venerdì 25 luglio 2014

Il sonno e i mostri

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La crisi del sistema mondiale ed il nuovo vuoto concettuale
di Robert Kurz

Limitatamente al fatto che, in un'epoca in cui il sistema vigente sembra già essere privo di qualsiasi legittimazione, ci sia ancora qualcuno che pensi in modo riflessivo, questo pensiero stesso rivela un carattere stranamente anacronistico. E ciò non vale solo per il suo contenuto, ma anche per le categorie secondo le quali tale contenuto viene espresso. Così come esistono sempre più nuovi e scioccanti contrasti sociali, i quali, tuttavia, non sono suscettibili di essere spiegati per mezzo di modelli sociologici chiari e inequivocabili, o di concetti di classe, nello stesso modo si possono osservare nuovi conflitti economici, conflitti culturali e guerre su scala globale che ancor meno possono essere descritti usando i concetti tradizionali della politica economica, interna ed esterna. Sebbene il cosiddetto dibattito sulla globalizzazione, promosso a partire dall'inizio degli anni novanta (che ha più o meno coinciso col crollo dell'Unione Sovietica), tenga conto di tutta una serie di nuovi fenomeni, questi continuano ad essere filtrati dalla vecchia griglia categoriale, non essendo disponibile nessun altro sistema di riferimento concettuale. Così, da un lato, si constata una perdita di significato della politica ed una sparizione della sovranità degli Stati, seppure si insista, dall'altro lato, a parlare di queste manifestazioni empiriche ricorrendo ai concetti tradizionali della politica e delle relazioni fra Stati.
A tutto questo si lega il fatto che qualsiasi orientamento, nella misura in cui questo venga quanto meno ricercato, si rivolge quasi inevitabilmente al passato, soprattutto come speranza e ricerca di concetti che puntino ad un qualche "recupero della dimensione politica"; ed è proprio per questo che il modo di vedere il nuovo si rivela fenomenologicamente limitato, in quanto l'impianto concettuale è quello di sempre, e viene difeso con le unghie e con i denti. La stessa cosa si manifesta, non in ultimo luogo, a livello di relazioni internazionali o fra Stati, quando, in modo tanto spaccone quanto inadeguato, si parla di una "politica interna globale". Questa frase fatta, di gran moda e ripetuta senza riflettere fino alla nausea, nei circoli dei verdi e dei socialdemocratici, conferma come tutto questo non vada al di là di una proiezione dei vecchi concetti borghesi sullo schermo di uno sviluppo tanto nuovo quanto non compreso.
Qui, c'è da fare un parallelo con il dibattito circa la crisi della società del lavoro. Anche a tal proposito, si sottolinea continuamente la novità del modo in cui si manifesta, mentre la categoria del lavoro propriamente detta, come un apriorismo tacito, rimane letteralmente tabù e tutti i concetti, e addirittura le ricette miracolose, finiscono per portare alla preservazione di questa categoria sotto una qualsiasi forma, e quasi a qualsiasi prezzo. L'analogia fra i modi di procedere rimanda alla connessione intrinseca fra i due complessi: la crisi del lavoro mondiale e la crisi della politica mondiale rappresentano solo i due aspetti differenti del medesimo processo sociale in corso su scala mondiale.
Mentre la Guerra Fredda era all'ordine del giorno, come conflitto sistemico fra due manifestazioni, o differenti fasi di sviluppo, del moderno sistema produttore di merci, questa si è sovrapposta ad un problema assai più fondamentale, che in tal modo è passato inosservato. Sotto la pelle della Guerra Fredda si venne costituendo una struttura di crisi con ramificazioni operative su scala mondiale, la quale, con il crollo del capitalismo di Stato, venne alla luce senza preavviso; ma, nel contesto della storia del dopoguerra, poté essere percepita solamente in forma ideologicamente distorta.
Quella che sembrava essere la "vittoria" del capitalismo occidentale venne rivelandosi, nel corso degli anni novanta, come una distruzione socioeconomica irreversibile, ovviamente, di parti estese della periferia del mercato mondiale. Al centro di questo processo di crisi si trova il dissolvimento (ad opera della terza rivoluzione industriale) della sostanza reale (produttrice di valore reale) del lavoro capitalista, la crescente "incapacità di sfruttamento" da parte del capitale, dovuta ai suoi propri modelli tecnologici di produttività e, con essa, la desustanzializzazione del denaro (la dissociazione dei mercati finanziari dall'economia reale). Questa logica interna della crisi, tuttavia, non si ripercuote solo sotto forma di una rottura strutturale a livello delle relazioni mondiali di mercato (globalizzazione del capitale), ma anche come rottura strutturale a livello di sistema politico mondiale (fine della sovranità e del diritto internazionale).
Sotto questo punto di vista, quello che viene proclamato, sotto l'etichetta della globalizzazione, come un cambiamento mondiale positivo e dotato di un grande potenziale per il futuro, già da molto tempo può essere decifrato come il processo di dissoluzione del modo di produzione e di vita prevalente, il quale si biforca in un capitalismo minoritario globale in via di rarefazione, da una parte, e nei suoi prodotti di imbarbarimento, dall'altra. In questo contesto, la contraddizione strutturale immanente alla relazione del capitale tra lo Stato ed il Mercato, o tra la politica e l'economia, non può essere sostenuta per più tempo, sia a livello di Stati nazionali che a livello di sistema mondiale. Cosa che, in termini di politica interna, si manifesta come processo di erosione della sovranità dello Stato, e si manifesta, in termini di politica estera, sotto forma di degrado delle relazioni internazionali.
Ad entrambi i livelli, diventa sempre più difficile una risoluzione della contraddizione. Anche se gli Stati nazionali continuano ad esistere come involucri formali e come apparati (che agiscono, nell'ambito dell'amministrazione di crisi, in modo sempre più repressivo), si vedono spogliati delle loro basi coerenti in termini economici. I capitali transnazionali e i loro rispettivi mercati, al contrario, si trovano ad estendersi molto al di là del sistema di riferimento nazionale ed internazionale tradizionale, distruggendo per questo stesso motivo sempre più le loro condizioni di inquadramento. In tal modo, sorgono nuove ed incontrollabili forme di transizione, nelle quali culminano le insanabili contraddizioni del capitale mondiale.

