LA CENTRALIZZAZIONE DEL CAPITALE E LA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO
- Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del McKinsey Global Institute -
di Giordano Sivini
L’economia mainstream considera il sistema finanziario come creatore di ricchezza. Stavros Mayroudeas, economista greco, osserva che anche una parte degli economisti marxisti sono contagiati da questa tesi, e che il contagio viene espresso con molte sfumature slegando il profitto dal rapporto con la valorizzazione. « La tesi di base è che il capitalismo moderno ha subito una trasformazione radicale negli ultimi trent’anni. Il sistema finanziario, attraverso una serie di meccanismi innovativi, ha conquistato le posizioni di comando del capitalismo. È diventato indipendente dal capitale produttivo ed ha trasformato l’intero sistema secondo le proprie logiche » [*1].
Questa tesi porta a concentrare l’analisi sul rapporto D-D’, dimenticando che, in qualsiasi interpretazione che si richiami al marxismo, il capitalismo non può che essere identificato con la produzione di plusvalore, risultato della relazione D-M-D’. La centralità dei processi di valorizzazione è essenziale, sia quando si intende, con Harvey, che il capitale si trasforma indefinitamente, sia quando, a partire da Kurz, si sostiene che si è arrestata la sua capacità di produrre valore. Da qui muove l'interpretazione del passaggio dalla valorizzazione alla finanziarizzazione come risultato di una crisi del capitale produttivo di merce che provoca l’inversione del suo rapporto con il capitale produttivo di interesse. Questo, non potendo accrescersi nel circuito D-M-D’, si riversa su D-D’ e produce capitale fittizio [*2].
L’attuale inversione non è riconducibile alla teoria delle crisi segnate da temporanee inversioni nelle quali il credito contribuisce a riattivare il movimento di un capitale che continuamente si ridefinisce. Fino a quando di questa riattivazione non emergono almeno i sintomi, non si può scartare l’ipotesi che la crisi attuale vada collocata nella fase terminale del tempo lungo della caduta del tasso di profitto, una volta esaurita la capacità del capitale di produrre controtendenze. A stimolare una riflessione in proposito arrivano i dati di un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI) [*3], multinazionale di consulenza manageriale che monitora il movimento del capitale globale. Presenta i risultati economici comparati delle più grandi società madri del mondo nel 2014-16 e nel 1995-97. La rielaborazione di questi dati, dei quali si dà conto più avanti, mette in evidenza che è in atto nell’ultimo ventennio un processo crescente che MGI definisce di “distruzione di valore” le cui cause vengono attribuite al capitale finanziario. Una interpretazione basata su categorie marxiane del rapporto di MGI porta a conclusioni fondate empiricamente. Il capitale fittizio, a fronte del credito anticipato per la valorizzazione, obbliga il capitale produttivo di merce (inteso come insieme delle più grandi società mondiali), a trasferire a chi lo detiene una quantità sorprendentemente alta di rendimenti che riduce drasticamente il profitto. La centralizzazione viene accelerata perché gli effetti sulla realizzazione delle merci sono selettivi. La dinamica competitiva spinge le società con margini di ricavo più alti verso posizioni oligopolistiche e le altre verso condizioni zombie che rimangono in vita fino a che il capitale fittizio trova modo di appropriarsi del valore che a fatica producono.
Grande inversione e caduta del tasso di profitto
Nello schema marxiano dell’accumulazione il capitale produttivo di merce è denaro che si accresce attraverso il plusvalore, prodotto dal lavoro vivo, appropriato privatamente per essere realizzato nella forma della merce e generare profitto. Il capitale produttivo di interesse è invece denaro che si accresce con una parte di quel profitto, come interesse eccedente il rimborso del credito anticipato al capitale produttivo di merce affinché si riproduca in maniera allargata. Si tratta di due forme di capitale prodotte dalla valorizzazione, che alimentano il processo di accumulazione, entrando in relazione all’interno del circuito industriale in cui si muove il capitale nelle sue forme di denaro e di merce. Quando la relazione viene formalizzata, il capitale produttivo di interesse ottiene un titolo di credito in base al quale il capitale produttivo di merce si impegna con il profitto risultante dalla valorizzazione a pagare interessi e a rimborsare il debito. Se, invece di erogare credito, il capitale produttivo di interesse entra in compartecipazione con il capitale produttivo di merce, questo emette un titolo azionario impegnandosi a versargli parte dei profitti come dividendi. Gli accordi avvengono nel circuito industriale, i titoli si generano nel circuito finanziario, nel quale entrano anche i titoli pubblici che lo Stato emette facendo gravare gli oneri degli interessi e del debito sul bilancio pubblico.
