciava a proposito di un damerino immaginario che una volta gli aveva dato duecentocinquantasette sovrane d'oro."
Orwell non è generoso come Roth e colloca quest'immaginario nel bel mezzo del racconto - cosa che invece Roth, da parte sua, lascia in sospeso per tutta la storia del santo bevitore, senza mai chiarirla del tutto.
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