Non è solo una pigrizia mentale generalizzata quella che impedisce lo sviluppo di una nuova concettualità che corrisponda ai nuovi fenomeni. Gli è che non si tratta, in ciò che si riferisce ai concetti in gioco - che sono l'economia nazionale, lo STato nazionale, la politica nazionale interna ed estera o la susseguente politica nazionale di interessi e di "influenza (imperialismo) -, di espressioni di una determinata fase evolutiva transitoria ma, come con il concetto del lavoro, di categorie fondamentali dello stesso sistema sociale moderno in tutte le sue varianti. I nuovi fenomeni sono fenomeni di crisi di un tipo inedito, poiché non portano verso uno stadio evolutivo superiore di socializzazione borghese, mediata per mezzo della produzione di merci, ma costituiscono la crisi categoriale specifica di tale socializzazione.
Pertanto lo sviluppo non può essere più determinato dal punto di vista dell'ordine mondiale vigente, ma può esserlo unicamente dal punto di vista della sua corrispondente autodistruzione. Per essere più precisi: non esiste nessun "sviluppo" positivo e sostenibile su questa base sociale. Questo significa che l'analisi deve prendere in considerazione, insieme al degrado delle relazioni sociali soggiacenti, anche il franare dei concetti dai quali quest'ordine si fa rappresentare. E, sotto questa prospettiva, non sono obsoleti solo i concetti del sistema mondiale economico, ma lo sono anche i concetti del sistema mondiale politico.
I devastanti attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti hanno chiarito in un battito di ciglia, letteralmente, quello che già da molto tempo si riusciva ad indovinare: l'interrelazione sociale su scala mondiale, non ottenuta per mezzo di accordi coscienti e di autodeterminazione umana, ma attraverso le leggi cieche della concorrenza e dei mercati finanziari, non solo produce nuovi tipi di crisi strutturale, ma anche nuovi potenziali soggettivi di odio e di distruttività  nei quali si manifesta la decomposizione della "soggettività politica" borghese. Dal sonno della ragione nascono mostri, e avviene che la "mano invisibile" di un economicismo totalitario sfrenato produce i suoi con altrettanta poca compassione e pietà dell'altra "mano invisibile", quella di una cieca rabbia "post-ideologica" e "post-politica", il cui balbettamento pseudo-religioso comprova in modo involontario che qualsiasi legittimazione razionalista della cosiddetta "modernizzazione" non è più possibile.
La "ratio" della società mondiale, basata sulla valorizzazione infinita in quanto movimento spontaneo de capitale monetario, è, di per sé, questo sonno della ragione. Tuttavia, tale razionalità moderna di un fine in sé irrazionale, degenerata in "pragmatismo", ossia che non è capace di una riflessione e di un'auto-riflessione critica, non può e non vuole vedere i propri limiti e, così, continua a proseguire ostinatamente con il "business as usual", cercando di identificare i suoi propri demoni come un "problema di sicurezza" esterno ed esogeno. L'inarrestabile dissoluzione dell'economia, si suppone che possa essere fermata con mezzi economici, mentre si pretende di frenare l'ugualmente inarrestabile dissoluzione politica, con mezzi politici. I padroni mondiali del capitale non comprendono il loro proprio mondo.
Per poter arrivare a comprendere quello che sembra incomprensibile, è necessario adottare - del tutto in contrasto con l'ideologia pragmatica delle élite funzionali al potere che oggi, a dire il vero, eseguono solo la pretesa totalitaria dell'economia sul mondo - una posizione, assai poco in voga, di distanza e di critica radicale. Solo a partire da questa posizione diventa possibile riconoscere come tali i processi di decomposizione e di autodistruzione del sistema mondiale, analizzare tutte queste correlazioni nella loro rispettiva dimensione storica e, allo stesso tempo, certificarli come il limite della dinamica capitalista con cui oggi abbiamo a che fare.

- Robert Kurz -
(Introduzione a: "Weltordnungskrieg. Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus in Zeitalter der Globalisierung" - Bad Honnef 2003, 447 pages)


fonte: EXIT!

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