mercoledì 31 ottobre 2012

Syria

syria

Un anarchico fra i jihadisti

Cerco di dire in qualche modo della mia situazione, quando ero all'interno dei "territori liberati" della Siria, i territori controllati dall'esercito libero, le forze armate dell'opposizione siriana. Ma non è ancora tutta la verità. E' vero che non tutti i militanti dell'esercito libero sono devoti jihadisti, sebbene la maggior parte di loro stia pensando, o dicendo, che quel che loro praticano è il "Jihad". La verità è che fra di loro c'è un sacco di gente comune, anche ladri, ecc.; come in ogni lotta armata. La mia prima, e durevole, impressione sulla presente situazione in Syria è che lì non ci sia nessuna rivoluzione popolare, quello che sta succedendo è semplicemente una rivoluzione armata che potrebbe degenerare in un conflitto civile. Il popolo siriano, che ha mostrato un coraggio ed una determinazione senza precedenti nei primi mesi della rivoluzione, per rovesciare il regime di Assad a causa della sua brutalità, adesso è davvero esausto. Diciannove lunghi mesi di repressione feroce e, ultimamente, di fame, di scarsità di qualsiasi tipo di risorse, di continui bombardamenti da parte dell'esercito del regime, hanno indebolito il suo spirito. Cinicamente, il beneficiario di tutto questo non è stato il regime, bensì l'opposizione, soprattutto gli Islamisti. Grazie alle loro relazioni internazionali, in special modo con i ricchi dispotici governi del Golfo, l'opposizione ora può nutrire e sostenere la popolazione affamata in quelle aree controllate dalle sue forze. Senza tale supporto, ci sarebbe una grave situazione umanitaria. Ma questo sostegno non è gratis, né da parte dei governanti del Golfo, né da parte dei leader dell'opposizione. Essi, come qualsiasi altra forza autoritaria, richiedono alle masse sottomissione ed obbedienza. Questo, nei fatti, potrebbe significare la fine reale della rivoluzione siriana in quanto atto popolare coraggioso da parte delle masse siriane. Sì, ho salvato la vita ad alcuni Jihadisti, e voglio raccontare qui qualche dettaglio, Non è stato facile per me stare con i jihadisti, ma per qualche ragione curarli non comportava gli stessi problemi. Era chiaro, fin dal primo momento in cui sono entrato nell'ospedale dove lavoravo, che avrei curato chiunque avesse avuto bisogno del mio aiuto, che fossero civili, combattenti, di qualsiasi gruppo, religione o setta; nessuno avrebbe potuto essere minacciato dentro l'ospedale, anche se era dell'esercito di Assad. Lo voglio ripetere qui, il mio vero problema, e quello degli oppressi in generale, non è con dio, ma con gli esseri umani che si comportano come se fossero dei, talmente malati di autorità che pensano ed agiscono come se fossero degli dei, che sia un dittatore come Assad o che sia un Imam islamico, ecc. Dio non è mai così mortalmente pericoloso come quelli che "parlano" in suo nome. Dicevo, ho salvato la vita ad alcuni jihadisti, ed altri li ho rimandati a combattere; ma la mia vera intenzione era quella di aiutare le masse cui appartengo, in primo luogo in quanto medico, e poi in quanto anarchico. Per dire la verità, non credo che il nostro problema sia con l'Islam in sé. L'Islam può anche essere eguilatario, o perfino anarchico. Nella storia dell'Islam ci sono stati studiosi che propugnavano una società musulmana libera e senza stato, perfino un mondo senza nessun tipo di autorità. Il problema con quello che succede adesso in Syria non sta solo nel difficile e sanguinoso percorso per abbattere una dittatura spietata, percorso che potrebbe anche diventare più difficile e più sanguinoso: sostituendola con un'altra dittatura che potrebbe essere peggiore e più feroce. All'inizio della rivoluzione, un piccolo gruppo di persone, per lo più devoti all'Islam, hanno preteso di rappresentare le masse in rivolta, e si sono auto-proclamati veri rivoluzionari, veri rappresentanti della rivoluzione. Senza essere contrastati, in questo, dalle masse rivoluzionarie e dagli intellettuali. Ci siamo opposti ad una simile affermazione autoritaria, e per di più falsa, ma noi eravamo, e siamo ancora, molto pochi per riuscire a fare una qualche reale differenza. Queste persone affermano che ciò che sta avvenendo sia una guerra religiosa, non una mera rivoluzione delle masse represse contro il loro oppressore. Loro fanno uso, aggressivamente, del fatto che gli oppressori siano di un'altra setta dell'Islam, diversa dalla setta della maggioranza della popolazione sfruttata, una setta che in passato è stata frequentemente giudicata dagli studiosi Sunniti, peggiore dei non-musulmani. Eravamo scioccati dal fatto che la maggioranza di Allawete - la setta del dittatore attuale - che era più povera e più emarginata della maggioranza sunnita, supportasse il regime; e che essi partecipassero alla sua brutale repressione delle masse in rivolta. Questa è diventata una sorta di "prova"dell'attuale "guerra religiosa" in atto fra Sunniti ed Allwete. E queste persone potrebbero affermare di essere i veri Sunniti; essi sono studiosi musulmani e sono talmente settari che nessuno è in grado di sfidarli su questo. Essi hanno costruito la loro autorità morale e spirituale, prima che materiale. Poi è arrivato il sostegno materiale da parte dei governi del Golfo. E ora, il potenziale per una lotta popolare sta diminuendo velocemente; la Syria adesso è governata dalle armi, e solo chi ha le armi ha voce in capitolo sul suo presente e sul suo futuro. E le armi le hanno solo il regime di Assad e l'opposizione islamista. Dovunque, in medio oriente, le speranze si stanno rapidamente dissolvendo. In Tunisia, in Egitto, dovunque. Gli islamisti sembrano trarre vantaggio dalle coraggiose lotte delle masse. E possono facilmente cominciare il processo che stabilisce le loro fanatiche regole, senza che ci sia una forte opposizione da parte delle masse. Mi sento esattamente come si sentiva Emma Goldman nel 1922, quando ruppe con i bolscevichi e perse qualsiasi illusione circa il loro ruolo. Infatti, nessuno, in tutto il mondo arabo e musulmano, sembra più vicino al bolscevismo degli Islamisti, perfino gli stalinisti più devoti mancano di tutti i criteri dei loro antenati, se confrontati agli islamisti. Per molto tempo, sono stati malamente repressi dai dittatori locali, sono stati usati per spaventare le masse e l'Occidente; e per questo possono sembrare la parte più decisiva dell'opposizione a quelle dittature. Allo stesso tempo, hanno realmente la stessa efficiente macchina di propaganda che avevano i bolscevichi una volta. Sono autoritari ed aggressivi, esattamente come lo erano i bolscevichi durante i giorni decisivi della rivoluzione di Ottobre. Quindi sembra razionale che il popolo arabo opti per provarli, o per accettare che vadano al potere. Anche sperare, come fecero gli operai ed i contadini russi, che essi riescano davvero a creare un migliore e differente tipo di società. Ancora, come Emma Goldman, penso di essere nel giusto quando sostengo che le masse avevano il diritto di sollevarsi e provare a cambiare la loro miserabile realtà. Il grande errore, se lo si può definire come un errore, è stato fatto dalle forze autoritarie che hanno cercato di dirottare la rivoluzione. Noi sosteniamo ancora la rivoluzione, non i suoi falsi leader. (...)
Il nostro Stalin, o il nostro Bonaparte, non è ancora al potere, le masse siriane possono ancora avere l'opportunità di ottenere un risultato migliore di quello ottenuto dalla rivoluzione russa. E' certo vero che è difficile, e diventa sempre più difficile ad ogni minuto che passa, ma la stessa rivoluzione è un miracolo. E su questa terra gli oppressi possono fare miracoli, ogni volta. Questa volta noi, anarchici siriani, ci giochiamo tutte le nostre carte e tutti i nostri sforzi, con le masse. Non ci può essere un altro modo. O non ci meritiamo il nostro nome di libertari.

Mazen Kamalmaz - Rapporto dalla Syria, ai miei compagni -

Ricevuto il 31 Ottobre 2012 -

fonte: LE JURA LIBERTAIRE

riviere

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Ricordo che Renato Guttuso, disegnandola e colorandola col pensiero, la chiamava “la fascia mamertina”. Sono le strisce di confine della Sicilia e della Calabria che si guardano e quasi si toccano sullo Stretto di Messina. Ecco, bisogna immaginare come un triangolo: la linea di base unisce idealmente Reggio a Messina e la punta indica l'ingresso dello Stretto, con Scilla da una parte e Punta Faro dall'altra. E infatti, alla sera, proprio dal castello di Scilla la fascia luminosa di un faro incrocia a intervalli la luce siciliana di Punta Faro. Ha un senso storico chiamare "mamertino” questo triangolo perché, anche se pochi lo sanno, queste strisce di costa furono, nel III secolo a.C., occupate da mercenari campani [i mamertini] che erano al servizio di Agatocle, tiranno di Siracusa, e che, dopo la morte di questi, avevano fatto dello Stretto una specie di regno autonomo e incontrastato. Per oltre mezzo secolo i mamertini imposero, bene accolti, leggi, gusti e abitudini. Per scacciarli da lì è dovuta infatti scoppiare, anche per loro iniziativa, la prima guerra punica. Tuttavia, qualcosa ancora resta di questa singolare e indipendente signoria mamertina, tanto che si potrebbe tranquillamente affermare che così come Messina non è totalmente siciliana, neanche Reggio è totalmente calabrese. Sono, appunto, le "Riviere" dello Stretto che, per qualche aspetto e per alcuni usi, sono un mondo a sé. Lo sono, ad esempio, nei cibi e in un certo gusto di cucinarli e conservarli. E poi anche perché il mare che li bagna, e la sua fauna, sono forse diversi dal mare e dai pesci del vicinissimo, greco Mare Jonio e di quel Mare Tirreno che si arresta alle porte dello Stretto.