I titoli sono definiti da Marx capitale fittizio in quanto, a differenza delle merci, non sono frutto di un processo di produzione che attribuisce loro un contenuto di valore. Sono emanazione del capitale produttivo di merce, al quale restano legati in quanto ‘attività sottostante’ che li remunera. Si muovono nel circuito finanziario come strumenti per incanalare verso chi li detiene il denaro proveniente dal settore industriale nella forma di rendimenti (interessi, dividendi) e di plusvalenze generate da variazioni del loro prezzo negli scambi.
La relazione D-D’ è incardinata nel circuito industriale, in quanto D’ è la quantità di denaro, comprendente il rimborso del credito e degli interessi, al quale deve far fronte il capitale produttivo di merce con parte del profitto. L’incremento ?D, costituito dal denaro corrispondente ai rendimenti, passa dal circuito industriale ai detentori del capitale fittizio. Se la valorizzazione momentaneamente si blocca e il profitto non viene realizzato, la relazione col capitale produttivo di interesse resta aperta e deve essere rinegoziata. Quando invece viene realizzato il profitto, ma la parte che resta dopo la liquidazione del debito non trova occasioni di reinvestimento produttivo, il relativo denaro si riversa nel circuito finanziario per l’acquisto di titoli e per attività speculative.
I titoli sono dunque lo strumento del trasferimento della quantità di denaro ?D, che esiste nella forma di ricchezza reale nel circuito industriale, a coloro che ne detengono la proprietà in forza del credito che hanno anticipato o dell’acquisto del titolo sul mercato finanziario. Se questo denaro viene investito nel percorso D-M-D’ nella forma di capitale produttivo di interesse, come credito che origina titoli e rendimenti, oppure nel percorso D-D’ come ricchezza per acquistare altri titoli, dipende dalla prospettiva di maggiori ricavi a parità di rischio.
Gli economisti marxisti citati da Mayroudeas definiscono il risultato ?D del processo D-D’ come profitto senza accorgersi che consiste in una sottrazione di valore. Profiting without producing, è l’espressione più evidente della confusione tra incremento di denaro nel circuito finanziario e in quello industriale [*4].
Il processo di accumulazione è soggetto a ricorrenti crisi, che nell’interpretazione di Harvey sono definite di sovra accumulazione. Sono dovute ad un blocco del movimento del capitale che viene superato con l’intervento del capitale produttivo di interesse, previa svalutazione di ciò che lo genera. « Il capitale detenuto sotto forma di denaro può essere svalutato dall’inflazione; la forza lavoro può essere svalutata dalla disoccupazione e dalla caduta dei salari reali; le merci detenute in forma finita o parzialmente finita vengono vendute in perdita; il valore incorporato nel capitale fisso può essere perso perché giace inattivo. I meccanismi sono diversi in ciascun caso e gli impatti variano a seconda del tipo di svalutazione » [*5]. Ogni crisi fa storia a sé, dal momento che, secondo Harvey, al suo superamento il capitale si ridefinisce. « Ritengo », scrive invece Bellofiore, « che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio di profitto (...) interpretata come una sorta di meta-teoria delle crisi, che ingloba al suo interno le altre diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale » [*6].
