Per ogni cittadino di Mosca le giornate sono piene fino all'orlo.
Sedute, commissioni vengono convocate ogni momento in uffici, club, fabbriche, spesso non hanno a disposizione una sede determinata, si svolgono addirittura in angoli di rumorose redazioni, su tavoli frettolosamente sbarazzati di una mensa. Fra tutte queste iniziative si sviluppa una forma di selezione naturale, e anzi una lotta per la sopravvivenza. La società in un certo senso le produce, le organizza, le rende operative. Ma quante volte questo processo deve ripetersi perché alla fine una delle tante sia viva e vitale, sia funzionale, si istituzionalizzi.
Che niente riesca proprio come era stato progettato e come ci si aspettava, quest'ovvio portato della realtà, si impone qui in ogni singolo caso così ineluttabilmente e così prepotentemente da giustificare l'atteggiamento fatalista dei russi. E quando a poco a poco si fa strada nella vita collettiva un tentativo di razionalizzazione, ciò, almeno inizialmente, non fa che complicare la situazione. (In una famiglia che disponga solo di candele si è provvisti meglio che non dove c'è un impianto elettrico la cui alimentazione però è continuamente disturbata).
Nemmeno nella capitale della Russia c'è, malgrado ogni «razionalizzazione», il senso di un valore del tempo. Il Trud, l'istituto sindacale del lavoro, a mezzo di manifesti murali ha condotto, sotto la direzione di Gast'ev, una campagna per la puntualità. Da allora si è assistito a Mosca a una proliferazione di orologiai. Essi si sono concentrati, quasi si trattasse di una corporazione medievale, in certe strade, a Kuznecs-kij Most, nella Ulica Gercena. Ci si domanda a cosa veramente possano servire.
«Il tempo è denaro»: per accreditare una parola d'ordine così strana si è fatto ricorso, nei manifesti, persino all'autorità di Lenin. Tanto è lontana da ciò la mentalità dei russi. Su tutto prevale il loro istinto giocoso. (Si arriverebbe a dire che per loro i minuti sono come un elisir di cui non sono mai sazi, che il tempo li inebria).
Se, ad esempio, per la strada si gira la scena di un film, essi dimenticano perché e dove vanno, si accodano alla troupe per delle ore e arrivano al lavoro frastornati. Nell'impiego del tempo il russo resterà fino all'ultimo «asiatico». - Una volta avevo bisogno di esser svegliato alle sette: «Domani chiamatemi alle sette». Questo provocò nello svejcar - così si chiamano qui i portieri - il seguente monologo shakespeariano: «Se ci ricorderemo, La sveglieremo; se però non ci ricorderemo allora non la sveglieremo. In verità, di solito ci ricordiamo, e quindi in tal caso chiamiamo. E' vero, qualche volta succede che ci dimentichiamo se non ci pensiamo. Allora non svegliamo. Un obbligo vero e proprio non c'è, ma se ci viene in mente al momento giusto allora lo facciamo. Dunque, a che ora vuole essere svegliato? Alle sette? Ecco, adesso lo scrivo; vede, il biglietto lo metto qua. Così lo troveranno. Naturalmente, se non se ne accorgeranno non La sveglieranno. Ma per lo più noi chiamiamo».
L'unità di tempo fondamentale è qui lo sejcas, cioè, il «subito». A seconda dei casi si può sentirselo dire dieci, venti, trenta volte, ma poi bisogna rassegnarsi a lasciar trascorrere ore, giorni e settimane prima che ciò che era stato assicurato in quel modo si verifichi.
Così, non è in genere facile che ci si senta rispondere «no». La risposta negativa resta affidata al tempo. Disguidi catastrofici, assurdi contrattempi sono in tal modo all'ordine del giorno... Essi rendono ricca ogni ora, pieno ogni giorno, un lampo ogni vita.
- Walter Benjamin - da "Immagini di città" -
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