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Secondo un'antica tradizione locale il pesce dello Stretto di Messina ha infatti un sapore più intenso perché non è mai lasciato a riposo dalle forti correnti. Deve, per così dire, lottare quattro volte al giorno per far fronte ai grandi fiumi di corrente che cambiano direzione, e questo migliora e raffina la sua carne. I marinai chiamano con un nome greco, "rema", la corrente che ogni sei ore cambia nello Stretto rendendo il mare limpido e pieno di cibo e di occasioni di vita e di morte per gli stessi pesci. I fiumi di corrente sono diversi e viaggiano in senso contrario, perciò sulle linee di contatto il mare ribolle, e si formano vortici irresistibili [come ricorda Omero nel XII canto dell'Odissea] che richiamano spesso in superficie grandi pesci, quali l'aguglia imperiale, il pesce-luna, talvolta perfino testuggini. Per non parlare del pescespada, che viaggia sotto il pelo dell'acqua ed è oggetto di caccia grossa. Dunque, se queste sono le premesse, la cucina primaria e prelibata dei "mamertini" non può che essere il pesce. Cominciamo dal pescespada [lo "xiphias" che i marinai della Magna Grecia cacciavano tremila anni or sono] e che è il piatto forte di due stagioni [la primavera e l'estate]. Si può cucinare saltato in padella, imbevuto di "salmoriglio" [salsa calda di olio, prezzemolo, acqua e aglio], in grossi blocchi al forno, in involtini, al ragù con cui poi inondare piatti di spaghetti. Quando l'estate sta per finire lo "xiphias" lascia il posto alle costardelle, — un ottimo pesce azzurro [è un pescespada in miniatura] da mangiare fritto con rotelle di cipolla rossa cruda di Tropea. Seguono poi pesci come le spigole e i merluzzi che altrove pare abbiano perso sapore e che qui [penso, ad esempio, a quelli pescati davanti al porto di Reggio] hanno il gusto del tempo perduto. E ancora, snelle cernie, lupi e grandi scorfani, triglie di scogli. Infine, in inverno, una nuova ondata di pesce azzurro, i palamiti e i mutuli, che vanno conservati, a tocchi, sott'olio. Ma c'è un altro pesce azzurro che non è giusto dimenticare; era pesce dei poveri e non sempre si trova nelle trattorie. E' la spatola, una vera e propria spada d'argento che prolifica, come il raro, prelibato piccolo pesce rosso "surice", in alcune secche al largo del versante calabrese. Nelle case la spatola si cucina, tagliata in pezzi aperti come piccoli libri, in tortiera oppure, passata nell'uovo e infarinata, in croccanti cotolette. Vi sono spatole che superano anche il metro e mezzo di lunghezza, ma la carne è fine e delicatissima.

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Ebbene, di questa antica cucina del pesce dello Stretto è ospite, da circa due secoli, una materia prima del profondo Nord dell'Europa che i moderni mamertini, e solo loro, hanno saputo trasformare in un cibo arabo. E' lo "stock-fish", il pescestocco o stoccafisso, grazie al quale la Norvegia ha dato una mano, già ai tempi di Ferdinando IV di Borbone, all'alimentazione degli abitanti del Regno delle Due Sicilie e da allora è rimasto un piatto per tutte le stagioni.  A Messina, a Reggio e nei loro dintorni, il pescestocco è un oggetto di alta cucina. Sono grandi merluzzi seccati al vento dell'Artico ed esportati, legati a mazzi, in sacchi; in somma, un pesce-bastone che "rinviene" nell'acqua corrente e, dopo qual che giorno di bagno, è pronto per la cottura. Deve avere sedotto anche Garibaldi se è vero che quando, dopo la spedizione dei Mille lasciò il regno che aveva conquistato e partì per l'esilio di Caprera, si portò appresso un rotolo di pescestocco [e probabilmente anche le ricette messinesi e calabresi] e un sacco di fagioli.
Poiché in questo articolo mi occupo solo del versante calabrese dei cibi dello Stretto accennerò a Messina e dintorni solo per dire che lo stoccafisso è stato ed è l'elemento di raccordo delle due culture. Infatti, se Messina ha trovato la formula giusta ["alla ghiotta"] per cucinare lo "stock-fish" [in casseruola con le olive nere e capperi], la Calabria ha scoperto l'acqua giusta per bagnare il prezioso bastone.

Lucio Villari, da "Gambero Rosso", Anno I n.9, Ottobre 1992

grazie a http://salvatoreloleggio.blogspot.com/

martedì 30 ottobre 2012

Tracce di rossetto ... su un cd

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Non sono solo i film ad avere le colonne sonore. Anche i libri ce l'hanno, quella che viene definita "audio companion". Spesso ce la facciamo da soli, altre volte ce la propone l'autore, in coda o in cima al libro, suggerendo una serie di canzoni. Questa invece è - come dire - "ufficiale". Un vero e proprio cd, con tanto di note di copertina, ad accompagnare il libro di Greil Marcus del 1989, "Lipstick Traces: A Secret History of the 20th Century", di cui esistono anche due edizioni italiane. 500 pagine, in cui viene raccontata una "storia alternativa" del XX secolo, attraverso avanguardie musicali e non, che prova a intessere trame fra situazionismo, punk ed altro. Sul disco, 27 tracce. Ventisette canzoni, ma anche "cose" che canzoni non sono, dal 1928 al 1992.

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Si legge, sulle note di copertina:
"Succede. Ti senti estraneo. Sei altro. Non c'è niente nella tua cultura, nella tua esperienza, che si avvicini a come ti senti. Vorresti essere altrove. E se non puoi andare altrove, allora vorresti vedere distrutta ogni cosa. Questi pensieri ti scoppiano in testa. Non riesci a dormire, digrigni i denti. La testa ti fa male. Non riesci a star fermo.
Allora entri in una stanza. vedi, oppure senti, quattro persone che stanno facendo rumore, qualcosa che ha a che fare con i limiti dell'elettricità e lo spazio della stanza: come girando un interruttore, e la tua vita cambia per sempre. Dal niente, il terreno è stato ripulito e le possibilità sono davanti a te.
Può succedere solo una volta. Può accadere prima e dopo, come precognizione, come scosse di assestamento, tentativi coscienti di riuscire a catturare di nuovo quel riconoscimento: quando trovi il piffero che suona il brano giusto.
Questa raccolta esiste per ragioni diverse: per divertimento, per essere suonata leggendo un libro con parole e immagini, per riscrivere il Punk nei termini di una storia femminile ancora celata. Soprattutto, risolve un problema di percezione, quello di riprendersi il primo ascolto di "Anarchy in the UK" dei Sex Pistols.
Quasi 17 anni dopo dalla sua prima uscita, "Anarchy in the UK" suona stanco. Generalmente non è riconosciuto come un classico del rock, la sua familiarità, suonato da generazioni di gruppi Punk e Rap, ha fatto sì che la canzone abbia perso la sua immediata efficacia. Come fare ad ascoltarla in un modo nuovo?
Tutto ciò che viene dato per scontato, come il modo in cui Dio avrebbe progettato, come il modo in cui gli esseri umani pensano che debba essere, va immediatamente rifiutato, perde la sua realtà, perde la sua attrazione. E si intravvedono due cose: che il mondo che ci hanno educato ad accettare è un inganno ed una finzione, e che un altro mondo è possibile.
Una sensazione, allo stesso tempo, galvanizzante e terrificante. Alla fine di questo viaggio di sessanta minuti, avrete un'immagine composita che vi riporterà al punk originale. Cominciamo, con un risolino.

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1. The Slits "A Boring Life"
A 1977 demo, recorded by Ari Up (vocals), Tessa Pollitt (bass), Viv Albertine (guitar), and Palmolive (drums). One of the few documents of that 1977 sound. (Originally released on 'Once Upon a Time in a Living Room', Y/Rough Trade, 1980, UK).

2. The Orioles "It's Too Soon To Know"
A No. 1 R&B hit in the USA in 1948, and also a more spectral hit among whites, the sort the chart couldn't fully register: 'a meeting of cultures' in a segregated society. Composed by a white Jewish songwriter named Deborah Chessler, performed by a black Baltimore group at first called the Vibra-Naires: Sonny Til (lead), George Nelson (second lead), Alexander Sharp (tenor), Johnny Reed (bass), and Tommy Gaither (guitar). (Originally released on It's-a-Natural, 1948, US).

3. Trio Exvoco "L'amiral cherche une maison à louer" (Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck)
Composed 1916, performed in the same year at the Cabaret Voltaire in Zürich, recreated here by Trio Exvoco (Hanna Aurbacher, Theophil Maier, and Ewald Liska). Written, sung, and chanted in German (Huelsenbeck), French (Tzara), and English (Janco): 'proto rock 'n' roll'. (Recorded 1980; from 'Dada For Now', Ark, 1985, UK).

4. Jonathan Richman "Road Runner"
Accept no substitutes. (Originally released on Beserkley, 1975, US).

5. Guy Debord - Excerpt from soundtrack to 'Hurlements en faveur de Sade'
A film first shown in Paris in 1952 at the Ciné-Club Avant-Garde. See Debord, 'Society of the Spectacle and Other Films' (London: Rebel Press, 1992), for a translation of the screenplay ("Howlings in favour of Sade").

6. The Roxy, London - Ambience
From the two nights at the end of April 1977, recorded by Mike Thorne for the album 'The Roxy London WC2 (Jan-Apr 77)' (EMI, 1977, UK) - an accurate reflection of English Punk's early gamut, with X-Ray Spex, Wire, Buzzcocks, Slaughter & The Dogs, Eater, Johnny Moped, and the Unwanted).

7. Jean-Louis Brau "Instrumentation Verbale (Face 2)"
A 1963 recording in the style of 1950 ultra-lettrist Paris sound poetry. (Originally released on Achèle, 1965, France).

8. Buzzcocks "Boredom"
Recorded by the late Martin Hannett in Manchester, 12/76. Mostly put down in one take by Howard Devoto (vocals), Pete Shelley (guitar), Steve Diggle (bass), and John Maher (drums). (Originally released on New Hormones, 1/77, UK).

9. The Adverts "One Chord Wonders"
Second version, recorded by T. V. Smith (vocals), Howard Pickup (guitar), Gaye Advert (bass), and Laurie Driver (drums) for 'Crossing the Red Sea with the Adverts'. (Originally released on Bright Records, 1978, UK).

10. Raoul Hausmann "phonème bbbb"
Berlin dada sound poetry, composed 1918, performed 1956/57. (From 'Poèmes phonetiques complètes', S Press Tapes, 1978, W. Germany).

11. Gang of Four "At Home He's a Tourist"
Recorded as the band's second single by Jon King (vocals, melodica), Andy Gill (guitar, vocals), Dave Allen (bass), and Hugo Burnham (drums). (Originally released on EMI, 1979, UK, and on 'Entertainment!', EMI, 1979, UK / Warner Bros., 1980, US).

12. The Adverts "Gary Gilmore's Eyes"
Personnel as on "One Chord Wonders." (Originally released on Anchor, 1977, UK).

13. Kleenex "Ü (angry side)"
Recorded in London by by Regula Sing (vocals), Marlene Marder (guitar), Klaudia Schiff (bass), Lislot Ha (drums) from Switzerland. (Originally released on Rough Trade, 1979, UK). [liner notes erroneously states this to be recorded in Switzerland]

14. Guy Debord - Excerpt from the soundtrack to 'Critique de la séparation' (Dansk-Fransk Experimentalfilmskompagni, 1961)
Music: Bodin de Boismortier, 'Allegro movement, Op. 37 - Concerto in E Minor in five parts'. Narration: (Debord): "The sectors of a city are, at a certain level, legible. But the meaning they have had for us, personally, is incommunicable. like the clandestinity of private life. of which we possess nothing but pitiful documents." See Debord, 'Society of the Spectacle and Other Films', as above, for a translation of the screenplay ("Critique of Separation").