Il saggio di profitto esprime il grado di valorizzazione dell’intero capitale anticipato, risultando dal rapporto tra plusvalore e capitale costante più capitale variabile. Marx ritiene che la caduta sia determinata dal processo storico non lineare ma cumulativo della crescita incessante della produttività costretta dalla concorrenza. Cambia la composizione tecnica del capitale in quanto il lavoro viene sostituito da macchine, e cambia anche la sua composizione organica, poiché il rapporto in valore tra capitale costante e capitale variabile si modifica in favore del primo. Poiché solo la parte variabile, nella forma del lavoro vivo, crea valore, la sua riduzione si ripercuote negativamente sul plusvalore e sul profitto.
Se la riduzione del profitto limita la capacità di riproduzione del capitale produttivo di merce, il capitale produttivo di interesse interviene con il credito per colmare il deficit di investimento. L’inversione provvisoria del suo rapporto con il capitale produttivo di merce rimette quest’ultimo in movimento con le proprie gambe realizzando una controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto. La ripresa della produzione di plusvalore può dipendere dal contenimento dei costi del capitale costante o dalla espansione del commercio. Ma risulta soprattutto dall’indebolimento della forza contrattuale o della forza strutturale del lavoro, che consente il prolungamento e l’intensificazione del tempo lavorativo, la compressione del salario al di sotto del valore dei beni di sussistenza, l’aumento dell’esercito di riserva. Si aggiunge come controtendenza, secondo una recente letteratura, la finanziarizzazione, quando mitiga le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori con il loro indebitamento, e quando mobilita risorse a disposizione del capitale produttivo di merce per investimenti profittevoli su beni messi sul mercato dallo Stato. « In questo modo essa ha rallentato – e per alcuni anni invertito – la tendenza alla caduta del saggio di profitto » [*7].
La grande inversione tra capitale produttivo di merce e capitale produttivo di interesse sembra prospettare per il modo di produzione capitalistico la resa dei conti. Tutti i fattori che nel passato hanno stimolato processi di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto si rivelano inefficaci per rilanciare l’accumulazione allargata. Su questa resa dei conti si sviluppa nel marxismo una divaricazione interpretativa che trova fondamento teorico nella diversa concettualizzazione del capitale, come rapporto antagonistico tra capitale e lavoro oppure come soggetto automatico.
Entrambi i fronti incontrano difficoltà ad elaborare una prassi adeguata alla situazione. In continuità con la storia dal movimento operaio, si postula la riattivazione del conflitto di classe pur senza individuare il terreno in cui far emergere la classe come soggetto. Per imboccare una qualche via che porti a una qualche forma di socialismo sarebbero necessarie nuove mediazioni con il capitale e con lo Stato. All’opposto, viene sostenuto un atteggiamento intransigente verso tutte le forme di cui si nutre un capitale, in esplicita rottura con il movimento operaio in quanto soggetto storico che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo rinunciando all’obiettivo del suo superamento, Manca però una strategia di mobilitazione per resistere alla compressione inarrestabile delle condizioni di vita. La ricerca della classe incontra i frammenti del lavoro salariato e del terzomondismo. La lotta al capitale sembra esprimersi con la precaria insorgenza dei gilet gialli che faticano a liberarsi delle categorie storiche legate al lavoro.
Caduta del tasso di profitto e centralizzazione del capitale
Sulle sorti del capitalismo possono far luce alcune dinamiche del capitale produttivo di merce, sul quale il capitale fittizio è radicato. La centralizzazione del capitale è un processo legato all’andamento storico non lineare del tasso di profitto. Marx definisce la caduta del tasso di profitto come una minaccia per lo sviluppo dell’accumulazione e come leva della centralizzazione del capitale. A questa concorre il capitale produttivo di interesse, il quale, come credito e come capitale fittizio, è definito da Marx “immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” utilizzato dal capitale produttivo di merce nella “espropriazione del capitalista ad opera del capitalista” e nella “trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi”.