15. The Clash - Stage talk, Roundhouse, London, September 23, 1976
Joe Strummer recorded while supporting Crazy Avan and the Rhythm Rockers. (From the Jon Savage Archive).

16. Mekons "Never Been in a Riot"
Recorded 1977 with Andy Corrigan and Mark White (vocals), Ken and Tong (guitars), Ros Allen (bass), Jon Langford (drums and vocals). (Originally released on Fast Product, 1978, UK).

17. LiLiPUT "Split"
Kleenex after a name change; as above, with Chrigel Freund replacing Regula Sing on vocals, plus Angie Barrack, saxophone. (Originally released on Rough Trade, 1980, UK).

18. Roman Bunka, Holger Czukay, Raymond Federman etc. "röhrenhose-rokoko-neger-rhythmus"
from 'dr. huelsenbecks mentale heilmethode' ("Dr. Huelsenbeck's Psychological Salvation System"). Written and produced by Herbert Kapfer and Regina Moths as a radio play for Bayerischer Rundfunk, Munich, Germany, 1992 - an aural biography/autobiography of Huelsenbeck, but on this track the all-night argument over "Negro poetry,", aesthetic dictatorship, and untrammelled desire that was Berlin dada. (Originally released on Rough Trade Rec., 1992, Germany).

19. Essential Logic "Wake Up"
Recorded by Lora Logic (alto/tenor saxes, vocals), David (tenor sax), Phil Lip (guitar), William Bennett (guitar), Mark Turner (bass), Rich Tea (drums). (Originally released on Virgin, 1979, UK).

20. Kleenex "You (friendly side)"
Details as on "angry side" above.

21. Gil J. Wolman "Megapneumies, 24 Mars 1963 (Face 1)"
In the invention of ultra-lettrist sound poetry, Wolman was Braque to Jean-Louis Brau's Picasso, or vice versa. (Originally released on Achèle, 1965, France).

22. The Raincoats "In Love"
Recorded by Ana da Silva (vocals, guitar), Vicki Aspinall (vocals, violin), Gina Birch (vocals, bass), and Palmolive (drums). (Originally released on Rough Trade, 1979, UK).

23. Guy Debord - Excerpt from soundtrack to 'Hurlements en faveur de Sade'
Details as above.

24. Marie Osmond "Karawane"
Dada sound poem composed and first performed by Hugo Ball in Zürich in 1916, performed by Osmond on the syndicated US television program "Ripley's Believe It Or Not", c. 1984. As host of a special show on sound poetry, Osmond was asked by the producer to recite only the first line of Ball's work; incensed at being thought too dumb for art, she memorized the lot and delivered it whole in a rare 'glimpse of freedom'.

25. Bascam Lamar Lunsford "I Wish I was a Mole in the Ground"
A traditional Appalachian ballad: 'one little mole is enough to bring a whole mountain down.' (Originally released on Brunswick, 1928, US - taken from 'The Anthology of American Folk Music', compiled by Harry Smith and released by Folkway Records, 1952).

26. Mekons "The Building"
Performed by Mark White (vocals, foot). (Originally released on 'it falleth like the gentle rain from heaven - The Mekons Story, 1977-1982', CNT, 1982, UK).

27. Benny Spellman "Lipstick Traces (On a Cigarette)"
Composed by Allen Toussaint. (Originally released on Minit, 1962, US)."

Il disco, comprensivo di musica e immagini, lo trovate qui:
Lipstick Traces A Secret History Of The 20th Century
ma non prendetevela con me, è solo un documento!

fonte: http://zerogsounds.blogspot.it

lunedì 29 ottobre 2012

casadicane

casadicane

Una lettera abbastanza inconsueta, quella che Frank Lloyd Wright (che sarebbe stato riconosciuto, dopo la morte, come il più grande architetto americano di tutti i tempi) ricevette, nel giugno del 1956 da Jim Berger. Jim aveva 12 anni e, in qualche modo, scriveva per conto del suo cane, Eddie.

Giugno 19, 1956

Caro Mr. Wright
Sono un ragazzo di dodici anni. Mi chiamo Jim Berger. Lei ha disegnato una casa per mio padre, il cui nome è Bob Berger. Ho un lavoro di consegna giornali con il quale ho fatto un po' di soldi da mettere in banca, e per le spese.
Mi piacerebbe che lei disegnasse una casa per il mio cane, dovrebbe essere facile da costruire, ma dovrebbe accordarsi con la nostra casa. Il nome del mio cane è Edward, ma tutti lo chiamiamo Eddie. Ha quattro anni, ovvero l'equivalente dei nostri 28 anni. E' un labrador. E' alto due piedi e mezzo e lungo tre piedi. Il motivo per cui vorrei questa casa per il mio cane è principalmente per l'inverno. Mio padre ha detto che se lei disegna la casa per il cane, mi aiuterà a costruirla. Ma se lei disegna la casa del cane io pagherò per il progetto e per il materiale con i soldi che ho guadagnato col mio lavoro.

Rispettosamente vostro,
Jim Berger

Caro Jim:

Una casa per Eddie è un'opportunità. La disegnerò, ma non adesso. Sono troppo occupato per potermi concentrare su di essa. Scrivimi il prossimo Novembre a Phoenix, Arizona, ed io avrò qualcosa per allora.

Sinceramente tuo,
Frank Lloyd Wright


Giugno 28, 1956

Caro Mr. Wright

Le ho scritto il 19 Giugno 1956, a proposito il progetto per una casa per il mio cane Eddie che si accordi con la casa disegnata per mio padre. Lei mi ha detto di scriverle di nuovo in Novembre così eccomi qui a chiederglielo di nuovo, potrebbe disegnarmi una casa per il cane.

Rispettosamente suo
Jim Berger

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L'anno dopo, il progetto era pronto e la casa venne costruita. Eddie odiava la sua nuova casa. Venne demolita nel 1973.

fonte: www.lettersofnote.com

domenica 28 ottobre 2012

ritardi postali

EVA GABRIELSSON

Il 9 novembre del 2004, Stieg Larsson moriva a causa di un attacco di cuore. Aveva 50 anni. Un mese dopo, Eva, la sua compagna di sempre, trovò una lettera su cui c'era scritto "da aprire solo dopo la mia morte". Era stata scritta nel 1977, quando Larsson aveva 22 anni e si preparava per fare un viaggio in Africa.

Stoccolma,
9 febbraio, 1977

Eva, amore mio,

E' finita. In un modo o nell'altro, ogni cosa arriva ad una fine. Questo è forse uno delle più affascinanti verità che conosciamo circa tutto l'universo. Le stelle muoiono, le galassie muoiono, i pianeti muoiono. E anche la gente muore. Non sono mai stato un credente, ma il giorno in cui mi dedicherò all'astronomia, penso che metterò via tutto quello che mi sarà rimasto della paura della morte, ho realizzato che in confronto all'universo, un essere umano, un singolo essere umano, io ... è infinitamente piccolo. Bene, non sto scrivendo questa lettera per lasciare una profonda visione religiosa o filosofica. La sto scrivendo per dirti "addio". Poco fa stavo parlando con te al telefono. Riesco a sentire ancora il suono della tua voce. Ti immagino, davanti ai miei occhi ... un'immagine meravigliosa, un ricordo bellissimo che terrò con me fino alla fine. In questo preciso momento, mentre leggi questa lettera, sai che sono morto.

Ci sono cose che voglio tu sappia. Nel momento in cui sto per partire per l'Africa, mi rendo conto di ciò che mi aspetta. Ho anche la sensazione che questo viaggio potrebbe preludere alla mia morte, ma è qualcosa che devo esperire, a dispetto di ogni cosa. Non sono nato per stare seduto in una poltrona. Non sono quello. Mi correggo: non ero così ... non sto per andare in Africa in qualità di giornalista, ma nell'ambito di una missione politica, ed è per questo che penso che questo viaggio potrebbe portarmi alla morte.

Questa è la prima volta che ti scrivo sapendo esattamente che cosa dire: ti amo, ti amo, amo te, amo te. Voglio che tu lo sappia. Voglio che tu sappia che ti amo più di quanto abbia mai amato qualcuno. Voglio che tu sappia che dico sul serio. Voglio che tu mi ricordi, ma che non mi pianga. Se significo davvero qualcosa per te, ed io so che è così, probabilmente soffrirai quando saprai che sono morto. Ma se realmente significo qualcosa per te, non soffrire, non lo voglio. Non dimenticarmi, ma continua a vivere. Vivi la tua vita. Il dolore si dissolverà col tempo, anche se ora è difficile immaginarlo. Vivi in pace, amore mio caro; vivi, ama, odia, e continua a lottare ...

Ho avuto un bel po' di difetti, lo so, ma anche qualche buona qualità, spero. Ma tu, Eva, mi hai ispirato talmente tanto amore che non sono mai stato in grado di esprimertelo ...

Tirati su, raddrizza le spalle, tieni alta la testa. Okay? Abbi cura di te stessa, Eva. Fatti una tazza di caffè. E' finita. Grazie per i bellissimi momenti che abbiamo avuto. Mi hai reso felice. Adieu.

Ti bacio e ti dico addio, Eva.

Da Stieg, con amore.

fonte: http://www.lettersofnote.com

sabato 27 ottobre 2012

mele e coltelli

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Era un mercoledì di luglio, il 29 luglio del 1981, quando - serenamente, a quanto dicono - si spense Robert Moses. La luna era crescente, quella notte. A dirla tutta, però, Moses era già morto. Era successo nel 1963, quando gli venne rifiutato il progetto di costruire una sopraelevata in grado di collegare Brooklyn e Queens con il New Jersey. Un colpo per il patriarca dell'urbanismo espansivo, il tutore della crescita tumorale di New York, durante la prima metà del XX secolo. Un fondamentalista, visto da alcuni come il diavolo che distrusse la New York di sempre, oppure, da altri, come il miracoloso sacerdote della Grande Mela.
Il necrologio sul New York Times, scritto da Paul Golderberg lo definisce come "la persona più importante per la configurazione fisica della moderna New York", "il creatore della prima città nell'era dell'automobile". Non era nuovo a queste sviolinate, il New York Times. Lo aveva già sostenuto, e difeso, nello scontro che Moses aveva dovuto sostenere con Franklin Delano Roosvelt, e con il sindaco Fiorello La Guardia.
Per inquadrare il personaggio, sarà bene riferirsi ai fatti. Moses realizzò opere pubbliche nell'arco di 44 anni. Costruì parchi, alloggi, tunnel, gallerie, zoo, centri civici, sale di esposizione, piscine. Perfino spiagge! Arrivò ad aprire fino a dodici cantieri per volta. Faceva da imprenditore privato e da gestore pubblico, contemporaneamente. Creò migliaia e migliaia di ettari di zone verdi dove prima, di verde, non c'era niente. Tirò su 13 ponti, 658 campi da gioco e, soprattutto, sviluppò una pressoché infinita rete stradale. Una vera e propria passerella sopraelevata sulla quale la cultura dell'auto si propagò come il fuoco in un campo d'avena.
"Chi può, costruisce, Chi non può, critica." - era il suo slogan.
Disegnò una città del XXI secolo, all'inizio del XX. In cambiò, distrusse gran parte del tessuto tradizionale di New York. Rase al suolo interi quartieri e dichiarò guerra agli spazi vuoti lungo le strade.
Entrato a 17 anni all'Università di Yale, aveva le idee chiare quando ne uscì. Moses era un ebreo tedesco, figlio di Emmanuel Moses e di Bella Silverman, e proveniva dalla 46.esima strada. Non esitò ad acquisire maniere anti-semite, pur di essere assimilato dall'élite cristiana che dominava la New York dello scorso inizio secolo. A New York difficilmente si trovavano spazi pubblici, a parte un Central Park privato. Moses li moltiplicò, come pane e pesci. Al posto dei pani, aree ricreative e, al posto dei pesci, spiagge artificiali, molte spiagge. Tessé una metropoli con fili di strade. Avvicinò le spiagge di Coney Island alla città.
"Stare accanto ad un parco è come stare accanto agli angeli." - predicava, orgoglioso. Prove celesti di socializzazione della città.
Le medaglie hanno due facce: lungo le strade che portavano alle spiagge, i ponti progettati da Moses non permettevano agli autobus di circolarvi. Solo vetture private. Una sorta di setaccio sociale. Una barriera che teneva fuori le classi più infime, quelli che non avevano automobile. Gli affari di Ford si impennarono, ma solo tra quelli che potevano comprare.
Nel frattempo, Moses, che non aveva mai imparato a guidare, girava in comitiva su due limousine. Una per tenere riunioni durante gli spostamenti, l'altra per farci salire gli interlocutori.
I quartieri residenziali ingrassavano a furia di ormoni: lo sviluppo delle strade, il boom demografico ed i mutui a basso interesse. Fu l'inizio. Le ipoteche "zonificavano" efficacemente. Agli abitanti dei distretti di colore del New Jersey, come Paterson e Camden, niente mutui da parte del Consiglio Federale delle Abitazioni. I ghetti negri si affollavano, mentre le aree bianche si ossigenavano.
Politicamente, fu, a quel tempo, il nemico principale dei repubblicani, i quali si opponevano a che migliaia di ettari di terra vergine passassero in mano pubblica, per costruire strade o stronzate come spiagge artificiali e parchi.
A questo punto, dopo anni di battaglia contro Roosvelt e La Guardia, Moses diede un altro giro: si presentò alle elezioni per il Partito Repubblicano, come Governatore dello stato di New York! La sua prima incursione in politica lo portò a scagliarsi contro il suo rivale democratico Herbert H. Lehman (figlio del fondatore della Lheman Brothers). Moses perse le elezioni con il maggior scarto di voti della storia dello stato. Ottocentomila voti.
Sembra che avesse la stessa sensibilità che poteva avere un maiale mummificato. A fronte delle critiche, sempre più crescenti, da parte di chi considerava come i suoi sviluppi urbanistici stessero rovinando i quartieri, replicò: "quando si agisce in una città sovredificata, bisogna aprirsi il cammino con una mannaia".
New York era una selva di simboli, uno di essi era l'ancestrale quartiere del Bronx. Moses aveva previsto che una superstrada gli attraversasse la gola. E così fu! Dalla fine degli anni '50, fino ai '60, scavatrici, putrelle ed esplosioni di dinamitetrasformarono il paesaggio del Bronx. Il quartiere venne letteralmente fatto esplodere per permettere ai newyorkesi di andare a Long Island e nel New Jersey. La superstrada tagliò in due la mela del Bronx, accoltellandolo. La peste urbana pensò al resto.
"Eliminare i ghetti senza sopprimere la gente è come cercare di fare una frittata senza rompere le uova", avrebbe detto.
Non mostrò nessuna compassione neanche per il più grande club sportivo della città, i Brooklin Dodgers. Walter O'Malley, proprietario dei Dodgers, prevedeva la costruzione di un nuovo stadio per la sua squadra di baseball. Chiese del suolo pubblico. Moses rispose di no. "Se ti serve il terreno, perché non te lo compri coi tuoi soldi?". O'Malley minacciò di trasferire i Dodgers a Los Angeles. Moses non uscì nemmeno dalla sua limousine. I Dodgers se ne andarono in California.
Forse fu Moses a fare la battuta che chiedeva "Se un tifoso dei Dodgers ha una pistola con due proiettili e si trova con Hitler, Stalin ed O'Malley, a chi spara?". La risposta era: "ad O'Malley. Due volte."
Alla fine, spogliato del suo potere, venne nominato presidente della Fiera Mondiale di New York; che qui, oggi, sarebbe come essere nominato eurodeputato a Bruxelles!

Oggi, Oliver Stone, a quanto pare, ha il progetto, per l'HBO, di un film su Moses. I produttori sono James Gandolfini (Tony Soprano) e Peter Guber. Sarebbe basato su "The Power Broker", un libro assai critico nei confronti di Moses, scritto nel 1974 dal premio Pulitzer Robert Caro. Potrebbe essere un buon film, anche se, visto che stiamo parlando di Oliver Stone ...

venerdì 26 ottobre 2012

percaso

percaso

Un'epoca oscura, nell'Inghilterra di Shakespeare (non fosse stato per lui!), il sedicesimo secolo. Quasi privo di scoperte e di invenzioni, vuoto e senza sostanza, grezzo. Un periodo buio, insomma, quello in cui il giovane matematico inglese, William Ebony Milf, venne a capo di quella che viene comunemente, ed erroneamente, chiamata "Teoria del caso". Ebony analizzava tutti i componenti di quella che viene chiamata "fortuna", e cercava, in una forma quanto meno encomiabile, di dimostrare che potevano essere manipolati a volontà e, pertanto, permetterci di prendere in mano il timone della barca del caso. Dominare la fortuna! A partire da questo, col tempo e con l'acquisizione di una certa maturità, si concentrò sulle equazioni intrinseche alle probabilità, come quelle di estrarre un N quantità di palline rosse e nere, annotando coscienziosamente sul proprio avambraccio la frequenza con cui uscivano palline dello stesso colore.
Alcune dame, appartenenti all'alta borghesia londinese, si mostrarono molto interessate al progetto e si offrirono di coprire i costi della ricerca. Così Ebony avrebbe potuto finalmente imbarcarsi in un viaggio alla ricerca di tutte le forme di caso esistenti nel mondo. Desiderava conoscerle, toccarle con mano, dissezionarle e alla fine sottometterle. Una per una. Da nord a sud, dalla Groenlandia ad Alpedrete. Ma la cosa cominciò subito male. La disfatta, subita in una partita a dadi, nella quale perse perfino il monocolo, lo obbligò a ridurre il suo ambito di studio alla riva sinistra del Tamigi. "Va tutto bene" - ripeteva. Aveva subìto solo una battuta d'arresto, solo un piccolo inciampo che sarebbe servito a rafforzare la base su cui poggiare la sua ricerca. Le formule erano esatte, la precisione del suo impianto inaudita, i suoi capelli lisci rilucevano e le sue ascelle parlavano la lingua di un deodorante a buon mercato. Non poteva fallire!
Dotato di un budget che sarebbe un eufemismo definire "tagliato", si avventurò verso il suo secondo appuntamento con la storia che aveva preso la forma di una partita a domino. Il luogo era il frequentatissimo Pub Malory, ad Upper Ground, precisamente nel seminterrato, dal momento che le severe leggi locali proibivano il gioco, ai mancini, nei giorni della settimana con dentro una "r". Dentro la sua testa ribolliva un torrente di incognite, di elevazioni alla potenza, numeri anti-naturali e, insieme, il ricordo della suggestiva scollatura della cameriera che lo aveva accompagnato. Rimise a posto, dentro la sua testa, le tabelle che spiegavano il caso, ripulì mentalmente tutti i rimasugli e le briciole del dubbio, e ripartì. Una volta che ebbe le carte in mano, concentrato dentro quel locale cupo, si ricordò e maledisse la perdita del suo monocolo. Non ci vedeva. L'ambiente era così malamente illuminato che non vedeva le carte. Tentò di intuirle al tatto, strofinandoci sopra la punta delle dita, alla ricerca di una qualche rugosità in animo di delazione. Niente. Un amalgama di colori e forme sbiadite gli ballavano davanti agli occhi, fra le mani, scalzandolo dagli scalini verso il successo. Di colpo, fu allora che, iperossigenato e in un empito di orgoglio, cominciò ad applicare le sue formule infallibili, fidando nel fatto che l'intuizione gli avrebbe dettato quali carte aveva. Il risultato fu un dramma. A malapena, e fra i singhiozzi, acconsentirono a lasciargli le mutande. Mutande sulle quali aveva fatto serigrafare lo slogan "I am the future".
La gloria non era un compito facile, ma le delusioni non bastarono a fargli rinunciare ad assaggiare il miele del successo. Con una manciata di scellini, ottenuti promettendo il suo impegno - una sorta di sussidio concessogli dagli imprenditori - decise di ridurre ancora la portata titanica della sua ricerca. All'ambito del quartiere. Era arrivato il momento di crescere, di vincere e i ottenere l'eternità.
Dopo aver fallito il colpo ad effetto, era ossessionato dall'ottenere una vittoria che gli facesse da apripista, per cui pensò di trasformarsi nel re, nel dio, di "testa o croce". Perciò, confidando pienamente nelle sue teorie inappellabili, decise di truccare una moneta, in modo da ottenere sempre "testa". Sarebbe stato il suo amuleto ed il suo jolly, la chiave che gli avrebbe aperto tutte le porte del rispetto e dell'ammirazione. Ma, poco esperto di manualità, il risultato non fu proprio quello richiesto da un simile magistrale stratagemma. Per prima cosa, le due teste non erano affatto uguali: una mostrava il profilo decadente di Enrico VIII, mentre l'altra il sottile collo della giovane Isabella II. La cosa provocava un certo sconcerto. Poi, le due monete utilizzate per creare l'ibrido del suo esperimento non avevano lo stesso valore e, quindi, nemmeno lo stesso diametro. Un'aberrazione numismatica!
Non è perfetta - si disse - però non lo sono nemmeno loro! Non la noteranno.
Incoraggiato da tale ragionamento, si lanciò verso la sua epopea al grido di: Scommettete! Testa o Croce!
Camminava tronfio, ansioso, lanciando in aria la moneta che era di piombo da una parte e di rame dall'altra. Tale era l'impeto e la fretta che la sua "opera" gli scivolò di mano, cadendo vicino ad un bambino di un anno seduto sul marciapiede. Il bimbo prese la moneta, con la sua manina, e balbettò le sue prime due parole: "moneta falsa". Inutilmente cercò di scappare. La folla lo circondava. "Le formule funzionano" - gridava disperato. "La fortuna mangia dalla mia mano. Vi farò tutti ricchi!" Fu proprio allora che, per sua fortuna, arrivarono i garanti dell'ordine, e gli evitarono un sicuro linciaggio.
Ebony venne portato in tribunale, dove poté esporre dettagliatamente le sue teorie, cosa che lo aiutò notevolmente a farsi giudicare pazzo, invece che truffatore. I giudici sancirono, in un solenne comunicato, che "Il caso non può essere controllato dal momento che la sua naturalezza risiede, precisamente, nella nostra impossibilità ad esercitare dominio su di esso. Colui che si proclama capace di dominare il caso incorre nella menzogna. Colui che ha fatto di ciò lo scopo della sua vita sfugge ad ogni raziocinio e deve quindi essere considerato socialmente pericoloso ed alienato e, pertanto, dev'essere recluso".