Tra i diversi modi in cui viene definita la centralizzazione del capitale due sono prevalenti. Uno registra il livello di controllo di pochi soggetti su consistenti insiemi di grandi capitali individuali. L’altro analizza la dinamica che rafforza alcuni grandi capitali a spese di altri. In un recente articolo è stata rilevata la mancanza di studi, e in particolare di studi accademici empirici, sulla relazione tra centralizzazione e crisi economica. « Ne consegue che l’esistenza o meno di una tendenza globale del capitale a centralizzare in poche mani, e le relative complesse dinamiche economiche strutturali che possono implicare, rimangono un mistero irrisolto » [*8].
Il contributo conoscitivo che viene dato da questo articolo riguarda la convergenza della proprietà azionaria relativa ad un insieme di 2750 società che nel mondo hanno una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari, e la sua dinamica tra il 2001 e il 2016. Riprendendo una metodologia adottata da altri studiosi limitatamente al 2007 [*9], è stata costruita una “rete globale di controllo” sulle società costituita da nodi di relazioni tra grandi investitori. È stato constatato che un piccolo gruppo, non superiore al 2 per cento, è presente in un insieme di società monitorate, alle quali fa capo l’80 per cento del valore economico globale, e che nel periodo considerato c’è una tendenza all’aumento della concentrazione. Lo studio citato non ne indaga le cause. Indicazioni in proposito emergono invece dal citato rapporto del McKinsey Global Institute, che tuttavia non affronta il problema del controllo proprietario. Si occupa della ‘creazione di valore’, intesa come ‘profitto economico’, cioè profitto al netto dei costi finanziari [*10] delle società madri che nel mondo realizzano un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari nei trienni 2014-16 e 1995-97. Per il 2014-16 sono prese in considerazione 5750 società, sia quotate in borsa sia a capitale privato, di cui il 20 per cento nel settore finanziario e nei servizi. Realizzano i due terzi dell’attività economica societaria globale con 10.7 triliardi di ricavi lordi medi annui sui 15.9 triliardi di tutte le grandi e piccole società [*11]. Stanno nella fascia più alta di un insieme di 33 mila società madri che hanno un fatturato superiore a 200 milioni di dollari, comprese a loro volta in una base dati di 600 mila società monitorate.
La loro distribuzione in decili secondo profitti economici (tabella 1) mette in evidenza che l’81 per cento del totale, pari a 1355 miliardi di dollari, sono centralizzati nelle 575 società del primo decile; il resto si distribuisce in misura decrescente tra il secondo e il quinto decile; mentre in quelli successivi ricadono società che non realizzano profitti economici, che cioè, nei termini del rapporto MGI, ‘distruggono valore’. Il risultato complessivo delle 5750 società madri è negativo per - 345 miliardi.
Una comparazione tra primo e ultimo decile sulla base di indicatori relativi alla struttura e alla dinamica societaria (tabella 2) mostra che la consistente produzione di profitti economici del primo decile e l’altrettanta consistente distruzione di valore dell’ultimo decile fanno capo a due aggregati di società divergenti quanto a dinamiche produttive.
Tra ricavi medi annui e numero di dipendenti c’è un modesto scarto tra i decili estremi, ma marcatamente più elevato rispetto alle società che ricadono nei decili intermedi. La dinamica positiva del primo decile è data, rispetto all’ultimo decile, da un rendimento sul capitale (ROIC) quasi 5 volte più elevato, e da ricavi dalla produzione al netto dei costi finanziari, delle imposte e degli ammortamenti (EBIT) di 3 volte superiore, conseguenza di una struttura molto meno gravata da capitale fisso utilizzato in maniera 3 volte più produttiva; da investimenti in R&D molto più alti; da una maggiore apertura al mercato estero [*12].
Le società dell’ultimo decile si distinguono per capitale fisso alto con risultati produttivi molto scarsi a fronte di una alta produttività del lavoro, bassi ritorni sul capitale investito, bassi investimenti in R&S. La mancata capacità di creare profitto è conseguenza di una struttura che non si rinnova. Il rapporto aggiunge che un quinto di queste società ricade nella categoria delle imprese zombie, aumentate dopo la crisi finanziaria, che stanno sul mercato competendo sui salari e sui prezzi, senza essere in grado di far fronte a tutti gli interessi sul debito [*13].
Tra i due decili estremi si colloca il 60 per cento di società con profitti economici che si aggirano attorno allo zero, molto più piccole in termini di struttura produttiva (capitale fisso e dipendenti) e ricavi. Nel complesso sono un po’ più dinamiche rispetto alle società dell’ultimo decile quanto ad investimenti in R&D, margini operativi e ritorni sul capitale investito, tuttavia hanno più bassa apertura all’estero e soprattutto la più bassa produttività del lavoro.
I dati del 2014-15 messi a confronto con quelli relativi a 2450 società madri (il 30 per cento delle quali appartiene al settore finanziario e dei servizi) che nel 1995-97 hanno un fatturato medio annuo superiore al miliardo di dollari (tabella 3) indicano che, nell’assetto societario complessivo monitorato da MGI, si verificano nel ventennio due movimenti di centralizzazione, a livello complessivo e a livello societario: il numero delle grandi società aumenta di 2,4 volte, i profitti del primo decile di 1,6 volte, la distruzione complessiva di valore di 1,7 volte (nel 2014-16 il risultato negativo complessivo delle 5750 società è di -341 miliardi di dollari rispetto ai -205 delle 2450 società di venti anni prima).
La crescita dei profitti economici della fascia societaria più alta, che si rispecchia nelle perdite economiche crescenti della fascia più bassa, suggerisce, secondo il rapporto, « che oltre alle dinamiche specifiche delle società, potrebbe operare una dinamica macroeconomica più generale » [*14]. Questa osservazione, riferibile al processo di concentrazione, non viene tuttavia sviluppata. Anzi nel rapporto, al di là delle osservazioni relative ai decili, non si tirano neppure le somme del profitto economico totale nei due periodi, trascurando la persistente e crescente complessiva distruzione di valore.
Un’altra equipe di MGI fornisce però alcune indicazioni in una pubblicazione rivolta ai manager [*15]. Con ricchezza di riferimenti a situazioni societarie concrete vengono esaminati i risultati delle 2393 più grandi società non finanziarie del mondo dal 2010 al 2014. « Hanno avuto ciascuna un profitto operativo medio annuo di 920 milioni di dollari. Per realizzarlo hanno investito circa 9,3 miliardi di capitale, acquisizioni incluse. Dividendo una cifra per l'altra si ha un ritorno sul capitale investito del 9,9 percento. Ma gli investitori e i prestatori per compensare l'uso dei loro fondi hanno richiesto un rendimento di 8.0% (costo medio ponderato del capitale), pari quindi ai primi 740 milioni di profitti. Restano dunque 180 milioni di profitto economico » [*16].
Questi dati si riferiscono ad una società media, « ma il mercato intacca continuamente i profitti di ciascuna società » e provoca un andamento differenziato tra quintili che « sta diventando più ripido nel tempo » [*17]. Il primo quintile aveva un profitto economico annuo di 186 miliardi nel 2000-4 e dieci anni dopo di 684 (3.7 volte); l’ultimo quintile un risultato negativo di 61 miliardi aumentato a 321 (5,3 volte).
Conclusioni
Il rapporto MGI non analizza la distribuzione societaria del profitto netto realizzato con il capitale investito, ma quella del profitto economico, che risulta detraendo dal profitto netto il costo annuo di questo capitale, costituito sostanzialmente da interessi e dividendi destinati a chi lo ha anticipato. Già si è visto, per la società media non finanziaria nell’analisi per quintili, che il capitale complessivo di 9.3 miliardi di dollari costa annualmente 740 milioni tra interessi e dividendi, i quali vanno dedotti dal profitto operativo netto annuo di 920 milioni di dollari, così che il profitto economico è di soli 180 milioni, pari al 20 per cento del profitto netto. Il restante 80 per cento, secondo MGI, va ad alimentare il capitale finanziario [*18].