William Ebony Milf finì i suoi giorni nell'ospedale psichiatrico di Bethlem, dove cercò di perfezionare le proprie teorie, e riuscì ad accumulare un debito scandaloso, giocando a poker con gli alri internati.

giovedì 25 ottobre 2012

Guai ai ricchi!

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La sinistra Keynesiana e il suo cocktail di desideri
di Claus Peter Ortlieb

In Germania, stavolta saranno guai per i ricchi. La coalizione "Per una ripartizione equa" ha lanciato un'iniziativa, chiamando, non senza una certa audacia grammaticale, ad una giornata d'azione nazionale:
"C'è una via d'uscita alla crisi economica e finanziaria: redistribuzione!Noi non vogliamo più soffrire per la mancanza di prestazioni sociali e di servizi pubblici, e non vogliamo che la grande maggioranza della popolazione venga penalizzata. E' piuttosto la ricchezza eccessiva, e la speculazione finanziaria, che deve essere tassata. Non si tratta solo di denaro, ma anche di solidarietà concreta in questa nostra società."
In tal modo, la coalizione reclama un'imposta permanente sulle fortune eccessive dei contribuenti eccezionali, alfine di "finanziare in tutta equità la spesa pubblica e sociale indispensabile e ridurre il debito", senza dimenticare la "lotta costante contro l'evasione fiscale ed i paradisi fiscali, ed in favore della tassazione delle transazioni finanziarie, contro la speculazione e contro la povertà, dappertutto nel mondo".
Alcune frazioni dell'SPD e dei Verdi hanno accolto con favore la campagna e la sua concretizzazione, per mezzo dei loro rispettivi programmi, che dovrebbero in line adi principio aumentare il tasso più alto di imposizione fiscale, dal 42% al 49%. Deliberatamente, dimenticano di ricordarsi che, negli anni '90, loro stessi hanno abbassato tale tasso, che allora si attestava sul 53%. Nella misura in cui, entrambi i partiti hanno anche sostenuto l'iscrizione nella Costituzione, della regola del pareggio di bilancio, e la politica di austerità di Angela Merkel, si può dire che non ci sia molto da aspettarsi da un eventuale governo rosso-verde, nel 2013, se non delle misure di ordine simbolico: si alzerà leggermente il tasso massimo di imposta, per sottolineare che siamo "tutti insieme" sulla stessa barca. In definitiva, la prossima riduzione delle pensioni passerà meglio se i pensionati colpiti potranno dire che "quelli che stanno in alto" versano anche loro le loro quote.
I membri di "Per una ripartizione equa", tuttavia, prendono la cosa molto sul serio. Attac, per esempio, esige un prelievo eccezionale e progressivo sul patrimonio dei milionari e dei miliardari, del quale circa il 50% dovrà essere sequestrato e versato nelle casse pubbliche.  Quattromila miliardi di euro potrebbero così devoluti a livello europeo. Per il resto, la ricetta che dovrebbe salvarci dalla crisi attuale sembra riassumersi in un ritorno agli anni '70, a quel sistema di ripartizione del reddito e della ricchezza, ed agli strumenti di politica fiscale corrispondenti. Ridateci il nostro capitalismo renano!
La comprensione delle crisi che sottende queste rivendicazioni potrebbe essere ancora più semplicistica di quella, fondata sul modello neoclassico della "casalinga di Voghera", che la maggior parte dei tedeschi condivide con il proprio cancelliere: dal momento che "tutti insieme", e tutti particolarmente nei "nostri paesi del sud", abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, ed ora è tempo di risparmiare, risparmiare e ancora risparmiare. Che questa politica non porti ad altro che ad una crisi più profonda, è cosa talmente di dominio pubblico, dopo il decreto legge d'urgenza di Brüning, che è inutile starlo a ricordare.
Quanto al modello keynesiano di sinistra rappresentato da Attac e compagnia, esso considera la ineguale ripartizione del reddito e della ricchezza come la causa - e in alcuni casi la conseguenza - dei fenomeni di crisi: il neoliberismo ci avrebbe deviato dalla retta via, quella del "capitalismo buono", e portato alla crisi.
In contrasto con questi modelli semplicistici, c'è la teoria delle crisi formulata da Robert Kurz a partire dal 1986. Come aveva già stabilito Marx, la contraddizione nel processo del capitale fa sì che, da un lato, la sua ricchezza astratta ha per unica sorgente il lavoro, mentre dall'altro lato, nella misura in cui la produttività aumenta, la forza-lavoro umana diventa sempre più svantaggiata ed espulsa dal processo di produzione. Per Marx, tale contraddizione è suscettibile di far saltare la base del capitale. Da certe evidenze, a partire dagli anni '70, con l'utilizzo della microelettronica - i cui potenziali ai fini dell'automazione sono, del resto, assai lontani dall'essere esauriti - il capitalismo sia entrato in questa fase terminale che la teoria marxiana aveva anticipato.
La serie di crisi finanziarie che abbiamo conosciuto in questi ultimi trent'anni e che, con il crack del 2008, ha assunto per la prima volta una dimensione planetaria, ha il suo punto di partenza in quella che è la "stagflazione" degli anni '70, cioè la coincidenza della stagnazione dell'economia mondiale con dei tassi di inflazione elevati, che possono arrivare fino a due cifre. La politica economica keynesiana, il cui dominio, in quest'epoca, non è ancora stato messo in discussione, può certo attenuare i fenomeni di crisi, ma non è più in grado di generare una nuova ondata di accumulazione. La conseguenza è stata che ha ceduto il passo al neoliberismo.
La risposta di questi, a fronte dell'impossibilità di produrre un plus-valore reale in quantità sufficiente, consiste, in breve, nel garantire i profitti con altri mezzi: in primo luogo, l'aumento crescente della disoccupazione permette di esercitare una pressione sui salari; secondo, in virtù di quella che si chiama una politica economica "basata sull'offerta", si diminuiscono le imposte sulle società e sui redditi da capitale; terzo, in mancanza di reali possibilità di investimento, un cospicuo numero di imprese si rivolgono verso il credito, contribuendo così, col loro capitale finanziario, a generare delle bolle che possano dare in questo modo una parvenza di equilibrio ai loro bilanci. La Siemens, per esempio, dagli anni '90 si è vista ironicamente qualificare come una banca, con annesso un dipartimento elettronico.
Da un punto di vista fenomenologico, Attac e gli altri hanno completamente ragione. Da un lato, i salari reali sono effettivamente scesi. D'altra parte, abbiamo visto in trent'anni - e anche questa è una conseguenza della deregolazione del settore finanziario - moltiplicarsi per venti la quantità di attività finanziarie e immobiliari a livello mondiale, senza che si possano collegare tali attività ad un qualche valore reale.
Il problema sta proprio qui: queste attività sono in maggior parte fittizie, sia che provengano da bolle finanziarie, sia che consistano in crediti dubbi. Ogni tentativo, in grande scala, volto a trasmutarle in ricchezza materiale porta alla loro svalutazione immediata.

Sarebbe questo che, all'occorrenza, provocherebbe il progetto di Attac, di reindirizzare la metà di queste risorse verso le casse dello Stato. L'idea che ci sarebbero soldi a bizzeffe, e che si tratterebbe semplicemente di ripartire diversamente, si rivela un progetto decisamente un po' troppo semplicistico, equivalente a quello che dice che basterebbe stampare la quantità necessaria di denaro.

Anche l'appello ad un ritorno, in materia di ripartizione dei redditi e della ricchezza, al "buon capitalismo" degli anni '70, non è meno irrealistico. La rivoluzione neoliberale non è stato un semplice errore ma una risposta intracapitalista alla crisi degli anni '70 ed al fallimento del keynesismo. Con questo stratagemma non si supera la crisi, ci si accontenta semplicemente di rimandarla e, così facendo, di aggravarla. Il ritorno al punto di partenza è impossibile - tanto più che le condizioni di produzione di plus-valore si sono ancora deteriorate a causa del livello di produttività nel frattempo raggiunto.
Ciascuno ha il diritto di esprimere i propri desideri. Però, al di fuori dei compleanni dei bambini, si dovrebbe chiarire sotto quali condizioni essi possono essere realizzati. E per quanto riguarda il vecchio e pio desiderio del "Per una ripartizione equa", una sola cosa è sicura: la sua realizzazione non è più possibile sotto le condizioni del capitalismo.

- Claus Peter Ortlieb -

(Apparso su Konkret, settembre 2012)

fonte: http://palim-psao.over-blog.fr


mercoledì 24 ottobre 2012

due mondi

Emma Barcelona 18-X-1936

Quando Emma Goldman viene esiliata dagli Stati Uniti, la storia ha già fatto il suo giro e sono oramai un ricordo i tempi in cui, in un rapporto di una polizia in odore di "intellettualismo", veniva definita "la donna più pericolosa del mondo". Tempi in cui, donne come lei, o come Mother Jones, giornalisti come John Reed, socialisti come Eugene Debs o de Leon, scrittori come Jack London o Upton Sinclair, sindacati come l'IWWW, questi ed altri si misuravano con una situazione in cui il capitale non si sentiva troppo minacciato, e le classi dirigenti guardavano con non eccessiva ostilità ad una strada fatta di riforme e di effervescenza sociale.
Come dicevo, la storia ha preso una curva, e niente da allora in poi - come sarebbe successo altre volte  - è più lo stesso.
Anche la Rivoluzione Russa ... Lei, insieme a Berkman, e molti altri rivoluzionari andarono. Si viveva ancora in un'atmosfera ottimista, nella consapevolezza della guerra civile contro i bianchi e contro una coalizione di 21 nazioni. Ma la vittoria militare non era riuscita ad impedire il baratro. Poi il panico sociale, a causa dell'emergere del fascismo in quei paesi dove la rivoluzione sembrava essere a metà strada. Ungheria, Italia, Germania, Austria.
Gli anni trenta, poi. L'esilio in Gran Bretagna, dove le giunge la notizia della morte del suo compagno di tutti quegli anni. Alexander Berkman si era suicidato a Parigi, nel clima di tensione e discordia venutosi a creare fra gli anarchici russi. E, alla fine, l'altra notizia, come un fulmine, della guerra e della rivoluzione spagnola. E torna l'entusiasmo. Riesce ad andare in Spagna, ed anche se non può stabilirvisi, come avrebbe voluto, riesce a venire a contatto con quella realtà. La lingua è un ostacolo, ma può essere superato, come il divieto delle autorità inglesi di promuovere la solidarietà verso i combattenti.

Emma_Goldman_libro
Non riesce a capire come gli anarchici possano collaborare con i repubblicani ed i comunisti in quelli che sono chiaramente dei compiti controrivoluzionari. Si trova quasi del tutto sola, in questa sua convinzione, intimamente divisa fra le convinzioni e le simpatie. Anche stavolta, come sempre nella sua vita, non può non denunciare una politica al limite dell'opportunismo. Segue il processo contro il POUM e ne scrive. Forse l'ultima cosa di cui scrive. La sconfitta della sua ultima rivoluzione finisce per accelerare il tempo, e colmare la distanza fra lei e Berkman. Il 14 maggio del 1940, a Toronto, in Canada, un'emorragia cerebrale ferma per sempre "l'anarchica dei due mondi".

martedì 23 ottobre 2012

i dadi di Einstein

original

Una lettera, scritta a mano da Albert Einstein nel 1954, poco prima della sua morte, è stata venduta on-line ad uno sconosciuto, per più di tre milioni di dollari. La cosiddetta "Lettera di Dio", così chiamata perché, in essa, Einstein affronta temi come religione e tribalismo, dichiarando la sua mancanza di fede in un dio biblico. Il documento è particolarmente importante, perché vanifica il mito secondo il quale Einstein fosse religioso e credesse in dio. La sua famosa frase, "Dio non gioca a dadi con l'universo", aveva suggerito ad alcuni un punto di vista religioso. Invece, a quanto pare, si trattava solo di una costruzione che usava il termine come una sorta di metafora colloquiale per cose che si riferivano alle leggi della fisica, e alla totalità del cosmo.
La lettera privata, indirizzata al filosofo ebreo Eric Gutkind, era parecchio netta, nelle sue osservazioni:
"... La parola Dio è per me niente più che l'espressione ed il prodotto delle debolezze umane, la Bibbia è una collezione di onorevoli, ma ancora primitive, leggende che sono non di meno piuttosto infantili. Nessuna interpretazione, per quanto sottile, può riuscire (per me) a cambiare questo ..."

fonte: http://io9.com

guaglioni

elio

C'era un tavolo ovale al ristorante Pontevecchio, che tutti chiamavamo il tavolo Foraboschi: lui si sedeva ed era capace di tenere appese al filo della sua conversazione an­che venti persone. Raccontava storie, una per esempio, bellissima, su Vittorini e Fortini che camminavano a lato di un corteo operaio, fine anni cinquanta, con la polizia schierata che a un certo punto carica, scoppiano gli incidenti, c’è il fuggi fuggi e un poliziotto, in corsa, piomba su Fortini, lo afferra, lo trascina via e Vittorini, alto, grosso, con la voce in falsetto che grida: 'Lo lasci! Lo lasci!' fino a che interviene un commissario in borghese e Vittorini gli grida: 'Lo fermi, questo è il professor Fortini! Io sono Vittorini!'. Sentiti i due cognomi, il commissario fa un salto indietro, ordina l'immediato rilascio di Fortini e si inchina, si scusa, dice: 'Perdonate professor Fortini, davvero, che errore! Ma questi guaglioni l'avevano scambiata per un comunista!'.
Lui, su questa storia, ci rideva sino alle lacrime, ma bisognava sentirla raccontare da lui, con la mimica, le facce…

Da Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Feltrinelli, 2011

lunedì 22 ottobre 2012

E Cechov prese la pistola!

"- Stai pensando che è meglio non darmi una pistola? - Sono pericolose. E illegali. E Checov è uno scrittore di cui ci si può fidare"
- da 1Q84 di Haruki Murakami -

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La scena principale, un salone arredato con diversi oggetti: una sedia talmente appariscente che Luigi XVI avrebbe licenziato il decoratore, una finestra aperta, un chiodo piantato nel muro, un vaso vuoto, il gigantesco dipinto incorniciato raffigurante un opulento matrimonio e un fucile circondato da una collezione di trofei di caccia, sotto forma di numerose teste di animali, con quella espressione di infelicità che assumono le prede quando sono consapevoli della polvere che viene rimossa, la mattina, per il resto della loro esistenza.
Suonano alla porta, e una donna, identica a quella dentro il dipinto che adorna il salone, va rapidamente a ricevere la visita. La porta si apre ed entra in scena un uomo, ci accorgiamo che non è quello del quadro. Reca un mazzo di fiori che lei gradisce e dispone nel vaso. Si baciano, poi si dirigono verso la camera da letto, per conoscersi meglio. Fine del primo atto.
Secondo atto. L'uomo raffigurato nel dipinto discute con la moglie. Intuiamo che sospetti qualcosa ed entrambi si scambiano le proprie opinioni accalorandosi. Fine del secondo atto.
Il terzo atto comincia con una scena notturna. L'uomo che abbiamo visto nel primo atto entra dalla finestra e, subito, si rifugia nell'oscurità per scoprire con stupore che l'uomo del secondo atto lo stava aspettando seduto sulla sedia. Discutono circa il modo appropriato in cui si deve intendere una relazione triangolare.
Quindi, l'uomo sulla sedia spara.

Quello che è appena accaduto è legale e giusto. Non giuridicamente e moralmente, perché nel caso in cui si spari a qualcuno, il fatto in sé di solito viene punito in qualche modo, ed è anche considerato triste ed abbastanza ingiusto dal bersaglio della pallottola. Pero, narrativamente parlando, è legale e giusto.

Anton Cechov, scrittore a tempo perso, e russo a tempo pieno, ad un certo punto della sua vita ha pronunciato una frase che è poi diventata uno dei meccanismi classici della narrativa: "Se nella prima scena del dramma, c'è un fucile appeso alla parete, questo dovrà sparare nell'ultimo atto".
In realtà, di questa frase ci sono diverse varianti che implicano leggeri cambiamenti nell'interpretazione del suo significato (tipo, "se c'è un fucile nel primo atto, nel secondo o nel terzo deve sparire"), ma tutte servono a formalizzare un assunto, che diventa una lezione a proposito dell'importanza della cosiddetta "narrazione premeditata". Mettere i pezzi sulla scacchiera e insinuare gli eventi senza sfruttare la sorpresa. In ogni storia, non devono essere introdotti inutili elementi decorativi, per non distrarre lo spettatore da ciò che è veramente importante. Insomma, una vera e propria lezione di stile: se lo sceneggiatore pianifica un evento, l'importante è farlo con tempismo, introducendo precedentemente l'elemento che darà luogo all'accadimento. Per cui si dà il nome di "pistola di Cechov" a quell'oggetto che quando appare sulla scena può sembrare senza importanza, ma che poi si rivela essere fondamentale ai fini della storia.
L'arma del russo costituisce il modo migliore per evitare possibili buchi in una sceneggiatura (evitando il ricorso al famigerato deus-ex-machina) e, se usata con sufficiente abilità, non solo può servire a insinuare quello che non si è ancora verificato, ma anche invitare lo spettatore ad una revisione della storia alla luce della conoscenza della causa dell'effetto. Una seconda visione che possa scoprire quei dettagli che non erano stati apprezzati al primo sguardo, quando erano stati trascurati perché sembravano non avere rilevanza.
Ovviamente, la pistola di Cechov non ha bisogno di essere specificamente un'arma. Può essere un altro tipo di oggetto, un'idea, una caratteristica particolare, un evento, una persona. Non ha neanche bisogno di essere ... singolare. Una sola storia può contenere un arsenale di pistole di Cechov! E non è nemmeno, altrettanto ovviamente, una tecnica limitata solo ad un genere di arte. Se ne possono trovare esempi, in letteratura come nel cinema, nella radio, nei videogiochi. In qualsiasi forma in cui viene trasmessa un racconto, una storia.

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C'è da dire, prima di finire questa "storia", che si può assistere, d'altra parte, ad un fenomeno curioso: le battute di caccia alla ricerca della pistola di Cechov! Esempio lampante di questo genere di ricerca, è quello attuato nei confronti di "Lost", dove si è cercato di vedere, da parte di alcuni spettatori, in alcuni elementi della serie TV, la silhouette della pistola, piuttosto che quella della "tartaruga magica", della "red herring" o del Mac Guffin"!
Ma ovviamente gli esempi possono essere tanti. Cercateli!

sabato 20 ottobre 2012

e lui non mi capiva …

hegel zizek

Le ultime parole di Hegel, "E lui non mi capiva", erano state finora interpretate in riferimento a tutti i suoi studenti, visti come una sola persona.
Però, adesso, grazie alla scoperta di nuovi taccuini scritti da Hegel, sappiamo che, alla fine dei suoi giorni, il filosofo aveva portato talmente lontano lo sviluppo della dialettica, da essere capace perfino di predire i movimenti futuri della storia, in modo così dettagliato da aver realizzato l'esistenza storicamente inevitabile di uno sloveno iperattivo, che avrebbe spiegato la filosofia dello stesso Hegel per mezzo di metafore sessuali. Tale scoperta lo ha perseguitato fino all'ultimo respiro.

venerdì 19 ottobre 2012

gonzo

gonzo

Politossicomane confesso. Amante delle armi e membro della National Rifle Association, ma esecrava la guerra del Vietnam: propose, su un periodico locale, che nel centro di Aspen, Colorado, venissero bruciati dei cani con gelatina di petrolio, per protestare a favore degli esseri umani che venivano bruciati, quotidianamente, col napalm dall'esercito degli Stati Uniti. Portavoce degli Hells Angels, il libro-reportage del suo anno di scorrerie con la banda di motociclisti lo lanciò verso l'olimpo del giornalismo, ma poi i motociclisti, gelosi del suo successo, lo picchiarono quasi a morte. Kennediano, scosso per l'assassinio di Dallas, e poi nemico ugualmente sia di Lyndon Johnson che di Richard Nixon. Alcolizzato insonne. Puttaniere nei peggiori bordelli del Sudamerica. Trafficante coi narcos e vittima do un gusto personale per gli scontri con la polizia: "Ho respirato così tanto gas antisommossa che sono diventato dipendente e ancora ne provo nostalgia in certe notti tranquille". Padre di famiglia sempre al verde e quasi sempre con un lavoro. Allevatore di doberman. Cacciatori di alci. Candidato a sceriffo con il partito Freak Power, e non riuscì a vincere per 6 voti! Giornalista del "Rolling Stone". Compagno e amico di Norman Mailer, Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Teles, pilastri del New Journalism, del cui sottogenere di maggior successo per la cultura pop - il Gonzo - Hunter S. Thompson fu il padre fondatore riconosciuto da tutti.
"Il giornalismo Gonzo è uno stile di informazione basato sull'idea di William Faulkner che la miglior fiction è molto più veritiera di qualsiasi tipo di giornalismo, cosa che i buoni giornalisti sanno da sempre."
La formula, valida solo per scrittori-giornalisti, propugna l'amplificazione estetica dei fatti per mezzo dei potenti strumenti della letteratura. In altre parole, l'uso e l'abuso della prima persona, l'appropriazione della tecnica del romanzo e la strutturazione di spazi e tempi narrativi, e gli appunti abbozzati offerti brutalmente come additivi della veridicità, nella versione finale. Un mix indistinguibile di oggettività e soggettività. Il protagonismo dell'autore che si risolve nella storia raccontata. L'informazione al servizio dell'effetto, ma sempre innescato da una carica morale.
Scrive Douglas Brinkley, editore delle lettere di apprendistato e maturità di Thompson, "(...) era un misto di Ernest Hemingway, Scott Fitzgerald e H.L. Mencken, una sorta di selvaggio letterario che si ubriacava di velocità ed insolenza, ma controllava la sua prosa allucinata con grazia e precisione (...) Dietro la sua complessa personalità si celava un umorista caustico dotato di un'acuta sensibilità morale. Thompson sapeva che niente resiste all'ariete di una risata".
Ma, per quanto riguarda Thompson, il periodo di fama non risulta istruttivo quanto invece il periodo della ricerca della fama. Quando, a volte, nei suoi primi anni difficili, gli tocca lavorare come vigilante notturno in una sauna frequentata da omosessuali violenti provenienti da San Francisco.