Per estendere l’esame alle società analizzate da MGI secondo decili si può fare riferimento all’indicatore EBIT della tabella 3, che esprime, in percentuale rispetto al profitto operativo netto, il risultato societario prima delle imposte, degli oneri finanziari e degli ammortamenti. Le società del primo decile hanno un EBIT di 10.1, quelle dell’ultimo di 3.3, e per quelle dei decili mediani 3.8. Posto 100 il profitto operativo, ciò che gli viene sottratto da oneri finanziari, imposte e ammortamenti è pari rispettivamente a 89.1, 96.7 e 96.2 per cento. Si ricorderà che secondo MGI solo le società del primo decile realizzano un profitto economico positivo, quelle mediane si aggirano attorno allo zero; quelle dell’ultimo decile distruggono valore. La distruzione complessiva di valore in aumento nell’ultimo ventennio è dunque dovuta all’appropriazione del ricavato delle attività produttive da parte del capitale finanziario.
Al fine di una sintesi basata su categorie marxiane si può assumere che le informazioni fornite da MGI siano tutte riferite a società non finanziarie, dal momento che queste ultime, non separabili dalle altre, costituiscono solo il 30 per cento del totale nel 1995-97 e il 20 nel 2014-16.
Nel processo produttivo – si sa – il capitale variabile produce valore come lavoro vivo; il capitale costante trasmette invece al prodotto il valore che già incorpora. L’uno e l’altro realizzano valore e plusvalore se ne vengono anticipati i costi: il capitale costante in quanto materie prime e mezzi di lavoro, il capitale variabile in quanto salari. Il costo del capitale costante è determinato dal mercato; quello del capitale variabile può essere compresso a seconda della forza contrattuale e strutturale del lavoro.
L’anticipazione dei loro costi viene fatta dal capitale produttivo di interesse dietro emissione di titoli che esigono rendimenti i quali aumentano questi stessi costi. I titoli si incuneano dunque tra il plusvalore e il profitto riducendo quest’ultimo, che è eguale al plusvalore una volta detratti i costi di produzione. Si riduce anche il saggio di profitto in quanto costituito dal rapporto tra plusvalore e costi di produzione.
Naturalmente per realizzare il plusvalore e il profitto è necessario che siano vendute le merci prodotte. Il trasferimento sui loro prezzi dei maggiori costi di produzione dipende da diversi fattori. Per definirli è utile distinguere in seno al capitale produttivo di merce tra le società che si trovano ai decili estremi della distribuzione MGI per profitto economico.
Quelle collocate nel primo decile cedono mediamente l’89 per cento dei ricavi al capitale fittizio. Realizzano però una alta redditività dal credito anticipato, che consente loro di contenere il trasferimento sul prezzo delle merci di tutti gli oneri che il debito comporta. Dispongono anche di risorse aggiuntive per svilupparsi dinamicamente rispetto alle imprese concorrenti. Si muovono verso posizioni oligopolistiche o le hanno raggiunte. Per esempio, « Apple e Samsung insieme, le due società produttrici top di smartphone, realizzano tutto il profitto economico del settore, mentre gli altri produttori distruggono valore » [*19]. Queste società investono in R&S per aumentare la sua produttività e ridurre gli immobilizzi in capitale fisso e quindi i costi del capitale costante e i sovra costi delle anticipazioni creditizie. Si allargano nel mercato, si espandono con fusioni e acquisizioni e probabilmente traggono ricavi da attività di credito al consumo e da investimenti speculativi in titoli. Distribuendo dividendi 2,4 volte più alti delle società dell’ultimo 60 per cento, vengono premiate dagli investitori « perché offrono ritorni in grado di battere il mercato » [*20]. Guidano il processo di centralizzazione del capitale produttivo di merce.