"Sono circondato da pazzi, la gente si mette a urlare ogni volta che premo il grilletto, grida quando mi vede con la camicia inzuppata di sangue, bande di finocchi mi aspettano per liquidarmi, tengo così tanti creditori che ho perso il conto, ho un doberman gigantesco in camera, una pistola sulla scrivania, il tempo passa, perdo i capelli, non ho un centesimo, ho tanta sete che mi berrei tutto l'whisky del mondo, gli abiti marciscono addosso per colpa della nebbia, ho una moto senza fari e una padrona di casa che sta scrivendo un romanzo sulla carta oleata della macelleria, ci sono froci per la strada, casse di birra nell'armadio, sparo ai gatti per alleviare la tensione, il salmodiare dei buddisti sugli alberi, le puttane nel burrone, solo Cristo sa se riuscirò a sopravvivere a tutto questo" - scrive, all'età di 24 anni, alla sua amica Ann.

Sopravvisse, Thompson, il Jim Morrison del giornalismo universale, fino al 2005, quando, a 67 anni, emulando il suo maestro Ernest, si fece saltare le cervella.

giovedì 18 ottobre 2012

ingiustificabile

celine

Il 15 dicembre del 1949, comincia a Parigi il processo contro Louis-Ferdinand Céline, in esilio in Danimarca ed accusato di avere, con i suoi scritti "attentato al morale della nazione in tempi di guerra". Il comitato di redazione del giornale "Libertaire" s'interessa al caso, ed incarica Maurice Lemaitre di svolgere un'inchiesta presso un certo numero di personalità dell'epoca. Il 13 gennaio del 1950, in un articolo dal titolo "Cosa ne pensate del processo Céline?", da cui traspare una certa benevolenza nei confronti dello scrittore, il redattore del "Libertaire" introduce la sua inchiesta:
«Il processo all'autore del "Viaggio al termine della notte" è in corso. Fedeli alla nostra tradizione, e ritenendo che il processo sia assai più significativo di quanto possa sembrare a prima vista, non ci faremo sfuggire l'occasione di mettere davanti alle loro responsabilità, tutti i piccoli cospiratori del silenzio, tutti quelli che "nel suo interesse, sarebbe meglio ...", tutti quelli che non vogliono bagnarsi, in una parola. Noi porremo con franchezza la domanda: Cosa ne pensate del processo contro Louis-Ferdinand Céline ? »
Dopo aver elencato le accuse (lettere apparse sulla stampa collaborazionista, relazioni letterarie con la Germania, prese di posizione contro la Resistenza, fuga sotto la protezione tedesca, antisemitismo virulento), Lemaitre conclude il suo articolo: «Céline deve senza dubbio giustificarsi, e deve anche rispondere di certi "errori", ma deve giustificarsi di fronte a chi? davanti a che cosa? La giustizia oggi, in Francia, è solo dileggio. Ed il processo Céline non può essere altro che, come tutti gli altri processi di tale natura, che un processo di derisione. Perché la colpevolezza dell'autore del "Viaggio" non arriva all'altezza di quella dei ben noti profittatori e torturatori del collaborazionismo, oggi liberi, non raggiunge quella degli scribacchini sdoganati dai politici e dai generali ripuliti. Si sta cercando, senza dubbio, per mezzo del silenzio che lo circonda, di fargli pagare, di fargli espiare i suoi libri di prima della guerra, i suoi successi letterari e polemici di prima della guerra. Per amore di obiettività e d'informazione e per consentire agli scrittori e alle personalità che Céline coinvolge per difendersi dalle accuse, noi apriamo loro questo spazio.» A quanto pare, però, alcune personalità non rispondono alla domanda posta loro dal "Libertaire".
Nello stesso numero, il giornale pubblica tutte le risposte finora ricevute. Si possono leggere le lettere di Jean Paulhan, scrittore ed editore, di Albert Paraz, scrittore e amico di Céline, di Albert Beguin, di Charles Plisnier, comunista vicino al trotskismo, di Paul Rassinier (futuro negazionista, qui presentato come ex-internato in un campo di concentramento, di Marcel Aymé. Trasuda una certa unanimità che celebra il talento letterario dell'accusato, persino il suo genio, per alcuni. Si opina che il processo sia inutile, ridicolo, perfino offensivo. Solo Plisnier e Beguin si soffermano a sottolineare la differenza fra lo scrittore e l'uomo. Fino al punto che il secondo afferma che « dopo il Viaggio, Céline non ha più scritto una riga valida. Tutto il resto è divagazione di un cervello malato oppure ignobile esplosione di bassezze. L'antisemitismo è sempre ripugnante, ma quello di Céline, grondante di bava rabbiosa, è degno di un cane servile. Essere stato scrittore e finire ad abbaiare: questa è la vera tragedia di quell'uomo, per cui la sua condanna non porrà fine e non cambierà niente, ne il contro-latrare dei suoi nemici, nei i lamenti dei suoi apologisti e corrispondenti. »
Nel numero successivo del "Libertaire", in data 20 gennaio 1950, Lemaitre scrive che «la nostra inchiesta ha suscitato reazioni assai diverse. Questo è quello che volevamo. Per molti è stata un'occasione per pronunciarsi una buona volta su una questione che interessa tutti. Chi ci ha risposto ha dimostrato il proprio coraggio. Alcuni non l'hanno fatto. Che lo si ami o meno, Céline non è la questione. E' stata data loro un'occasione per dire cosa pensano di questo processo per stregoneria». In una nota, in fondo all'articolo, viene segnalata la creazione di un "Comitato di Israeliti, amici di Céline". In un riquadro, la lettera che Céline - informato dell'iniziativa del giornale - ha spedito al "Libertaire".
«Caro amico. Questo mi fa del bene nella situazione in cui sto crepando! Mi stanno facendo il culo in mome di Dio! Che cazzo! Dieci anni che mi tormentano. Per tutte le strade del mondo! Che vita! di sotterranei e celle ghiacciate" Ah, "Fuorilegge", caro Libertaire, è brutto! Soprattutto quando si è rugosi - cinque volte nonno, immaginate! Voglio ancora sorpassarmi, credo. - Sono davanti alla folla - animale da arena - la folla, la più grande ipocrita del mondo. Vorrei trascinarmi laffuori, per vedere, se posso ... ma ci sto provando ... di più ... anche per il colpo di grazia ad una bestia sulle sue proprie gambe! Per poterli guardare in faccia ... Amichevolmente vostro L.-F. Céline.»
In questo secondo numero si dà corso ad una seconda infornata di risposte.  Stavolta ci sono lettere di André Breton, di Dubuffet, di Barjavel.
Breton non dice una parola sul processo e non testimonia alcuna simpatia, né per l'uomo né per la sua opera. «La mia ammirazione va agli uomini i cui doni (d'artista, fra le altre cose) sono in rapporto con il carattere. Cioè non ammiro Céline né Claudel, per esempio. Con Céline, il disgusto è arrivato presto; non ho dovuto andare oltre al primo terzo del "Viaggio al termine della notte", dove incappai in nor ricordo più quale lusinghiera presentazione di un sottufficiale della fanteria coloniale. Mi parve di leggervi la linea di un progetto sordido.»
Dopo aver espresso tutto il suo orrore per questa "letteratura ad effetto che velocemente passa dalla calunnia alla sozzura", Breton termina la sua lettera, « Per quanto ne so, Céline non corre alcun rischio in Danimarca. Non vedo dunque motivo alcuno per creare un movimento d'opinione in suo favore.» Gli altri interventi, ancora, si sforzano di mettere in evidenza il valore letterario dell'opera di Céline.
L'inchiesta arriva alla fine nel numero del "Libertaire" del 27 gennaio 1950. Credo sia lecito supporre che non sia stata ugualmente gradita in tutto l'ambiente anarchico! Tanto che questa volta è la "redazione" a voler mettere un cappello sulle ultime risposte alla domanda posta da Lemaitre.
« Per noi, non si è mai trattato di difendere Céline, non più che di attaccarlo. Semplicemente, per mezzo del suo caso, abbiamo voluto protestare contro i processi alle opinioni. Alcuni nostri compagni lavoratori si sono stupiti a vederci lanciare quest'inchiesta nel momento in cui numerosi rivoluzionari cadono in Spagna, dietro la cortina di ferro, e altrove, quando, per un Céline ridotto in miseria, milioni di uomini sono internati dentro campi di concentramento, prigioni, per semplici reati di opinione. Orbene! Céline l'antisemita, ma anche l'indimenticabile scrittore, oggi è vittima di questo procedimento, perché il reato di opinione è cugino del razzismo. Ma noi non ammettiamo che i giudici che condannano i turbolenti, gli obiettori, che chiudono in prigione i minori, condannino un uomo che, almeno lui, ha avuto il coraggio delle sue opinioni.»
I contributi, stavolta, sono quelli di ALbert Camus e di Benjamin Péret.
Come Breton, ma con maggior vigore, Péret non mostra alcuna indulgenza verso lo scrittore in esilio.
Comincia con il sorprendersi per l'improvviso interesse mostrato dal "Libertaire" verso Céline, ricordando che quest'ultimo ha giocato, prima e durante la guerra,un ruolo del tutto nefasto. «Tutta la sua opera costituisce un vero e proprio incitamento alla delazione e, quindi, diventa indifendibile da qualsiasi punto di vista ci si ponga, non c'è nessuna poesia, qualsiasi cosa dicano i suoi apologeti, solo bassezza e lordura. Bisogna insorgere contro questa campagna di "ripulitura" degli elementi fascisti ed antisemiti che si sta sviluppando sotto i nostri occhi».
Benjamin Péret non cerca alcuna circostanza attenuante, desiderando semplicemente che rimanga in Danimarca, dove non rischia niente.
Quanto ad Albert Camus, ecco la sua breve lettera:
«La giustizia politica mi ripugna. E' per questo che sono dell'avviso di fermare questo processo e di lasciare tranquillo Céline. Ma se non vi dispiace, voglio aggiungere che l'antisemitismo, e particolarmente l'antisemitismo degli anni '40, mi ripugna almeno altrettanto.»
Per completare quest'ultima parte dell'inchiesta, vengono riportate sette lettere dei lettori. Benché la redazione precisi che la reazione dei lettori sia stata caratterizzata da una grande diversità di opinioni, ben sei delle sette lettere pubblicate si mostrano, a gradi diversi, favorevoli allo scrittore ed ostili al processo. Solo un lettore, J. Tomsin, si mostra molto critico:
« Non sono un assetato di sangue ... Per Céline, proporrei che venisse consegnato alla sola giustizia conveniente: quella degli ebrei che sono tornati ... dal Termine della Notte...» Dopo la citazione di qualche frase antisemita raccolta da "Bagatelle per un massacro", il lettore conclude:
«No, davvero, non è abbastanza ... Céline è in Danimarca, che ci rimanga ... E la chiudiamo ...»
In ultimo, "Libertaire" pubblica una lunga lettera, firmata con le iniziali e spedita al giornale da cinque militanti del gruppo Sacco e Vanzetti, della Federazione Anarchica, in cui si esprime indignazione per l'importanza data dal giornale a quelli che si chiamano "la difesa di L.-F. Céline". Senza, sicuramente, approvare il processo in corso, questi militanti affermano, contrariamente a quanto scrive Maurice Lemaitre nel suo primo articolo, che non gliene importa un cazzo della sorte di Céline.
«Anche supponendo che Céline abbia "la muta (di cani) al culo", questa muta non sembra paragonabile a quella che si avventa contro i perseguitati sociali di Spagna, Bulgaria, Bolivia, Grecia, Europa Orientale, Indie, Vietnam o, senza andare così lontano, Africa del Nord e Francia, sono questi, questi subalterni, questi rivoluzionari questi sconosciuti senza il pennacchio, che è nella tradizione del Libertaire di difendere e non quelli che mostrano disprezzo per le masse, quelli che sono abbastanza grandi per tirarsi fuori dalle brutte situazioni in cui si mettono».

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In un libro pubblicato nel 1990, "L'arte di Céline e i suoi tempi", Michel Bounan scrive: "La questione non è quella di sapere come un libertario possa mischiarsi con dei nazisti, bensì quella di spiegarsi come mai certi personaggi ritengano di travestirsi da libertari". E la cosa non va riferita solo a Céline. Interessa e coinvolge, altresì, tutti quelli che, qualche anno più tardi dell'inchiesta del Libertaire, parteciperanno all'infame matrimonio fra radicalismo e negazionismo. A leggere la sintesi dell'inchiesta del 1950, si deve ammettere che il modo di trattare il caso Céline si situava di già nella categoria della giustificazione dell'ingiustificabile.
Come aveva scritto dodici anni prima H.E. Kaminski (autore di "Quelli di Barcellona"), in "Céline en chemise brune"
« Per rendere Céline inoffensivo, basta smascherarlo. Ciò che è inammissibile, è che lui venda la sua spazzatura nazista come se fosse letteratura originale.»

 

fonte: http://acontretemps.org

mercoledì 17 ottobre 2012

eredità

eredi

L'inizio della fine del diritto di eredità - quello contro cui si scagliava Bakunin, ritenendolo, a ragione, la prima causa di tutte le disuguaglianze - e tutto grazie a Internet, a quanto pare. E' cominciato con la musica e con i testi scritti, dischi e libri. La domanda che è emersa pone la questione sul perché mai si dovrebbe possedere tutto quello che si utilizza.
E' finita l'epoca in cui si passava la vita a frugare i negozi di vinile, per poi disporre su degli scaffali, e classificare ossessivamente, il frutto della propria ricerca, creando così un patrimonio considerevole, e pesante (chi ha traslocato la propria collezione di LP, sa quanto!).
Oggi è tutto diverso. Il collezionista ossessivo compra con un click dentro negozi virtuali. Opere rare, novità, compilation. Ma, oggi, in questo caso, che fine fa il desiderio di trascendenza? Il desiderio di lasciare il proprio tesoro ad un erede, oppure, perché no, ad una fondazione che porti il suo nome? A questo punto, è bene sapere che se l'acquisto è stato effettuato su un "Apple Store", la collezione morirà con lui. E lo stesso accadrà per la biblioteca faticosamente costituita su Amazon. Insomma, non si è affatto proprietari di un bene, bensì utenti di un servizio.
E' la regola, notificata, per mezzo delle minuscole condizioni legali che vengono accettate da chi compra nel mondo oscuro della rete.
Così, ha fatto scalpore la notizia che l'attore Bruce Willis ha deciso di perseguire legalmente Apple, dopo avere appreso che non avrebbe potuto lasciare a suoi tre figli la collezione musicale per cui ha speso una fortuna.
Apple, da parte sua, per bocca del responsabile della comunicazione, Paco Lara, non dà alcuna spiegazione: "Noi non abbiamo degli specialisti che possano intervenire su queste questioni. Non commentiamo questo tipo di disposizioni. Non abbiamo alcun commento da fare."
Come del resto fa Amazon, che si limita - come risposta - a riportare uno dei paragrafi delle sue condizioni generali di utilizzo. Ma non una parola sui motivi per cui vengono applicate simili condizioni. Nessuno è a conoscenza di cosa accadrebbe alla nostra "biblioteca" nel caso in cui andassero distrutti i server che forniscono il servizio.
La musica e i libri acquistati appartengono all'account dell'utente che li ha scaricati dalla rete, e devono rimanere associati a tale identità. Amazon autorizza il prestito dei titoli acquistati per mezzo di un Kindle, però, nel periodo in cui sono disponibili ad un terzo, spariscono dal terminale del proprietario. Una biblioteca, fra l'altro, cui l'azienda ha un inquietante diritto di accesso! Così, nel giugno del 2009, è successo che, dopo che Amazon per errore aveva venduto due edizioni ("1984" e "La fattoria degli Animali" di George Orwell) pubblicate da un editore che non aveva i diritti per diffonderli in Europa; be', Amazon è entrata nei terminali dei suoi clienti, ha eliminato i libri in questione, ed ha riaccreditato il denaro sul conto. Come se l'editore entrasse a casa vostra, nottetempo, si prendesse un paio di libri da una libreria e vi lasciasse in cambio un assegno!
Ah, dimenticavo, Amazon si è scusata!

martedì 16 ottobre 2012

vicino

heros0

"Era un mattino radioso in quel giorno di tregua, e questa giovane coppia - il ragazzo con la mitragliatrice troppo grande per lui e la ragazza con la ferita sul viso, la fascia della croce rossa e la borsa del pronto soccorso - mezzo bohemien, mezzo proletaria, in abiti logori, mi ha affascinato, mi ha colpito il realismo dell'immagine."

- Russ Melcher -

A volte succede che una foto riesca a catturare quella che può essere chiamata "la verità di un istante". Coglie quel preciso momento in cui per la strada, per le facce, passa quella rabbia, quella felicità quel dubbio che, fermato in un'immagine, poi diventerà per sempre leggenda, quel mito che nessuna menzogna di Stato potrà mai più recuperare completamente.
"Se la foto non è buona" - asseriva Capa - " vuol dire che il fotografo non era abbastanza vicino". Già, vicino. Vuol dire tante cose, vicino. Ad ogni modo, chi ha scattato quest'immagine, durante l'insurrezione ungherese dell'ottobre del 1956, era vicino. La foto, erroneamente attribuita a Jean-Pierre Pedrazzini e pubblicata sul Paris-Match del 10 novembre dello stesso anno sotto il titolo "Gli eroi di Budapest", raccoglie dentro di sé tutto l'intreccio di passioni e di speranze confuse che vivevano quei combattenti, i più determinati ma anche i più fragili. Un giovane, armato di una mitraglietta di fabbricazione sovietica, la PPSH-41, ed una ragazza con un berretto in testa ed una vistosa medicazione sulla guancia destra; entrambi fissano l'obiettivo , un'aria di sfida nello sguardo quasi tranquillo. Dietro di loro un uomo con i baffi, in impermeabile e basco, una pistola in mano. Più inquietante, quest'ultimo, forse perché non è più giovane!
Questa foto, mostrata così come è stata scattata, oppure tagliata, è diventata un'icona dell'ottobre ungherese ed è servita tanto come omaggio alla giovinezza e alla passione degli insorti, quanto ad accusarli e ad assimilarli al crimine, alla teppaglia, usandoli per illustrare la prosa poliziesca. In un caso e nell'altro, la foto ha continuato a dire quello che vuole dire di quei momenti convulsi in cui Budapest e l'Ungheria si sono alzate in piedi.
Poi, qualcuno ha visto la foto, ed ha deciso, con una buona dose di follia, di mettersi sulle tracce dei personaggi che vi sono ritratti. Sei anni di lavoro tenace, prima quasi da dilettanti poi con una furia sempre più crescente. Sei anni di lavoro ostinato, a separare il vero dal falso, ad evitare vicoli ciechi e false piste, a tracciare ipotesi, a resistere all'eccitazione e allo scoraggiamento. Sei anni, cinque paesi e tre continenti, per individuare dietro ad ogni figura fermata su un negativo cosa è stato a muoverla, ad agire, a cercare di vincer. Ma anche scoprire cosa sono diventati. Sei anni di un'inchiesta minuziosa, in modo da poter restituire a questa fotografia il suo peso storico, collettivo e privato.
E così si viene a sapere che il giovane dal bel volto si chiama Gyuri, e che è morto in quei giorni di battaglia; la ragazza si chiama Yutka, uno dei suoi due fratelli, di 9 anni, è morto, il primo giorno dell'invasione sovietica: fucilato con un colpo per aver lanciato un sasso contro un carro armato. L'altro fratello combatte dall'altra parte. Arriverà avventurosamente in Australia, alla fine. La foto che li ha immortalati non è stata scattata da Jean-Pierre Pedrazzini, bensì da Russ Melcher, fotografo freelance americano.
L'ottobre ungherese, l'altro Ottobre. Il popolo degli insorti, proletari senza leader, senza programma. Volevano cacciare gli occupanti, volevano vivere meglio. Rivoluzione nazionale? Democratica? Sociale? Per dodici giorni, i rivoltosi poterono chiamare "fascisti" tutti gli stalinisti di tutto il mondo, tendendo la strada e inchiodando l'armata rossa, contro ogni previsione.
Furono quello che potevano essere, e lo furono pienamente. Come in quella fotografia.

heros

Phil CASOAR, Eszter BALÁZS
Les héros de Budapest Paris, Les Arènes, 2006, 252 p