Le società che in varia misura hanno invece un peso di capitale fittizio tanto alto da non disporre di risorse per innovare, continuano a produrre valore riproducendosi in maniera non contingente. Si basano su una alta produttività di un ristretto numero di dipendenti fissi per ricavare ritorni economici scarsi da una quantità enorme di capitale fisso. L’OCSE lamenta che le imprese zombie, pur con persistenti difficoltà nel pagamento degli interessi, non scompaiono. Sono la manifestazione empiricamente eclatante della parte di capitale produttivo di merce che arranca, tenuto in piedi dal capitale fittizio che succhia valore fin che c’è. Mantiene l’ancoramento all’attività sottostante in maniera flessibile, allungando le scadenze dei rendimenti, rinnovandone le condizioni, moltiplicando i titoli.
Nella grande inversione il capitale fittizio spinge ad innalzare la produzione di plusvalore e di profitto oltre la soglia della sua remunerazione. Il capitale produttivo di merce può così disporre delle risorse necessarie per realizzare in maniera competitiva il valore prodotto nel percorso oligopolistico competitivo che lo centralizza, riproducendo su scala allargata solo la parte che le utilizza in maniera efficace. Condizione di competitività è l’aumento incessante della produttività del lavoro rispetto al capitale costante selettivamente investito per aumentare la massa di merci in un processo produttivo che riduce il lavoro vivo. Questo processo di centralizzazione, diversamente dal passato, non elimina le sopravvivenze della parte di capitale produttivo di merce gravato da elevati immobilizzi fissi, che danno scarsi ritorni economici nonostante l’alta produttività del lavoro. Le trascina invece fino a quando il capitale fittizio può nutrirsi del loro valore.
- Giordano Sivini - Pubblicato il 14 giugno 2019 su Palermo*Grad. La crisi vista dal sud -
NOTE:
[1] Mavroudeas S.T., The Financialisation Hypothesis and Marxism: a Positive Contribution or a Trojan Horse? Counterpunch, May 11, 2018.
[2] Sivini G., La grande inversione: dalla valorizzazione alla finanziarizzazione, Palermograd, 18 e 25 gennaio 2019.
[3] McKinsey Global Institute, Superstars. The dinamics of firms, sectors, and cities leading the global economy, Discussion Paper, October 2018.
[4] Lapavitsas C., Profiting without producing, London, Verso, 2013. Per legittimare nella prospettiva di Marx il termine profitto come risultato di operazioni finanziarie Lapavitsas fa incredibili contorsioni: cfr. pp. 141-144.
[5] Harvey D., Limits to capital, London, Verso, 2006, p. 196
[6] Bellofiore R., La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste, Asterios, 2012, p. 14.
[7] Giacché V., La caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi attuale, in Ponzi M. (a cura di), Karl Marx e la crisi, Macerata, Quodlibet, 2017.
[8] Brancaccio E., Giammetti R., Lopreite M., Puliga M., Centralization of capital and financial crisis: a global network analysis. Structural Change and Economic Dynamics, 45, 2018.
[9] Vitali S., Glattfelder J.B., Battiston S., The Network of Global Corporate Control. PLoS ONE, 6, 10, 2011.
[10] Il profitto economico eguale al profitto operativo netto sottratti i costi finanziari per remunerare investitori, azionisti e debitori.
[11] McKinsey Global Institute, Superstars. cit, p. 7.
[12] Ivi. p. 26.
[13] McGowan M.A., Andrews D., Millot V., The Walking Dead? Zombie Firms and Productivity Performance in OECD Countries, OECD Economic Department Working Papers 1372, 2017.
[14] Ivi, p. 2.
[15] Bradley C., Hirt M., Smit S., Strategy beyond the hockey stick: People, probabilities, and big moves to beat the odds, Hoboken, Wiley, February 2018.
[16] Ivi, p. 41
[17] Ivi, p. 47.
[18] Tecnicamente si tratta del WACC (Weighted Average Cost of Capital), costo ponderato dei rendimenti di tutte le fonti del capitale (azioni, obbligazioni e ogni altro tipo di debito a lungo termine).
[19] Ivi, p. 57.
[20] Ivi, p. 41.
fonte: Palermo*Grad. La crisi vista dal sud